Su “Insegnare”, rivista online del CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), è uscito il 19 luglio 2017 un bel saggio della studiosa Antonella Tredicine, che è insegnante e referente per l’intercultura e la scolarizzazione degli alunni Rom presso la sede di titolarità. Al centro del lavoro è l’attenzione alle forme di una possibile alternativa ai modelli pervasivi di controllo che, secondo la lettura foucaultiana, il neocapitalismo ha escogitato e messo in atto nella modernità per un efficace totalitarismo consumistico. Tra le vie di fuga la pratica del dubbio, la volontà del conoscere, la ricerca del non consumabile, magari sull’eco della lezione di Pasolini e del modello di gratuità offerto dal linguaggio poetico.
Ringraziamo l’autrice e Mario Ambel, direttore della rivista, per l’autorizzazione alla pubblicazione del saggio.
Pensando “con la cieca testardaggine della poesia”
di Antonella Tredicine
www.insegnareonline.com/rivista/cultura-ricerca-didattica/pensando-cieca-testardaggine-poesia
Una novità scandalosa “contro il nostro intimo conformismo”
Solo nell’attimo in cui si è a tu per tu con la regola da infrangere si può sfiorare la rivelazione della verità.
(Pasolini, Il cinema impopolare)
Chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e
assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi.
(Agamben, Che cos’è un dispositivo)
Tra specchi deformanti che confondono l’apparire e l’essere, dove «tutto ciò che ci serve per manifestarci è acquistato» [1] spesso ignoriamo cos’è importante conoscere. Nel mondo contemporaneo, fondato sull’allargamento del modello di produzione capitalistico, i percorsi culturali di coloro che hanno smascherato l’Ordine condiviso ci consentono di leggere il potere come artefatto culturale, aprendosi all’ “etica della possibilità” di un’ ontologia del presente. Ed è qui che il potere diventa il criterio di leggibilità dei comportamenti collettivi, della comunicazione con gli altri e delle visioni del mondo. Contro la pervasività della governamentalità, le sue nuove e più oculate forme che sorvegliano e disciplinano i corpi, il pensiero nomade decostruisce le certezze sulle quali si fondano il sapere e le azioni quotidiane, mostrando le faglie del sistema che vorrebbe inglobare il corpo sociale.
Le Voci che sottendono questo contributo, parti di ampi progetti culturali nel nome della parresia, esprimono resistenze agli apparati che, oggi più di ieri, vogliono renderci “stupidi adoratori di feticci” e, pur nella diversità delle lenti usate, si situano nella zona di liminalità tra l’apparenza e la verità, interrogando l’intollerabile presente mossi da un imperativo etico e poetico: “Bisogna capire”.
Cosa bisogna capire? Quali sono i dispositivi con cui si elaborano i messaggi e si concretizza la mentalità? Come agiscono? Quali strategie adottare per sottrarci alla loro apparente neutralità, per resistere all’omologazione planetaria? Ripensare le “moderne mitologie” significa indagare su come si definiscono e si applicano le “tecnologie morali” alla base delle pratiche di imprigionamento e come questo modo di operare viene accolto al punto da apparire come un fatto naturale, rassicurante, indispensabile.
Declinato nelle sue opportunità di “un agire che qualifica”, il capire è parola-chiave che esorta ad andare contro il carattere depositario di una conoscenza strutturata e dogmatica, in opposizione all’ “addomesticamento della diversità”, che rende docili in una dinamica logica di costi-benefici.
Tra forme di imprigionamento (l’apparenza, l’inganno, il non-appartenersi, l’acquisto) e possibilità di fuga (la verità, la vitalità, la gratuità dei rapporti personali, della poesia) erriamo, non pigri, nei magazzini luminosi con rinnovata capacità di discernimento e continuiamo a prendere appunti.
Frammenti che dobbiamo reiterare nell’urgenza di un discorso più umano.
L’attualità del disvelamento pasoliniano
Le familiari rappresentazioni della modernità come “gabbia d’acciaio” – in cui l’immaginazione è impedita dalle forme del consumo e dal controllo generalizzato – e la descrizione foucaultiana del potere disciplinare ora relazionale e multiplo – definito attraverso processi operati in nome del benessere, della sicurezza pubblica e privata, della riproduzione delle relazioni di produzione -, trovano la loro intensità non nella figura del sovrano ma nei corpi che vengono assoggettati attraverso azioni materiali e mentali. Un’egemonia di un ordine sociale stratificato in cui gli elementi subordinati si allineano e aderiscono, interiorizzandoli, ai valori dominanti.
Come non concordare con Agamben quando definisce «la fase estrema dello sviluppo capitalistico che stiamo vivendo una gigantesca accumulazione e proliferazione di dispositivi»? [2]. Un’affermazione echeggiante un’altra “civiltà dittatoriale” che
ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti [perché] a un certo punto il potere ha avuto bisogno di un nuovo tipo di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore. [3]
Osservando «la periferia nuda come un inferno» della Roma degli anni Cinquanta e Sessanta, Pasolini avverte ed introietta l’idea di una mutazione multiforme, denunciando con lucidità e chiarezza come il Tempo del Consumo abbia irrimediabilmente sostituito il «tempo puramente umano» [4]. L’immagine dell’inferno gli appare quella che meglio può descrivere il
genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia, che avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta, come una discesa agli inferi. Le bolge sono: l’edonismo attraverso il quale i giovani si adeguano rapidamente a quello che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti industriali; il modello della falsa tolleranza, della permissività; l’afasia, una brutale assenza di capacità critiche. [5]
Ora il nuovo capitalismo […] ha creato il suo nuovo mito autonomo: il Benessere. E il suo tipo umano non è l’uomo religioso o il galantuomo, ma il consumatore felice d’esser tale sta attuando fino in fondo lo sviluppo: produrre e consumare [6].
«Frigoriferi, dentifrici, gote / sorridenti [sponsorizzati ] nel Mercato del tempio che vende merci e parole» [7]: un’allegoria dello sviluppo economico che aveva trasformato l’Italia in un paese del bisogno da soddisfare ad ogni costo, in cui la povertà veniva mascherata da un illusorio miglioramento del tenore di vita. Una società che, incondizionatamente, continua ad aderire alle “norme della Produzione creatrice di benessere” adeguandosi a un assetto generalizzato. La sirena ammaliatrice del neocapitalismo perpetra la sostituzione della «sacralità del sacro» con la «sacralità dell’umile acquisto»: un potere che appare tollerante perché tutti ne possono, liberamente, usufruire. E l’ansia di essere uguale agli altri nel comprare, nell’essere felici, nel divertirsi, è affanno di obbedienza nel giovane del sottoproletariato romano e meridionale, come nel «nuovo ragazzo africano rivolto a una meta ancora spaventosamente lontana, ma tuttavia presente: il mondo bianco del consumo». [8]
“Consumo, dunque sono”, essere strumento della manipolazione liquido-moderna dell’identità
che può oggi essere portata a termine con l’aiuto di congegni e gadget pronti all’uso, acquistabili con modico impiego, di denaro e di tempo. […]. Ma da una parte abbiamo il ‘consumatore ordinario,’ coloro che possono scegliere le loro vie di fuga […] dall’altro i ‘consumatori imperfetti’, i poveri eliminati dal gioco consumista […] i reietti sociali […]. L’esclusione sociale si basa, ora, sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. [9]
“L’obbligo di scegliere come libertà di scegliere”.
Nel mondo globale in cui l’acquisto appare come un diritto di cui godere, non come un dovere imposto, il nuovo suddito partecipa attivamente alla nuova tattica seduttrice e, interiorizzando l’impossibilità a vivere in modo diverso, crede di fare una libera scelta. Il passaggio dalla società della produzione a quella del consumo ha fatto in modo che le persone siano valutate in base al loro potere di spesa e i poveri, in quanto sottoconsumatori, sono i nuovi “prodotti di scarto”, esclusi dalla Festa dell’Acquisto.
Pasolini dunque ha avvertito la pervasività di una “mutazione antropologica” in cui
Il Centro ha assimilato a sé l’intero paese [cominciando] un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza [in nome dei] modelli della nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. [10]
Oltre «il rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali», descritto negli Scritti corsari, ha indicato la via da percorrere per cercare la verità, un gesto di rottura
Dentro l’ordinata processione / orda del sentire e del fare, / non del credere, paesaggi, persone / sono scheletri in cui corporeo appare / il loro perduto essere oggetti: / esprimerli è esprimerne il male. / […] / [In questi] Sfortunati decenni […] Muti / decenni / […] / bisogna / essere folli per essere chiari. [11]
In questi versi l’elogio della follia assume il valore educativo del capire, atto di rivelazione dell’inganno, rifiuto e creazione. In un’epoca dominata dal controllo è certamente da folli il “parlar franco”, “il coraggio di dire la verità”; folli per necessità intellettuale, trasgredire il limite imposto dalla «legge che incombe sovranamente sulle città, sui comportamenti e sui gesti» dà luogo a un’esperienza straordinaria, liminale, in cui poter riprendere un discorso veramente umano. La follia sospende ogni unicità del sapere, sperimenta «l’inferno con marmorea / volontà di capirlo» e apre opportunità infinite di “salvezza”: la follia non è più altrove rispetto alla necessità di capire, ma costituisce la sua essenza. La follia, temuta come grido, attesa come canto che contrasti il dominio infiltrante del consumismo e della permissività, a colpi di sacralità e di sguardi.
Chiedendoci dov’è la verità, lontani dalla struttura che incorpora ogni verità, bisogna aprire vie di fuga alla riflessione sui rapporti tra apparire ed essere, tra uomo-consumatore-automa e uomo che si riappropria della sua sacralità e la condivide con quella degli altri. Spingersi verso ciò che è nascosto, riconoscere il peso di un’assenza, spesso più significativa di una presenza, è il gesto profondamente scandaloso di disobbedienza alla visione di un contesto scontato.
Contro il comune senso del mondo, occorre pasolinianamente «coltivare l’atrocità del dubbio»: in questo spasimo conoscitivo-esistenziale, si levano le voci di Illich che esorta a «scrutare il campo del possibile contro il carattere illusorio del potere» e di Freire che propone una dinamica azione culturale in cui «i soggetti si incontrano per dare un nome al mondo in vista della sua trasformazione».
Siamo talmente deformati dalle abitudini industriali che non osiamo più scrutare il campo del possibile, e l’idea di rinunciare alla produzione di massa di tutti gli articoli e i servizi è per noi come un ritorno alle catene del passato o al mito del buon selvaggio […]. La macchina non ha soppresso la schiavitù umana, ma le ha dato una diversa configurazione. Infatti, superato il limite, lo strumento da servitore diventa despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. [12]
Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni aprendo prospettive, rotture, possibilità. [13]
Dissentendo dalla tendenza a restringere il campo del sapere, la verità è un’azione continuamente da riorientare che si sottrae ad ogni pensiero unico e utilitaristico, alla prevaricazione di quei sistemi, scuola, mass media, famiglia, che hanno diseducato, ovvero reso il ragazzo “incapace a capire”: puramente pragmatici, lo portano ad accettare il loro insegnamento come assoluto, dando «ogni giorno una tremenda lezione di come comportarsi e pensare in una società consumistica, [sviluppando la loro] ansia di normalità, la loro adesione totale e senza riserve all’orda». [14]
Perpetrando le riflessioni di Pasolini non posso non pensare alle analisi di Appadurai sulla modernità e sulla necessità dell’etnografia di osservare il campo della ricerca non come un luogo quanto come un nodo degli immaginari, delle persone, dei media. Il suo approccio al «mondo in cui viviamo, in cui la modernità è andata in polvere una volta per tutte» lo porta a considerare il piacere
come il principio organizzatore del consumo moderno […]. Questa inoculazione del piacere dell’effimero è al cuore dell’addestramento del moderno consumatore […]. Il tratto più celebrato del consumo moderno (e cioè la ricerca costante della novità) non è altro che un sintomo di una più profonda disciplina del consumo in cui il desiderio si organizza intorno all’estetica dell’effimero. Ovunque si sviluppano sacche di resistenza […]. Ma le forze dominanti, che si diffondono attraverso le classi consumatrici del mondo, sembrano essere l’etica, l’estetica e la pratica dell’effimero. [15]
Siamo i nuovi “sudditi” creati dalla pervasiva acculturazione, il più totalitario dei Poteri secondo Pasolini, che aderiscono incondizionatamente all’ideologia edonistica del neocapitalismo riconoscendosi “persone” solo in quanto consumatori? Oppure, oltre le seduzioni della globalizzazione, alle quali non si sottrae il «culturame venduto accanto alle merci e alle parole nel Mercato del Tempio, [cerchiamo la verità, disperatamente vitali in un mondo di automi, attraverso una] provocatoria indipendenza [che, nel] benessere / illusorio [ci faccia] ritrovare luce morale e resistenza»? [16]
Nell’epoca del consumo in cui anche il linguaggio, moderna e omologante koiné promossa dallo sviluppo industriale e funzionale al Potere, è ridotto a packaging, l’imperativo è quello di praticare «una speranza inconfessabile / nel cerchio della domanda e dell’offerta» [17] affrancandosi dalla condizione di «produttore di merce [perché] far degenerare le ansie dell’acquisto e della produzione in qualcosa che è la loro purezza è la parte del poeta […] colui che va senza dimora perché sa che la sua prima qualità è la purezza della sua parola». [18]
Una parola che riveli la realtà, così degradata, così deprivata, impoverita, affrontando «la mancanza di richiesta della poesia [che denota] un problema culturale», «con la cieca testardaggine della poesia». Questa la novità scandalosa «contro il nostro intimo conformismo». [19]
La poesia non è merce perché
non è consumabile. Non è prodotta
‘in serie’: non è dunque un prodotto.
E un lettore di poesia può leggere
anche un milione di volte una poesia
non la consumerà mai.
Anzi forse la milionesima
volta la poesia gli potrà sembrare più strana
e nuova e scandalosa che la prima volta.
Note
1.P.P.Pasolini, La Divina Mimesis, Arnoldo Mondadori, Milano, 2006, p. 33.
2. G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma, 2006, p. 23.
3. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975, pp. 233, 284.
4. Id., L’umile Italia, in Le ceneri di Gramsci, Milano, 1976, p. 45.
5. Id., Scritti corsari, cit., pp. 281-287.
6. Id.,Il caos. L ’orrendo universo del consumo e del potere, a cura di G.C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 92.
7. Id., Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano, 1976, p. 21, e Scritti corsari, cit., p. 301.
8. Id., In Africa tra figli obbedienti e ragazzi moderni, in Id., Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, 1998, pp. 1872-1877. Si veda anche Alì dagli occhi azzurri, versione pasoliniana del neocapitalismo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta che seleziona vinti e vincitori.
9. Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, tr. it. di F. Galimberti, Roma-Bari, 2010, pp. 145-146; 175.
10. P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 32.
11. Id., Picasso, in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 1976, pp. 24, 28, 29.
12. I. Illich, La convivialità, Arnoldo Mondadori, Milano, 1974, pp. 13-14. Illich, come Pasolini, dedica molte pagine alla questione del linguaggio in rapporto all’educazione: entrambi compagni, insieme ad altri “irregolari”, nel voler sottrarre il linguaggio alla mercificazione e, pertanto, sottrarre l’uomo dal diventare un “obbediente” fruitore di beni materiali.
13. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2011, p. 166.
14. P.P. Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano, 2012, pp. 67; 73-74.
15. A. Appadurai, Modernità in polvere, ed. it. a cura di P. Vereni, Raffaello Cortina, Milano, 2012, pp. 111-112.
16. Cfr. Pasolini, Scritti Corsari, cit., pp. 24- 243; La mia provocatoria indipendenza, in Il caos, cit., pp. 93-96; e La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1995, pp. 89-93.
17. Id., La religione del tempo, pp. 89-91.
18. Id., La Divina Mimesis, cit., pp. 33-36.
19. Cfr. Pasolini: Poesia in forma di rosa, cit., p. 86; Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 2000, p. 24; La Divina Mimesis, cit., pp. 25, 39
Riferimenti bibliografici
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Appadurai, A., Modernità in polvere, ed. it. a cura di P. Vereni, Raffaello Cortina, Milano 2012
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Bauman, Z., Lavoro, consumismo e nuove povertà, tr. it. di M. Baccianini, Troina (En), 2004
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Pasolini, P.P., Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975,
– Lettere luterane, Garzanti, Milano, 1976
– La religione del mio tempo, Garzanti, Milano, 1995
– Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 1976
– Il caos. L ’orrendo universo del consumo e del potere, a cura di G.C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma, 1979
– Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 2000
– La Divina Mimesis, Arnoldo Mondadori, Milano, 2006
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– Pier Paolo Pasolini e lo “stupendo privilegio di pensare” una diversa umanità, in Sinestesieonline, 4/12, giugno 2015