Il delitto Moro quarant’anni dopo. Una riflessione di Christian Caliandro

A quarant’anni di distanza dal sequestro e dalla morte, 55 giorni dopo, di Aldo Moro, che peso ha lasciato nella storia quel tragico fatto? E come influisce sul presente italiano? Si interroga su questi dilemmi Christian Caliandro, storico dell’arte, che propende a vedere l’Italia del terzo millennio un territorio irrisolto, che non ha fatto i conti con i suoi fantasmi.

Aldo Moro. Quarant’anni dopo
di
Christian Caliandro

www.artribune.com – 16 marzo 2018

«Capisca, sono cose talmente dolorose
che non me la sento di dare certezze».
Adriana Faranda

«Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
èlui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza…».
Mario Luzi

MOlto doloROso. MOlto doloROso. MOlto doloROso. Il fantasma di Aldo Moro infesta ossessiona paralizza l’Italia da quarant’anni esatti – dice il figlio Giovanni Moro (oggi sessantenne, quasi coetaneo del padre quando fu ucciso). Un paese fermo, un paese senza – senza baricentro, senza sviluppo, senza evoluzione. Inghiottito da una (finta? vera?) guerra civile. Il sollievo degli Anni Ottanta è effimero – fantasmatico anch’esso.
Sempre Giovanni Moro rifletteva su come questa ossessione, questo eterno ritorno dello spettro rimosso, sia un monito continuo di responsabilità trascurate e inevase, evitate per decenni; e Adriana Faranda (da allora “la Faranda”, come un personaggio dei fumetti) sottolinea come l’illusione delle BR sia stata quella di generare una forma di “corresponsabilità” nella politica del tempo: «Noi tirammo fuori tutti gli argomenti che spiegavano perché eravamo contrari all’uccisione di Moro. La certezza che sarebbe stato molto più destabilizzante da vivo. (…) [Le Br] si sono illuse che la morte di Moro fosse vissuta come una corresponsabilità» (Ezio Mauro, Adriana Faranda: L’ultimo giorno di Aldo Moro iniziò la fine di noi brigatisti, «la Repubblica», 14 marzo 2018, p. 29). Che colpo sarebbe stato liberare Moro! Che atto di accusa, e che classe, che cambiamento radicale avrebbe innescato! Moro che si era già dimesso dalla DC – Moro come scheggia di potere e di riflessione potente ormai autonoma, “cane sciolto” – Moro che aveva condannato il partito per averlo condannato a sua volta, con la strategia della “non decisione”.
Arbasino e Sciascia, osservatori acuti, che si dedicano parallelamente a indagare e analizzare – in diretta – i 55 giorni (In questo stato e L’affaire Moro, entrambi del 1978): «È come se, dentro al Palazzo, tre anni dopo la pubblicazione sul “Corriere della Sera” di questo articolo di Pasolini, soltanto Aldo Moro continuasse ad aggirarsi: in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate. Già sgomberate per occuparne altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto Palazzo. E più sicure, s’intende, per i peggiori. “Il meno implicato di tutti”, dunque. In ritardo e solo: e aveva creduto di essere una guida. In ritardo e solo appunto perché “il meno implicato di tutti”. E appunto perché “il meno implicato di tutti” destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni» (Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi 2012, pp. 14-15).

Aldo Moro e Pasolini alla proiezione di "Edipo re" alla Biennale di Venezia (1967)
Aldo Moro e Pasolini alla proiezione di “Edipo re” alla Biennale di Venezia (1967)

E Pasolini (l’altro fantasma) che avrebbe fatto altrettanto (e, forse, lo stava facendo …).
Dunque l’ingresso nella Seconda Repubblica – il cambiamento che avrebbe generato un altro, diverso presente ‒ lungamente preparato dal Grande Tergiversatore, dalla “Mente Fina”, dal “Maestro Sottile”, intercettato e interrotto traumaticamente il 16 marzo 1978 all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa, dà luogo a un lungo decennio di sospensione tra due tempi, tra due stati/Stati, che durerà fino all’inizio di Tangentopoli e alle stragi di mafia. E oltre.
Gli Anni Ottanta come tempo-spazio di decompressione, di trasferimento fallito, di transizione incompiuta…
Lo stallo attuale dell’Italia è il frutto (avvelenato) di quella paralisi, distante quattro decenni – e mai risolta.
«Soprattutto appare vistosa, nella generazione coccolata dal boom e parcheggiata nella crisi, una “mania di persecuzione”  violentissima e profondamente generalizzata: vedendosi attorno, per esempio, non già incompetenza e incoscienza e sfascio – e telefonate di brigate che nel climax della tragedia Moro raggiungono assistenti che scoppiano in singhiozzi e parrochi che devono prendere il pullman – bensì astuti e sapienti e soprattutto “raffinati” disegni e complotti dove tutto si tiene e tutto funziona per machiavellici e diabolici modernissimi fini che si possono poi riassumere in una vecchia e sbrigativa cifra, “fare il culo ai Giovani”» (Alberto Arbasino, Un paese senza, Garzanti 1980, p. 119).
Il sequestro è il concetto-guida che ci accompagna regolarmente e che ci ossessiona segretamente da allora: questo presente inaugura se stesso con Aldo Moro e Alfredo Rampi, le due figure della costrizione in spazi claustrofobici: una cella che è un interstizio e un pozzo profondo che è un cunicolo percettivo, le due capsule spaziotemporali in cui siamo rinchiusi ancora oggi, da cui stiamo tentando – o non stiamo tentando ‒ di uscire. Il nostro – il luogo una volta conosciuto come “il Belpaese”, in cui il paesaggio aveva un ruolo così importante nella costruzione dell’identità individuale e collettiva, nel suo rapporto stretto con il contesto architettonico e urbanistico, al tempo stesso quinta teatrale su cui rappresentare l’io e proiezione dell’altro – è divenuto nel frattempo un Paese “claustrofilico” (Giorgio Vasta).
Non ci siamo allontanati da quel territorio di spettri, per quanto apparisse colorato e saturo. La (presunta) guerra civile si è tradotta in un rinvio continuo, in un’estensione indefinita di quella strategia della non-decisione adottata durante i 55 giorni. Che, nel frattempo, sono diventati 14600.
L’incantesimo, finora, non è stato mai infranto: non nel 1989, né nel 1992-93, e neppure nel 2011.

[info_box title=”Christian Caliandro” image=”” animate=””](1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia. È membro del comitato scientifico di “Symbola” Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato La trasformazione delle immagini. L’inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-’83 (Mondadori Electa 2008), Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino 2011, con Pier Luigi Sacco) e Italia Revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani 2013). Cura su «Artribune» le rubriche inpratica e cinema; collabora inoltre regolarmente con «La Gazzetta del Mezzogiorno», «minimaetmoralia», «che-Fare». Ha curato mostre personali e collettive, tra cui The Idea of Realism // L’idea del realismo” (2013, con Carl D’Alvia), “Concrete Ghost // Fantasma concreto” (2014), entrambe parte del progetto “Cinque Mostre” presso l’American Academy in Rome; “Amalassunta Collaudi. Dieci artisti e Licini” presso la Galleria d’Arte Contemporanea “Osvaldo Licini” di Ascoli Piceno (2014); “Sironi-Burri: un dialogo italiano (1940-1958)” presso lo spazio CUBO (Centro Unipol Bologna, 2015); “RIFTS_Abate, Angelini, Veres” (Artcore, Bari 2015); “Opera Viva Barriera di Milano” (Torino 2016); “La prima notte di quiete” (i7-ArtVerona, 2016).[/info_box]