Riprendiamo dagli archivi di “Pagine corsare” di Angela Molteni, in corso di caricamento sul sito del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, un acuto intervento dello studioso Paolo Lago, risalente al 2004. Sotto analisi, nel film Porcile (ma anche in Teorema e in Edipo re), la doppia articolazione degli spazi, che tuttavia convergono nella comune metafora della asfissia, dell’angoscia e dell’impossibilità di vie di uscita. Un significato di blocco carcerario che, per Lago, si può ritrovare anche in Zabriskie Point, film coevo (1970) di Michelangelo Antonioni.
Il “doppio spazio” di “Porcile”
di Paolo Lago
(2004)
Il film Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini mette in scena una doppia ambientazione, un doppio spazio: quello “barbaro” del mito, connotato da lande desertiche e cittadelle fortificate battute dal sole, e quello razionalista (ma non razionale) e “ordinato” dell’ambientazione negli interni geometrici di una villa della Germania degli anni Sessanta.
La doppia ambientazione del film riflette la fondamentale dicotomia presente all’interno dell’intera opera pasoliniana, quella cioè tra mondo contadino, preindustriale, e mondo borghese e neocapitalistico. Esistono tuttavia delle zone di confine tra i due mondi, delle “zone franche” in cui le due scenografie si incontrano e si ibridano. Uno di questi momenti di passaggio, di confine, è rappresentato dall’estetica derivante dall’uso della macchina da presa (successivamente abbreviata mdp) e dai movimenti di macchina. Com’è noto, il regista prediligeva l’uso della mdp a mano, considerando un fattore importante delle riprese di un film proprio lo sforzo fisico che ad esse è legato. Lo spazio rappresentato all’interno della villa e poi, nei giardini costituiti da rigide figure geometriche, è quello del tunnel. Lo spazio viene, se così si può dire, “tunnellizzato”, incanalato in bui cunicoli immaginari.
Ad esempio, nel lungo piano sequenza (che presenta momenti di montaggio alternato, nell’inquadrare ora l’uno ora l’altro personaggio) in cui la mdp segue Julian e Ida nel loro dialogo, durante la passeggiata nel giardino, è come se i due personaggi stessero percorrendo lo spazio regolato e occludente del tunnel.
Lo stesso vale per le scene “barbariche”: gli antropofagi camminano tra colli e lande bruciate dal sole, in uno spazio assolutamente “libero”, ma è come se fossero inquadrati nel percorso di un tunnel o di una caverna.
Il senso di chiusura, di soffocamento connota perciò la doppia ambientazione di Porcile; e a questo senso di soffocamento è indissolubilmente legata la dimensione dell’angoscia.
I protagonisti delle due ambientazioni, Julian (Jean-Pierre Léaud, l’attore preferito di François Truffaut) e l’antropofago interpretato da Pierre Clementi (attore che, invece, nel cinema di quegli anni, rimanda ad un’idea “demonica” di sovvertimento dell’ordine costituito – si pensi alle interpretazioni de La via Lattea di Buñuel, di Partner di Bertolucci o a quella de I cannibali di Cavani) sono attraversati in ogni momento da palpiti d’angoscia. Il primo è infatti tormentato dal suo terribile “segreto”, mentre il secondo appare in preda a una primitiva condizione di afasia che gli permette di pronunciare soltanto, durante il supplizio cui viene condannato, la frase, ripetuta come in un rito, «ho ucciso mio padre, mangiato carne umana e tremo di gioia».
Julian, allora, diviene quasi il doppio speculare dell’antropofago morente: anch’egli imboccherà la via dell’autoannientamento e quindi del silenzio, della consumazione segreta dell’atto rituale come il compiersi di un dovuto sacrificio.
Si potrebbe anche dire che, fin dall’inizio del film, i due personaggi appaiono come votati al sacrificio e alla morte; in loro, cioè, è già “scritta” la loro fine e anche il loro destino che essi accettano e portano avanti fino in fondo (come, ad esempio, fanno anche Accattone, Stracci o Edipo). I due personaggi appaiono perciò speculari, come speculari sono le ambientazioni in cui agiscono, due spazi che non sono nient’altro che la somatizzazione del tunnel. Quest’ultimo, alla fine, si chiude definitivamente, poiché è un monito al silenzio l’ultima invocazione del film: lo spazio dell’angoscia dettata dal rito e da esigenze legate ad una sfera sacrale (come la passione per i maiali di Julian, o l’antropofagia del cannibale) si spegne nel silenzio di una progressiva afasia. La chiusura appare totale e definitiva: lontana quindi, dai momenti finali di Teorema (1968), in cui la fine rimandava a una qualche continuazione anche oltre gli avvenimenti della sfera filmica.
Ed è proprio Teorema un altro film di Pasolini che risulta simile a Porcile per quanto riguarda la costruzione “antitetica” degli spazi.
Anche qui, infatti, incontriamo due ambientazioni simmetriche, quella “ordinata” del mondo borghese e quella “barbarica” del mito e delle inquadrature finali. Bisogna comunque dire che, come del resto anche in Porcile, l’ambientazione cosiddetta “ordinata”, in realtà non è affatto tale: essa appare infatti in preda all’angoscia e a pulsioni oniriche; il mondo borghese e apparentemente “geometrizzato” è invece continuamente attraversato dalla sfera del “perturbante” e dell’onirismo (come si nota anche nel cinema di Buñuel).
Anche Edipo re (1967) presenta le due ambientazioni; qui, però, il mondo moderno del neocapitalismo appare solo nel finale, nel viaggio di Edipo accompagnato dall’anghelos attraverso le strade del mondo “desacralizzato” della borghesia. Edipo, alla fine, è cieco; quindi percorre veramente l’oscura via di un tunnel, di un tunnel che nel film è perennemente presente, fin dall’inizio (tunnel dell’inconsapevolezza e della non conoscenza; inoltre, nel corso delle sue peregrinazioni, Edipo capiterà anche all’interno di un labirinto, in cui è preda di un freudiano “perturbamento).
Per concludere, uscendo dall’ambito strettamente pasoliniano, un altro film che presenta una doppia ambientazione simile, per certi aspetti, a quella di Porcile, è Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni. Le due ambientazioni, quella delle repressioni iniziali e quella del deserto (e anche l’interno della villa borghese che poi esploderà, che si ricollega alla prima) sono come gli spazi di una “caverna-prigione”. Anche qui, l’apertura è solo illusoria e ingannevole; e illusoria e ingannevole è anche l’aura d’amore che pare avvolgere i due protagonisti. Non si sfugge al carcere ed alla repressione – sembra affermare il regista – neppure a “Zabriskie Point”. L’angoscia insegue sempre i protagonisti come un’oscura lama. Alla fine, dopo l’esplosione, il silenzio padroneggerà su tutto (anche la scena dell’esplosione, girata al rallentatore, è connotata dal silenzio e da una immobile atonia), proprio come in Porcile: «Allora ssssst! non dite niente a nessuno».