È rimbalzata sulla stampa e i media nazionali la notizia della morte di Pino Pelosi, deceduto il 20 luglio 2017 dopo un tumore di cui era ammalato da tempo. Scompare con lui l’unico responsabile (e reo confesso) della morte di Pasolini, o almeno ritenuto tale per la verità giudiziaria della Corte d’Appello e poi di Cassazione, che nel 1979 ribaltò la tesi del primo processo del 1975 su un omicidio volontario perpetrato “in concorso con ignoti”. Torna nel contempo di rinnovata urgenza la questione del delitto Pasolini, sul quale lo stesso Pelosi, dal 2005 in poi, ha fornito nuove, contraddittorie, ambigue versioni.
Su questa notizia, che continua a tenere accesa l’attenzione su uno dei fatti più tragici e oscuri della storia italiana del Novecento, pubblichiamo due articoli usciti il 21 luglio 2017 su “Repubblica” e “Il Corriere della Sera”, quest’ultimo a firma di Paolo Conti.
Delitto Pasolini, è morto Pino Pelosi. Il suo avvocato: «La verità non muore con lui»
redazionale
www.repubblica.it – 21 luglio 2017
È morto a Roma Pino Pelosi, l’uomo condannato in via definitiva per l’assassinio di Pier Paolo Pasolini, ucciso nella notte tra il primo e 2 novembre del 1975 a Ostia. Pelosi, che aveva da poco compiuto 59 anni, era malato di tumore. Da giorni ricoverato al Policlinico Gemelli, ieri era stato trasferito presso l’Hospice Oncologico dell’ospedale, “Villa Speranza”, dove è deceduto nel pomeriggio. L’agenzia Dire apprende che Pelosi, che viveva nel quartiere di Bastogi, si era sposato 20 giorni fa. «Era consapevole di quello che stava succedendo – racconta una fonte che preferisce rimanere anonima – ma aveva trovato una persona che gli dava serenità e che gli ha voluto davvero tanto bene. Stavano insieme da almeno quattro anni».
Nato a Roma il 22 giugno 1958, cresciuto nel quartiere Setteville di Guidonia, Giuseppe Pelosi aveva frequentato la scuola fino alla seconda media. Poi era diventato Pino, l’adolescente dai connotati esistenziali tipici dei “ragazzi di vita” ritratti da Pasolini: consumati dalla strada, divisi tra microcriminalità e prostituzione maschile. Finché quel 2 novembre del 1975 il telegiornale non rovesciò sulla tavola degli italiani davanti alla tv all’ora di pranzo la sconvolgente notizia: il ritrovamento del cadavere di Pier Paolo Pasolini, brutalizzato a morte in un campetto sterrato di Ostia Scalo.
Quella stessa notte del 2 novembre, il 17enne Pino Pelosi era stato fermato dai carabinieri intorno all’una e trenta sul lungomare Duilio di Ostia alla guida dell’Alfa del regista, scrittore, poeta e intellettuale. Guidava contromano a forte velocità. I carabinieri non sapevano ancora della morte di Pasolini e Pelosi fu inizialmente accusato solo di furto di un’auto che i documenti a bordo riconducevano a Pier Paolo. Pino aveva ammesso il furto, disse di aver rubato l’auto nei dintorni del cinema Argo, quartiere Tiburtino. Ma quando accanto al corpo della vittima fu ritrovato un grosso anello di Pelosi, dono di Johnny lo Zingaro, al secolo Giuseppe Mastini, il quadro evidentemente cambiò.
Trasferito al carcere minorile di Casal del Marmo e interrogato il 5 novembre, Pelosi cambiò la sua versione: disse di essere stato caricato da Pasolini nei pressi della Stazione Termini e di essersi recato con lui allo Scalo di Ostia. L’incontro, a sfondo sessuale, sarebbe degenerato in alterco, quindi in colluttazione. Pelosi affermò di essere stato colpito con un bastone e di essersi quindi difeso con una tavola di legno, l’insegna scritta a mano di via dell’Idroscalo. E di aver lasciato Pasolini a terra, fuggendo a bordo della sua auto, nella notte. Pasolini dunque morto per un incidente, schiacciato dalla sua stessa vettura guidata dal fuggiasco Pelosi, come per un “effetto collaterale” di una serata finita male. Sul luogo del delitto, secondo quanto dichiarò il ragazzo, non c’era nessun altro.
Rinviato a giudizio il 10 dicembre del 1975 per omicidio volontario, furto d’auto e atti osceni in luogo pubblico, Pelosi fu condannato a 9 anni, 7 mesi e 10 giorni di reclusione e 30.000 lire di multa. Soprattutto, la Corte lo ritenne colpevole di “omicidio volontario in concorso con ignoti”, perché durante il procedimento era emersa la convinzione che Pino, reo confesso di omicidio colposo, quella notte all’Idroscalo non era solo con Pasolini. Aprendo quindi a ipotesi sulle motivazioni del delitto ben più complesse della lite tra omosessuali finita male.
Anni Settanta, Pasolini intellettuale scomodo
Un anno dopo tutto cambiò, ancora una volta, in appello. Pelosi fu prosciolto per atti osceni e furto, ma si vide confermare la patente di omicida. Mentre la Corte d’appello, ribaltando la prima lettura degli atti, ritenne estremamente improbabile che il ragazzo avesse avuto dei complici. Sentenza confermata in Cassazione e definitiva il 26 aprile del 1979. Il delitto Pasolini tornava tragico epilogo di una questione tra omosessuali.
Detenuto nel carcere di Civitavecchia, Pelosi ottenne la semilibertà il 26 novembre 1982, quindi in libertà condizionata dal 18 luglio 1983. L’11 gennaio 1984 fu arrestato e in seguito prosciolto per insufficienza di prove in relazione a una rapina a un furgone postale. Nell’agosto dello stesso anno fu colto in flagranza mentre ruba in un appartamento. Nuovo arresto il 7 dicembre 1985, per tentata rapina. Pelosi ancora rapinatore il primo settembre del 2000, poi, dopo un ulteriore arresto per spaccio nel 2005, l’affidamento ai servizi sociali con mansioni da netturbino. Espiato il periodo di pena, Pino Pelosi tornò in libertà il 23 settembre del 2009.
Pasolini, l’ultima verità di Pelosi: «L’assassino è vivo»
Con la libertà, Pelosi ritrovò anche la parola, rilasciando interviste e portando nuovi elementi a sostegno delle teorie alternative alla verità processuale sulla morte di Pasolini. Nel 2005, durante un programma televisivo, disse di non aver picchiato personalmente Pasolini, aggredito a morte da tre persone dall’accento siciliano che avevano malmenato anche lui paralizzandolo di terrore.
Dettaglio non fantasioso, quell’accento siciliano, che immediatamente riportava a una delle ipotesi investigative seguite dagli inquirenti all’epoca dei fatti: la complicità nel delitto dei fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, siciliani noti nel mondo della malavita con i nomignoli di “Braciola” e “Bracioletta”, dediti al traffico di stupefacenti e militanti nel Msi. Un agente di polizia infiltrato negli ambienti di destra aveva persino raccolto il vanto con cui i fratelli Borsellino parlavano della loro partecipazione al pestaggio mortale di Pasolini, ma, sebbene i due non avessero neanche un alibi credibile per la notte del delitto, uscirono dal cono d’ombra delle indagini dopo aver dichiarato ai magistrati di essersi inventati tutto per costruirsi una reputazione da duri. Per la cronaca, i fratelli Borsellino morirono entrambi di Aids negli anni Novanta.
Al racconto in tv di Pelosi era presente l’avvocato Nino Marazzita, all’epoca del processo avvocato della famiglia Pasolini, costituitasi parte civile. Per il legale ce n’era abbastanza per chiedere alla Procura di Roma di riaprire il caso. Accade, ma per poco: la credibilità di Pelosi si dissolse quando si scoprì che era stato pagato per andare in onda. Nel 2011 Pino pubblicò la sua autobiografia, in cui l’assunzione di responsabilità per l’omicidio era motivata da minacce di morte, per sé e per i genitori, ricevute da uno degli aggressori di quella notte. Pino scriveva anche di aver atteso la scomparsa dei suoi cari prima di dire la sua verità.
Ma a quella personale verità mancava ancora una tessera. In tv, Pelosi aveva parlato di tre aggressori. Chi era il quarto uomo? Pelosi, in un’intervista al blog di Grillo del giugno 2009, si limitò a scagionare il più forte sospettato: proprio Johnny lo Zingaro, che gli aveva regalato quell’anello a cui il 17enne Pino teneva tanto e che credeva di aver smarrito per sempre la notte allo Scalo di Ostia di 42 anni fa.
L’avvocato Marazzita: «Pelosi è morto da colpevole. Purtroppo si è portato via i segreti che soltanto lui conosceva». Non è così invece per un altro avvocato: Alessandro Olivieri, il legale di Pelosi che lo aiutò anche a scrivere l’autobiografia: «Sono totalmente convinto della sua innocenza – dichiara alla Dire -. E devo dire la verità: una parte delle informazioni non sono state date e sono gelosamente custodite in una cassetta di sicurezza, perché sono troppo forti. Lui non se l’è mai sentita di diffonderle per paura che qualcuno potesse toccare lui o i suoi familiari. E non nascondo che la stessa paura potrei averla io, perché è vero che la firma sul libro e i fogli che ho sono a firma di Giuseppe Pelosi, ma è anche vero che avendoli io ho sempre il timore che qualcuno possa venire a bussarmi alla porta. Quindi esiste una verità, la verità non è morta con Pino Pelosi. Ma è talmente pesante e difficile da poter raccontare con semplicità. Vedremo, mi lascerò consigliare, parlerò con i familiari e parlerò anche con qualche altro collega per vedere come e quando tirar fuori tutto quello che so».
Delitto Pasolini, è morto Pino Pelosi. I misteri che porta con sé
di Paolo Conti
http://roma.corriere.it – 21 luglio 2017
È morto in ospedale a Roma Pino Pelosi. Aveva 58 anni ed era malato da tempo. Condannato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, Pelosi venne fermato la notte stessa del delitto a Ostia alla guida dell’auto dello scrittore.
C’è chi, morendo, porta con sé e per sempre (come si dice banalmente: nella tomba) la verità. È sicuramente il caso di Giuseppe Pelosi, detto «Pino la Rana», un volto antropologicamente perfetto per una foto segnaletica, nato a Roma il 28 giugno 1958 e morto all’alba di ieri dopo una lunga lotta con un tumore.
Dire «Pelosi» è sinonimo di «delitto Pasolini», uno dei capitoli di storia italiana del secondo Novecento che hanno segnato la nostra cultura contemporanea, per l’assassinio di un grande, straordinario regista, letterato, poeta, polemista (con i suoi Scritti Corsari apparsi sul «Corriere della Sera»), e anche la storia giudiziaria, per la matassa di verità, ritrattazioni, sentenze definitive, probabili depistaggi che non ha mai assicurato una verità su ciò che davvero accadde la notte del 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia. L’unica certezza fu la morte di Pasolini: atroce, con un pestaggio a sangue, la vittima colpita violentemente alla testa con una tavoletta di legno, poi caduta a terra e travolta più volte dalla Giulia dello scrittore.
La vicenda giudiziaria
Pelosi viene fermato la notte stessa a Ostia, all’1.30 per il furto dell’auto dopo aver percorso il lungomare a folle velocità e contromano, trasferito a Casal del Marmo. Al compagno di cella confessa: «Ho ammazzato io Pasolini». Dopo lunghi interrogatori (a Casal del Marmo c’è anche Johnny lo Zingaro, Pelosi prima lo accusa ma nel 2009 dirà che è estraneo alla vicenda Pasolini) il 10 dicembre 1975 Pelosi viene rinviato a giudizio dal Tribunale dei Minori per omicidio volontario: racconta di aver reagito con un paletto a un tentativo di violenza da parte di Pasolini, quando invece— spiega— era stato pattuito un semplice rapporto sessuale. Risponde sempre «no» a chi gli chiede se ci fossero altri. Il 26 aprile 1976 la corte lo condanna a 9 anni, 7 mesi e 10 giorni. Il giudice Alfredo Carlo Moro scrive: «Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo». Ma Pelosi, anche nei due successivi gradi di giudizio, per la verità processuale ufficiale resta l’unico responsabile del delitto. La Cassazione, il 26 aprile 1979, conferma la contestatissima sentenza di appello del 4 dicembre 1976 che liquida tutto come una lite «a due» in uno «scenario tra omosessuali». Pelosi esce dal carcere il 18 luglio 1983 in libertà vigilata ma comincia subito con un nuovo arresto per rapina nel 1984, poi furti e rapine fino al 2000, infine spaccio di droga nel 2005.
Ma è nel 2005 che Pelosi torna a parlare del delitto Pasolini. Nella trasmissione Ombre sul giallo condotta da Franca Leosini, “Pino La Rana” apre un capitolo nuovo: «Erano in tre, all’Idroscalo, parlavano con un forte accento del Sud, gli gridavano “sporco comunista”, “fetuso”». Avrebbero massacrato Pasolini e terrorizzato Pelosi al punto da impedirgli di soccorrere lo scrittore. Nel 2011 altra versione: nella sua autobiografia svela di aver conosciuto Pasolini 5 mesi prima dell’incontro in piazza dei Cinquecento della sera del 1 novembre 1975, quando andarono insieme all’Idroscalo. Nel dicembre 2011 Pelosi conferma tutto durante un incontro pubblico con Walter Veltroni che non ha mai creduto all’ unico assassino. Nel 2010 il cugino di Pasolini, Guido Mazzon, presenta una denuncia sostenendo che i vestiti di Pasolini contenevano tracce di dna di persone diverse. Ma nel maggio 2015 la definitiva archiviazione. E così Giuseppe Pelosi, detto “Pino la Rana”, per la giustizia italiana muore all’alba del 20 luglio 2017 come l’unico assassino di Pier Paolo Pasolini.