Simona Zecchi, giornalista d’inchiesta e autrice del libro Pasolini Massacro di un Poeta (Ponte alle Grazie 2015), continua a indagare sui retroscena e il movente “politico” del delitto Pasolini, alla luce di elementi nuovi e di una ricostruzione che si appoggia su fatti documentali accertati. Un suo recente articolo, uscito il 1 settembre 2016 su www.antimafiaduemila.com, fa il punto aggiornato dell’intricata e oscura odissea investigativa su quel mistero, anche in vista dell’insediamento auspicato di una specifica Commissione parlamentare d’inchiesta.
Pasolini: la mattanza perpetua e le verità monche dei fatti
di Simona Zecchi
www.antimafiaduemila.com – 1 settembre 2016
«E’ mattina presto sul campo brullo di sabbia e terra dell’Idroscalo di Ostia a 30 km da Roma. Ed è ancora buio. Un uomo a pochi metri da una baracca, posta insieme alle altre in fila disordinata, giace lì a terra, letteralmente in una pozza di sangue. Qualcuno, sportosi dalla finestra del secondo piano di un palazzo a poche centinaia di metri dalla scena, lo scorge. L’uomo a terra ormai consegnato alla morte è circondato da una volante dei Carabinieri e da alcuni uomini adulti…».
Questo dovrebbe essere da sempre l’incipit del racconto sulla notte di 41 anni fa, quando tra il 1° e il 2 novembre del 1975 si consuma il massacro di Pier Paolo Pasolini. Così infatti ha dichiarato Misha Besserdorf, il russo ormai naturalizzato americano, al giornalista Paolo Brogi lo scorso 2012, parlando proprio della presenza dei Carabinieri durante un orario imprecisato ma prossimo ai momenti successivi al fatto. Un testimone che la procura di Roma durante il corso delle indagini preliminari durate 5 anni, dal 2010 al 2015, ha ritenuto di non dover sentire.
Il racconto ufficiale da sempre mutuato attraverso le cronache e le numerose ricostruzioni giornalistiche e giudiziarie inizia però in modo diverso, e cioè alle 6.30 del 2 novembre 1975 quando, come è noto, la signora Maria Teresa Lollobrigida, un’abitante abusiva del posto, scoprirà il corpo dello scrittore che scambierà per un sacco di immondizia. Intere, cruciali ore sono state sottratte da quel momento in poi all’economia dei fatti che hanno preceduto e seguito la mattanza, lasciate seppellire per anni nell’ammasso di storie buone solo a fare di Pier Paolo Pasolini, non la vittima sacrificale di un massacro violento qual è stata, ma un “character assassination” (1), un caratterista, un personaggetto del gossip che, volendo citare Giulio Andreotti nel lontano 1982, «se l’era cercata». Il cold case sull’assassinio di Pier Paolo Pasolini ha attraversato gli sprazzi e gli spazi ancorché ampi di due secoli: 1975-2015. Quarant’anni non sono pochi, eppure il “caso” ogni volta non cessa di seminare innumerevoli interrogativi, anche quando le azioni giudiziarie o istruttorie che lo riguardano (come in quest’ultimo caso delle indagini preliminari che si sono chiuse con un’archiviazione nel maggio del 2015) sembrano avere il crisma del rigore. L’unico colpevole riconosciuto del massacro compiuto contro lo scrittore, regista, poeta, saggista e molto altro la notte fra il 1° e il 2 novembre del 1975 è a oggi Giuseppe Pelosi, l’ex ragazzo di vita che all’età di 17 anni si inoltra in un abisso da cui poi non uscirà più. Lo fermano – riferisce il mantra ufficiale – all‘una di notte in contromano sulla Cristoforo Colombo, la lunga strada che separa il quartiere di Ostia dalla Capitale. Un’area che è parte integrante di Roma, ma che per tante ragioni è sempre stata un mondo a sé stante. Il ragazzo – riporta sempre quel mantra – era alla guida di un’Alfa Romeo GT 2000 grigia metallizzata targata K69996, e all’inizio confessa solo il furto dell’auto. L’auto è quella dello scrittore e uno dei due carabinieri se ne accorgerà soltanto dopo averla tradotta presso il cortile della caserma del luogo, come indicato nei verbali. Ben oltre dunque l’orario del fermo.
Esistono intanto due rilevanti elementi che contraddicono questa versione ormai istituzionalizzata: la prima testimonianza a caldo di Ninetto Davoli, creazione cinematografica di Pasolini, che indica mezz’ora dopo il fermo di Pelosi – l’1.30 – l’avviso da parte di un familiare del ritrovamento dell’Alfa Gt effettuato dalle forze dell‘ordine a quell‘ora (ritrovamento non furto) e riportata su diversi verbali; e la più recente testimonianza della cugina ed erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi (che sin dal 1976 ha deciso di non costituirsi più parte civile e di abbandonare la ricerca della verità giudiziaria su questa storia). In quella intervista, peculiare se si considera il taglio per nulla dedicato alla morte dello scrittore, la filologa ha ammesso a “la Repubblica” il 30 ottobre del 2015, a distanza di 40 anni, che, sì, Sergio Citti aveva ragione quando lo dichiarò nel 2005 durante le indagini difensive affidate all‘avvocato Guido Calvi: di notte la polizia (non i carabinieri) aveva bussato alla loro casa per avvertirli del ritrovamento dell’auto presso la zona Tiburtina di Roma, a ben 38 km di distanza dall’Idroscalo di Ostia.
Nord e profondo Sud di Roma: due mondi in cui, pare, l‘auto dello scrittore avesse il dono dell’ubiquità. Il verbale del famoso furto d’auto (derubricato poi dall’accusa a Pelosi) e quello del ritrovamento, spariti entrambi dalla storiografia ufficiale. Il silenzio seguito alla sconvolgente conferma della Chiarcossi che riscrive la dinamica del solo arresto è stata a dir poco assordante.
Ma continuiamo a stare agganciati ai fatti. Pelosi viene condotto intorno alle quattro del mattino presso l‘Istituto di osservazione per minorenni di Casal del Marmo, in periferia.
Quando collegano il furto dell’auto con l’omicidio, Pino “la Rana” Pelosi (nomignolo di invenzione giornalistica del tempo per via dei suoi occhi sporgenti) confessa anche l’omicidio avvenuto, secondo quanto dichiara sin dall’inizio, per reazione a un tentativo di violenza sessuale, a suo danno, da parte di Pasolini.
Contemporaneamente all‘arresto di Pelosi evadono di prigione (per un brevissimo lasso di tempo perché poi vi faranno ritorno) da Casal del Marmo i due minorenni Giuseppe Mastini (oggi collaboratore di giustizia) e Mauro Giorgio. Entrambi frequentavano Pelosi presso il circolo creativo e sezione dell’Unione monarchica nazionale della zona Tiburtina. Non solo loro, anche altri due protagonisti che come Mastini (o come veniva chiamato in borgata Johnny lo Zingaro) entreranno e usciranno spesso dalla storia ufficiale e non, frequentano queste e altre bische; all‘occorrenza luoghi di comizi missini o di stampo estremo fascista.
Il primo, Mastini, verrà sempre tirato in ballo dalle varie inchieste giornalistiche (talvolta anche in qualche indagine richiusa in fretta nel tempo) senza alcuna conferma netta. La fine del suo presunto coinvolgimento nel caso la sigilla però la procura di Roma nel 2013, quando attraverso atti della scientifica, che diventeranno pubblici a chiusura indagini, si ”certifica”, in modo un po’ anomalo, che il famoso plantare trovato insieme a un maglione verde all’interno del veicolo di Pasolini, non appartenenti né allo scrittore né a Pelosi, non appartiene allo “Zingaro”. DNA dixit, lo stesso esame del DNA che a sua volta certificherà la non compatibilità tra le 5 impronte individuate sui reperti e i profili genetici emersi.
Il secondo invece, a parte una interessante menzione di un cronista dell’ “Europeo” di allora, che insieme a Oriana Fallaci condurrà la contro-inchiesta parallela a quella giudiziaria e che individuerà la stretta comunanza di reati e di tecniche di aggressione con il Mastini, non vi entrerà mai. Una contro-inchiesta, questa, che avrà valore anche nelle ultime indagini dei nuovi investigatori, ma nell’archiviazione tutto ciò non verrà riportato.
A partire dal maggio del 2005, Pelosi per la prima volta comincia a parlare di un’altra verità durante la trasmissione della Leosini Ombre sul Giallo. Nel frattempo comunque l‘ex Pelosino, che in tutto ha scontato in carcere 22 anni della sua vita, a tutt’oggi è in attesa di giudizio per altri reati compiuti più di recente.
Due gradi di giudizio, Appelli e Cassazione riconoscono tra l‘aprile del 1976 e l’aprile del 1979, insomma, l’unica colpevolezza del ragazzo, senza il “concorso con ignoti” inizialmente indicata nella sentenza di primo grado dal giudice Alfredo Carlo Moro, fratello dello statista Aldo ucciso il 9 maggio 1978. La sua versione, quella che vede il delitto essere maturato nell’ambiente della prostituzione maschile, anticipata in barba al segreto istruttorio dai Tg nazionali, resta il marchio di quel processo, mal segnato anche dalle perizie psichiatriche del criminologo Aldo Semerari, personaggio mescolato con le trame nere e la P2 del tempo e successive, e da quelle medico-legali il cui lavoro in buona parte resta quanto meno monco e depistante. L’altra perizia, quella di Faustino Durante eseguita per la parte civile, viene spazzata via nella sostanza dal secondo grado in poi.
Un groviglio di fatti inserito in un contesto complesso qual era quello vissuto da Pier Paolo Pasolini: la P2, attiva, con Licio Gelli a presidiarne la loggia, dal 1964-65 (e di cui alcuni giornali sebbene in modo sibillino già riferivano); i sequestri al Nord e a Roma, strumento di destabilizzazione del paese, di cui in certi casi il clan dei marsigliesi era il collante; le indagini al riguardo del giudice Vittorio Occorsio ucciso poi dal leader militare di Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli; le diverse galassie di estrema destra che in realtà erano tutte propaggini di una unica radice; gli scandali sul petrolio sui quali anche Pasolini indagava, per usarli da sfondo nella sua ultima incompiuta fatica, Petrolio, pubblicato postumo nel 1992; la strategia della tensione e il terrorismo rosso e nero a incrociarsi. Dire che le aule di giustizia con i processi sulle stragi in corso erano in ebollizione è usare un eufemismo.
A scavare tra quei faldoni oramai ingialliti del procedimento n. 1466/75 che portò il solo ex ragazzo di vita in carcere, conservato presso il Tribunale dei Minori, il racconto che emerge di quella notte così come ce lo ha sempre consegnato la storia ufficiale resta una trama a sé, come se i protagonisti fossero altri e il tutto un’accozzaglia di puzzle distorti messi insieme a forza.
Attraversare quella notte e le settimane che l’hanno preceduta dunque vuole dire, al pari di quello scavare, affidarsi alla sola forza dei fatti e alle loro contraddizioni e diffidare anche di se stessi, della presunzione che a volte accompagna noi giornalisti, generalmente convinti come siamo che tutto dipenda da una tesi a cui poi applichiamo i fatti per “farceli stare”, come si fa parallelamente proprio con quei pezzi di puzzle che non si incastrano. Solo così è possibile capire il “dopo” e il perché, il movente. Solo così è possibile legittimamente evincere da quella scia di fatti e dalla loro concatenazione una tesi plausibile. Fare tabula rasa: capire cosa stava succedendo nei giorni precedenti al brutale omicidio, se i verbali e le cronache del tempo allora molto accurate combaciano, se è possibile andare a rintracciare voci e testimonianze sepolte da 40 anni di carta, indagini interrotte a metà e verbali occultati. La storia giudiziaria o quanto meno di istruttoria non si ferma infatti al 1979; sarà arricchita invece da altri capitoli che dal 1985 al 2015 tenteranno di riaprirsi con nuove indagini e segnalazioni alla procura di Roma (nel frattempo – nel 2005 – la Capitale diviene parte civile nei confronti di chi ha commesso quel vile atto, come voluto dall’ex sindaco Walter Veltroni).
E allora non può esserci altra soluzione che il confronto con i fatti e le loro evidenze, altrimenti, a esempio, si rischia di infarcire le ricostruzioni con il solito ruolo nel massacro a Pasolini avuto dalla Banda della Magliana come organizzazione, quando invece questa inizia a diventare “banda” solo nel novembre del 1977 a due anni dalla morte del poeta. L’organizzazione diverrà l’arma di certi poteri occulti soltanto dopo, con l’arrivo dei testaccini a sparigliare le carte. Il caso Pasolini si trasforma così in un “Romanzo criminale” senza tempo, solo che non è un romanzo ma una storia vera. Prima a ben rovistare ci sono i marsigliesi, il clan delle “tre belve” (Albert Bergamelli, Jacques Berenguer e Matteo Bellicini) che in questa storia hanno una parte: quella che gioca uno di loro, Antonio Pinna il proprietario di molte macchine e motoveicoli ma soprattutto di un’Alfa GT 2000 uguale a quella dello scrittore. Pinna entra nel “caso Pasolini” sin dal 2010 quando la procura di Roma decide di sentire un testimone a conoscenza di alcuni fatti, il pittore Silvio Parrello, da molti anni anima del suo quartiere Donna Olimpia frequentato e abitato dallo scrittore a metà degli anni ’50.
E‘ un quar1iere-ponte Donna Olimpia, tra borghesia e borgata a ridosso del più residenziale Monteverde vecchio. Una volta quella borgata era il ghetto di mussoliniane memorie dove il duce costrinse in palazzi fatti con lo sputo tutti i poveri e i disagiati. Pinna, dicevamo, però è molto più che l’autista di Jacques Berenguer, uno delle tre belve, il capo. È Pinna, o Nino er meccanico come era noto allora, parte attiva dei sequestri come dimostrano le indagini dell‘ex magistrato Ferdinando Imposimato e le sentenze di altri. Con la sua officina a Monteverde nuovo (sempre zona Donna Olimpia) Pinna ”ripara” anche i misfatti compiuti dalle macchine del clan. La macchina di Pinna potrebbe essere proprio quella con la quale si è compiuto il vero sormontamento sul corpo del poeta (agli atti emerge che la famiglia era proprietaria di quel modello), provocandone lo schiacciamento del cuore e la cui scocca inferiore risulta davvero danneggiata rispetto al veicolo di proprietà di Pasolini che passerà invece sul corpo dello scrittore soltanto in velocità.
Era infatti quella dell’Idroscalo una scena affollata. Nessuna indagine istruttoria l’ha accertato, ma chi scrive ne ha scoperto la foto pubblicata in un suo lavoro d’inchiesta di ampio respiro. Altrimenti, ancora a esempio, si rischia di legare la presenza “catanese” dei due balordi spacciatori fratelli Borsellino, che catanesi non erano, con l’ormai accertato sabotaggio avvenuto 13 anni prima all‘ex presidente dell‘Eni Enrico Mattei. Catania infatti è sì presente in questa storia, la quale però è soprattutto intessuta di estremismo nero. La scia degli approfondimenti investigativi presenti nelle carte delle ultime indagini romane, durate ben cinque lunghi anni, è abbastanza lunga e, tra intercettazioni di alcuni sospettati, tracciamenti dei tabulati telefonici, attività investigative e analisi del Ris, ha prodotto sicuramente la più estensiva ricerca giudiziaria sul caso.
Poi però le piste emerse e approfondite non hanno convinto la magistratura che in pochissime righe, nel febbraio del 2015, ha chiesto l’archiviazione al Gip, liquidando le importanti scoperte a un nulla di fatto, o al massimo all’importante novità-madre della inchiesta tutta: l‘analisi scientifica. Come a dire, è tutto là, è finita. E invece no, perché quei cinque lunghi anni, ai quali i sostituti procuratori Francesco Minisci e Pierfilippo Laviani avevano apposto la secretazione per lungo tempo, sono composti da ben 7 fascicoli interessanti in ogni loro pagina, ogni loro riga, quelle che nel momento in cui uscirà questo articolo potrebbero permettere a una eventuale Commissione d’inchiesta parlamentare, che si dovrebbe istituire a breve, un ulteriore approfondimento, con tutti i poteri istruttori che questo peculiare strumento del Parlamento porta con sé. E non è così, anche perché la prova del DNA resta tutt’oggi, se usata da sola, uno strumento di limitata rilevanza. Tra tutti gli elementi degni di approfondimento, ma non l’unico, proprio la testimonianza di quell’uomo cui abbiamo accennato nel “falso incipit” di questo contributo: un ebreo russo naturalizzato più in là in America che nel novembre del 1975 si trovava insieme ad altri russi di passaggio a Ostia. Una transizione migratoria di cui sono stati teatro allora Ostia e il suo litorale. La testimonianza di Misha Bessendorf illuminava dunque il buio di quella notte, spostando la presenza delle forze dell’ordine ben prima dell‘orario ufficiale indicato nei verbali (le 7.20 del mattino): almeno a quattro ore prima. Fatti che insieme a molto altro avrebbero potuto riscrivere il “fattaccio” trasformandolo da storytelling a ricostruzione veritiera dei fatti. Il massacro tribale a Pasolini per la violenza perpetrata, per la quantità di persone che vi hanno partecipato, tutte con diversi ruoli e livelli (non solo tre persone né soltanto 6 o 7 ma di più) e infine, l’ultima fondante accezione del termine: tribale per il massacro post mortem che pure si continua a perpetrare a livello giudiziario, politico, antropologico (era un “frocio e basta”) e culturale: certa sinistra e la sua intellighentia non smettono di colpire, infatti.
E allora scavare tra gli archivi degli atti giudiziari riguardanti le stragi del tempo (Piazza Fontana, Piazza della Loggia tra tutte, ma non solo) non può essere definito né inutile né complotti sta, se questo ha fatto sì che, al di là del contesto maggiore in cui quel terribile omicidio è maturato (il petrolio, il controllo di Cefis e Gelli sull‘economia, gli assetti politici del tempo e quello che seppure con 17 anni di ritardo comunque l’autore, certo a livello postumo, è riuscito a pubblicare), si sia rinvenuto un carteggio interessante fra Giovanni Ventura – appartenente a Ordine Nuovo e allora rinchiuso a Bari in carcerazione preventiva per la strage di Piazza Fontana – e Pier Paolo Pasolini, insieme a un rapporto di indagine dell’antiterrorismo della cittadina pugliese rimasto nascosto per 40 anni. E non è altresì riduttivo uscire dalla logica ”fictional” che sino a ora ha accompagnato in larga parte alcune inchieste giornalistiche. Il “movente” in lingua italiana e giudiziaria è qualcosa di specifico e, come abbiamo visto anche in altri processi di mafia che accompagnano tuttora fatti di oltre 40 anni fa, difficile da definire e individuare. Lo stesso magistrato Scarpinato, si perdoni qui una piccola ma necessaria digressione, ha dovuto obtorto collo ridurre i capi d‘imputazione nel processo da poco concluso Mori-Obinu. Gli schemi in cui sono racchiusi le stragi e gli omicidi o i finti suicidi politico-mafioso-criminali della nostra sfortunata Repubblica sono stati preparati e diretti anche nelle loro fasi e conseguenze successive in maniera così complessa, la loro architettura così stratificata e inquinata da manipolazioni, depistaggi, occultamenti e falsi testimoni o falsi pentiti, che stringere il cerchio a un primo importante e non riduttivo movente diviene ormai impellente.
In quelle lettere, in quello scambio di cui solo una parte a oggi si è rinvenuta (e pubblicata in esclusiva da chi scrive), Giovanni Ventura, sodale di Franco Freda e per un certo periodo anche collaboratore della magistratura di Milano quando svelò, in parte per poi ritrattare, la sua infiltrazione nel Sid (il servizio di sicurezza di allora) e la strategia cosiddetta della “Seconda linea” sottesa a quella della ”tensione”, coniata dal settimanale inglese “Observer” il 14 dicembre del 1969, fa delle rivelazioni.
Specialmente la lettera dell’ottobre 1975, indicava a mo’ di lista tutte le varie correnti democristiane che vi erano dietro la madre delle stragi, di nomi e cognomi e di documenti che il Ventura stesso tramite un editore trasversale alla cultura e all’editoria di destra e di sinistra, Antonio Pellicani, stava per inviare o ha inviato allo scrittore. È così che tutta l’attenzione sul fantomatico “Appunto 21” scomparso o sottratto, il cui ritrovamento è stato millantato da Marcello Dell’Utri nel 2010, imposta alla storiografia parallela senza le dovute verifiche anche giornalistiche, può finalmente spostarsi altrove su fatti più concreti e ugualmente agghiaccianti, soprattutto in quel dato preciso momento in cui Pasolini si muoveva e operava.
I nostri servizi, le organizzazioni criminali coinvolte e il livello politico anch’esso coinvolto possono aver architettato un simile e complesso meccanismo per qualcosa che era già noto? Oppure la forza intellettuale (e allora influente) del poeta con le sue invettive, i suoi articoli corsari sul “Corriere della Sera” e sulla rivista “Il Mondo”, poteva intimorire perché il poeta aveva raccolto informazioni non note nemmeno agli organi della magistratura? E le lobbies economico-finanziarie e politiche, tessute nelle trame del petrolio, non possono essere strettamente collegate a questa realtà? Si uccide insomma un poeta di quel livello rischiando di sollevare un caos senza eguali per qualcosa di noto alla già contro-informazione del tempo e anche alla magistratura? Certamente sì per rispondere a queste ultime domande.
Un‘altra domanda infine si impone: e se quell‘Appunto non fosse stato di per sé un depistaggio intervenuto dopo? Tra i verbali mai analizzati e ingialliti dal tempo, uno ha attirato l’attenzione di chi scrive e riferisce del sequestro avvenuto di alcune carte l’8 novembre del 1975, a sei giorni dalla morte del Poeta. Può essere questo un elemento più che concreto invece di un Appunto introvabile e forse non così dirimente per la dinamica del fatto?
Torniamo ora ad appigliarci ai fatti nudi e crudi. Certo, quelli non noti alla storiografia ufficiale, ma essi stessi impossibili da negare. Il 2 novembre del 2015, il Museo Criminologico di Roma in Via Giulia, luogo in cui i vecchi reperti appartenenti a quella notte sono tornati, ha deciso di riaprire inconsapevolmente capitoli aggiuntivi di quel massacro, spalancando le porte al pubblico. Tra gli oggetti ormai parte dell’immaginario di tutti sono presenti anche i pantaloni di Pino Pelosi, che, stando al semplice occhio nudo di chiunque, non presentano più la macchia originaria enorme e presente su tutto il lato destro che invece è perfettamente visibile andando a visionare quel vecchio fascicolo, il nr. 1466/75. Una foto, questa dei pantaloni intrisi di sangue, sulla quale mai nessuno ha soffermato l‘attenzione, e pubblicata per la prima volta sempre da chi scrive: né avvocati titolari di indagini difensive, né gli inquirenti passati e futuri, né tanto meno la magistratura. Eppure esistono, sono un fatto concreto appunto, una evidenza. Due rappresentazioni differenti di due oggetti del tutto uguali, perché il Museo ha confermato a chi scrive che si tratta dei reperti tutti originali entrati nella struttura storica l’8 febbraio del 1985. I pantaloni in questione sono dunque entrati presso la struttura senza quell’enorme alone. Confrontando le due foto (dopo ufficiale richiesta indirizzata al Museo), la discrepanza è a dir poco incredibile. Il Ris, quando ha effettuato l‘esame del DNA nel 2013 ha rinvenuto sì le tracce sul lato superiore destro che le perizie dei medici legali nominati dalla magistratura al tempo invece non avevano mai individuato, indicandole solo – citiamo dalla stessa perizia – «a carico della parte inferiore della gamba destra del pantalone», ma non è riuscito a far emergere uno dei quattro profili genetici lì presenti. (2) Nulla di fatto, quel profilo resta sconosciuto.
Secondo quell‘analisi, infatti, le tre tracce genetiche sono tutte riconducibili allo scrittore, assenti del tutto invece le tracce di Pino Pelosi (!). Non vi è altra definizione, stando così i fatti sino a qui verificati, che quella fu una manipolazione atta a far sparire tracce altre. Una manipolazione sicuramente avvenuta subito dopo la mattanza, visto che né nella perizia, né al momento dell’entrata al museo su quei pantaloni quella enorme macchia è stata mai intercettata. Ancora una volta fatti e fiction viaggiano separati. A oggi, per capirci, un altro leit motiv che si tende a ripetere è che non c’è corrispondenza tra le piccole macchie trovate sugli altri indumenti del Pelosi e il sangue trovato vicino al corpo quel mattino. Verità “vera”, come abbiamo visto, soltanto a metà, monca, parziale come molte altre. Fra fiction e realtà sempre viaggiano le evidenze di cui Pier Paolo Pasolini parlava nell’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo il 1° novembre del 1975, poche ore prima di essere ammazzato. Un’intervista in cui le sue parole erano soprattutto rivolte a quegli amici o a quella stampa che si accontentava o del complotto fine a se stesso o della “cronaca bella e impaginata”. Tra i due estremi, il nulla. Perché di verità gridate ne abbiamo tante, di corrispondenza vera con i fatti di cronaca, di volontà reale a indagare e approfondire, invece, ne abbiamo, per restare sul tema, “tracce esigue”. E allora anche oggi è doveroso e necessario fare, certo immeritatamente ma caparbiamente, un po’ come cercava di indicarci Pasolini attraverso quelle ultime parole, ossia “rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta […] ricongiungere passi lontani che però si integrano […] organizzare i momenti contradditori ricercandone la sostanziale unitarietà” (3).
Un’ultima cosa qui ancora preme chiarire in merito a questa morte ancora in progress. Innanzitutto, è bene che la eventuale futura commissione d’inchiesta tenga a mente gli avvenimenti che hanno preceduto la notte del 1° novembre: il ricatto telefonico perpetrato allo scrittore riguardante il furto delle bobine avvenuto nell’agosto del 1975, i tentativi di incontro con i suoi ricattatori e aguzzini, l’attentato avvenuto nelle vicinanze della sua abitazione, gli uffici della zona controllati dalla Sip parallela, le minacce da lui subite e i numeri più volte cambiati della sua utenza direttamente dalla Sip stessa, come chi scrive ha in maniera inedita fatto emergere. E ancora le doppie o triple macchine presenti sulla scena del crimine, la doppia macchina in uso a Pelosi, il doppio di alcuni figuranti coinvolti. Doppi o sovrapposizioni che confondono il quadro, appositamente. Così come alla Commissione non dovrebbe sfuggire la parte del terrorismo nero mai esplorata da nessuna inchiesta d’istruttoria o giudiziaria sul caso.
Il “caso Pasolini” è insomma tutto racchiuso qui tra un omicidio politico e una strategia del linciaggio e delle mistificazioni. Il tentativo cioè di consegnare all’oblio un messaggio tanto forte da sopravvivere a un massacro tribale.
Note
1 Un tipo di tecnica, questa, artatamente creata dai regimi totalitari e dai suoi agenti di copertura per distruggere la credibilità e la reputazione di una persona comune o di un politico, deformandone i tratti e trasformandolo in un personaggio, appunto. Negli Stati Uniti, da dove la tecnica proviene, esiste anche un campo di studi specifici che la riguardano.
2 Per un approfondimento è possibile collegarsi al link seguente http://www.affaritaliani.it/roma/pasolini-nuovo-giallo-i-reperti-manipolati-i-pantaloni-le-prove-418970.html)
3 P.P.Pasolini, Scritti corsari, maggio 1975.
Info
www.repubblica.it/cultura/2015/10/30/news/graziella_chiarcossi_le_mie_notti_sveglia_a_casa_ad_aspettare_mio_cugino_pier_paolo_-126236875/
www.glistatigenerali.com/politica_società_terrorismo/12-dicembre-1969-la-verita-su-piazza-fontana-e-sul-rapporto-borghese/