Robert Gordon, eminente studioso inglese della letteratura e della cultura italiane della modernità, recensisce due recenti studi focalizzati in particolare sull’ultima fase dell’opera di Pasolini, iniziata a partire dagli Sessanta: Esposizioni. Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità (il Mulino, 2017) e Pier Paolo Pasolini. Performing Authorship (Columbia University Press, 2017), rispettivamente di Marco Antonio Bazzocchi e Gian Maria Annovi. I due saggi sottopongono l’espressione pasoliniana a divergenti interpretazioni, attenta l’una, nel caso di Bazzocchi, a evidenziarne le pratiche parresiastiche della verità e l’altra, nel caso di Annovi, a farne emergere le strategie auto-rappresentative dell’esposizione autoriale. Tratto comune resta per entrambi la sottolineatura dei tratti performativi di un’opera giustificabile entro la cornice dei moderni sistemi di comunicazione mediatica: tratti che ne spiegano la persistente presenza anche nel dibattito della scena pubblica attuale.
Gordon, già docente nelle Università di Cambridge e Oxford, è autore o curatore di molti volumi, tra i quali Pasolini. Forms of Subjectivity (Oxford University Press, 1966).
Pier Paolo Pasolini. Verità? O Teatro?
di Robert Gordon
www.doppiozero.com – 5 marzo 2018
Pasolini dice la verità. Pasolini fa la parte di uno che dice la verità. Tra queste due ipotesi radicalmente contrastanti, almeno in apparenza, s’instaura un dialogo a distanza tra due dei contributi critici più interessanti e acuti degli ultimi tempi sulla figura di Pasolini. È un dialogo pieno di spunti originali, focalizzati soprattutto sull’ultima fase della vita e dell’opera dello scrittore-regista. Entrambi i saggi si concentrano per lo più sulla fase che parte dal 1963, l’anno in cui iniziò a stendere la sua incompiuta riscrittura dantesca, La Divina Mimesis (ma il ’63 è anche l’anno in cui Pasolini conobbe Ninetto Davoli, sul set de La ricotta), fino agli ultimissimi progetti, tra Petrolio, Salò, la poesia friulana rimaneggiata della Nuova gioventù, varie sceneggiature “da farsi”, da San Paolo a Porno-Teo-Kolossal, e – momento fondamentale per entrambi – le fotografie scattate da Dino Pedriali, con la progettazione e la stretta collaborazione di Pasolini stesso, tra Sabaudia e Chia, nell’ottobre 1975, alcuni giorni prima della sua morte, foto già descritte e commentate in pagine illuminanti da Marco Belpoliti (Pasolini in salsa piccante, Guanda, 2010). Oltre all’interesse intrinseco dei due contributi per gli addetti ai lavori, il dialogo tra di loro aiuta forse anche a spiegare in qualche modo il continuo, paradossale e non poco problematico fascino che Pasolini continua a esercitare sulla cultura contemporanea; il fantasma Pasolini, o meglio lo zombie Pasolini.
Pasolini dice la verità, o meglio Pasolini “pratica” la verità, sarebbe il riassunto, necessariamente riduttivo e sintetico, del libro di Marco Antonio Bazzocchi, Esposizioni. Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità (il Mulino, 2017). Bazzocchi, già autore di uno dei saggi più penetranti sullo scrittore-regista, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema (Bruno Mondadori, 2010) e di altri saggi importanti sulla figura del nudo e del corpo nella letteratura moderna, incorpora l’immagine e il valore per Pasolini di queste figure – della nudità, della sessualità, del corpo – per tracciare un esercizio pasoliniano del vero. Ruota intorno alla confessione, all’esposizione di sé, al parlare e al fare “senza pudore”, con forti connotazioni politiche, secondo un modello della verità tra età tardo-antica e prima età cristiana proposto da Foucault. Per il filosofo francese, questa forma particolare del linguaggio della verità si riassume nel termine greco parresia, cioè uno spietato e anche violento parlare diretto e chiaro, un “parlar franco”, “un dire altro, un dire diverso, un dire all’altro”. Per Bazzocchi, l’ultimo Pasolini pratica la parresia in tre modalità diverse, complementari e ugualmente radicali, implicitamente anti-dialettiche: la conversione, evidente nella figura di Saul/Paolo nella sceneggiatura di San Paolo; l’abiura, il rifiuto aperto dei fallimenti del passato («Abiuro dal ridicolo decennio», dice Pasolini sui suoi anni ’50, in Poema per un verso di Shakespeare); e la exomologhesis, cioè il rinnegamento totale del peccatore cristiano del suo passato, dichiaratosi pronto alla svolta verso altro. Sono tre stadi progressivi, che vanno dalle confessioni degli anni Sessanta, all’abiura dalla Trilogia della vita, al rinnegamento radicale di sé attraverso il sé diviso e trans-generico di Carlo di Polis e Carlo di Tetis, in Petrolio. Il libro di Bazzocchi segue il percorso parresiastico di Pasolini in sette capitoli brevi ma intensi, e attraverso essi, vediamo come, in un ritmo accelerato verso la fine della sua vita, Pasolini riesce progressivamente a esporsi e a distruggere sia il suo passato sia la realtà politica accerchiante del presente, aprendo un varco verso un nuovo stile, un nuovo “parlar franco” senza censura, un “non nascondere più niente”, che costituisce un nuovo sé proprio nel momento del suo pronunciarsi e del suo pronunciare la verità. Da qui Pasolini sembra ipotizzare la possibilità di un residuo, una sopravvivenza, una resistenza dentro il mondo contemporaneo, trasformato in modo apocalittico. Anche solo farsi fotografare da Pedriali, nudo, invecchiato, dietro un vetro trasparente, sfocato e fragile, costituisce per Bazzocchi una dichiarazione di verità che rinnega lo statuto autorevole dell’artista o dell’autore, per abbracciare una forma estrema di “expositio sui”, di auto-rivelazione e di auto-distruzione.
Anche il secondo libro, Pier Paolo Pasolini. Performing Authorship di Gian Maria Annovi, pubblicato in inglese dalla Columbia University Press (2017), si sofferma sulle fotografie di Dino Pedriali, come abbiamo già accennato. Ma ne trae conclusioni diversissime e prende esplicitamente le distanze dall’analisi di Bazzocchi: per Annovi, il vetro tra Pasolini e Pedriali è uno schermo per la proiezione dei desideri dell’autore e dello spettatore; è la visualizzazione della presenza della figura e dello sguardo dell’autore, in quanto tale, in tutta la sua multi-direzionalità, a partire dal doppio autore delle foto, Pasolini-Pedriali. È l’ultimo atto performativo dell’autore Pasolini presente all’interno della sua opera (sia Annovi sia Bazzocchi ipotizzano l’uso che avrebbe dovuto fare Pasolini delle immagini di Pedriali dentro l’edizione definitiva di Petrolio). Ancora più risonante per Annovi, a questo riguardo, è l’opera di Fabio Mauri, Intellettuale (1975), per la quale Mauri proiettò direttamente sul corpo di Pasolini, seduto in una sala pubblica, il film Vangelo secondo Matteo. Corpo, performance, cinema, luce e proiezione s’integrano in un insieme unico, ricordando a sua volta un altro aspetto foucaultiano di Pasolini, una “linea Velazquez”, richiamando Las meninas e il famoso saggio di apertura di Foucault di Le parole e le cose sul dipinto spagnolo. Mauri mette il corpo e l’immagine dell’autore di Il Vangelo secondo Matteo a contatto diretto con l’opera stessa, come Velazquez mette il quadro e l’autore del quadro all’interno del quadro. E Velazquez torna nell’analisi di Annovi nella sua lettura della tragedia Calderón, ma anche a sorpresa in altri luoghi dell’opera pasoliniana, come in Che cosa sono le nuvole?, e perfino in un’inquadratura di Salò, in cui una delle narratrici, la Signora Vaccari, occupa il centro della scena e i costumi, la distribuzione delle figure e degli spazi, oltre a vari elementi auto-referenziali, si riferiscono tutti per Annovi a Las meninas. Per Bazzocchi invece, le stesse inquadrature all’interno della villa delle torture di Salò e la stessa stratificazione spaziale significano invece che la villa esiste come spazio disciplinare, “eterotopico” o “pornotopico”, come “prigione, ospedale, manicomio e fabbrica” (ancora Foucault). Il Pasolini di Annovi, quindi, è fortemente costruttivista, mediato e mediatore, ossessivamente auto-referenziale, intento a creare e ricreare in ogni momento e in ogni suo atto proiezioni di se stesso in quanto autore (cioè, in quanto soggetto, effetto di soggettività, o “funzione” autoriale), e soltanto in un secondo momento, fonte di verità o di realtà. È un autore che recita la parte di uno che dice la verità.
Annovi ripercorre in sei capitoli, con titoli lapidari, i loci della presenza e dell’articolazione di questa performance autoriale di Pasolini: “Teatro” (la linea Velazquez), “Dante” (La Divina Mimesis), “Celebrità” (Orson Welles in La ricotta e Marilyn Monroe in La rabbia, entrambi auto-proiezioni incongrue di Pasolini); “Autoritratto” (gli autoritratti di Pasolini, e ritratti di lui fatti da altri, da De Rocco al ritratto dell’autoritratto di Massimo Listri, L’uomo dal fiore in bocca); “Recitazione” (Pasolini come attore, nel Decameron e nei Racconti di Canterbury e la sua presenza progettata, ma poi tagliata, nel Fiore delle Mille e una notte); e infine “Voce” (uno studio originale sulla vocalità di Pasolini, nei documentari Appunti per un’Orestiade africana e Comizi d’amore, e come voice-over divina nella Sequenza del fiore di carta). Da questo riassunto, si capisce che Annovi è intento a prendere l’opera pasoliniana di traverso, attraverso opere oscillanti, sospese, forme in movimento, figure oblique e presenze assenti, e di prestare attenzione soprattutto a effetti, evidenti e imprevedibili, di mise en abyme. Ma non è per questo una prospettiva formalista, post-modernizzante. È piuttosto una lettura queer, come quella suggestiva di Manuele Gragnolati nel suo bel libro, che mette a confronto Dante, Morante e Pasolini, Amor che move (Il Saggiatore, 2013), una lettura in cui l’autore, lungi da essere una figura morta (Barthes), è una presenza decentrata e frammentata, ma dinamica, ubiqua, “irriconoscibile” e quindi di per sé politica.
C’è sicuramente un senso di profonda e proficua incompatibilità tra il Pasolini di Bazzocchi, con la sua dinamica espositiva e il suo lancio disperato verso un’essenza della verità o almeno lontano dall’assenza di verità, e l’instancabile stratega-Pasolini di Annovi, che si inserisce e si plasma in mille contesti, discorsi e idiomi diversi, pur di costruire un’autorialità in qualche modo libera e autonoma e pur di evadere dal potere. Ma inevitabilmente, le due figure si avvicinano e si parlano, si confermano a vicenda anche contraddicendosi, seguendo il vecchio “scandalo” pasoliniano della contraddizione. Un esempio su tutti: l’attenzione che entrambi i critici prestano alla forma dell’intervista in Pasolini, come pratica quasi quotidiana del regista e scrittore, diventato figura pubblica tra gli anni ’60 e ’70, periodo analizzato nei loro saggi.
La forma dell’intervista, ennesima forma in movimento in Pasolini, “forma che vuole essere altra ‘forma’”, si manifesta diversamente nei libri-intervista (con Jean Duflot, con Oswald Stack, pseudonimo di Jon Halliday); nella poesia-in-forma-di-intervista Una disperata vitalità (Poesia in forma di rosa), chiave di lettura di un’intera fase dell’opera pluriforme pasoliniana; nell’auto-intervista su Salò pubblicata su il «Corriere della Sera» nel marzo 1975; e, forse al di là di tutti questi esempi, nella scena chiave de La ricotta, con Orson Welles e Pasolini intervistati dal giornalista di «Paese Sera», commentata con grande acutezza sia da Bazzocchi sia da Annovi. Il gioco della soggettività e la mise en abyme dell’uso della forma dell’intervista è per Pasolini un tentativo di controllare e di commentare il sistema di circolazione commerciale e culturale dell’immagine dell’autore in tempi consumistici, una forma nuova di auto-espressione o potremmo dire oggi di auto-fiction, e infine un modo di esporsi e di confessarsi attraverso gli strumenti mediatici, per arrivare a una pratica parresiastica: come dice Bazzocchi, «il dispositivo di exomologhesis serve a Pasolini per agire pubblicamente usando la propria immagine come strumento. Per questo noi assistiamo a una moltiplicazione dei procedimenti di expositio sui sia nei testi sia nelle strutture paratestuali, che diventano a loro volta nuove forme testuali. Penso … alla dimensione dell’intervista». Forse sta in questa sintesi tra esposizione e performance il motivo della persistenza di Pasolini in un momento culturale in cui mediazione e auto-espressione sono diventate sempre più dominanti nella sfera pubblica; ecco perché è così difficile, per dirla con Pierpaolo Antonello (Mimesis, 2013), dimenticare Pasolini.
Una nota in chiusura: Bazzocchi e Annovi, e gran parte del Pasolini che incombe oggi sulla scena culturale, si concentrano per lo più, l’abbiamo visto, sull’ultimo Pasolini, scandaloso, sfrenato, senza pudore. Ma forse quella dimensione sincretica in Pasolini di confessione-esposizione, di performance-verità, era già presente e anche abbastanza ben articolata nei lontani anni ‘40, anche se in chiave cristologica; se ricordiamo i versi di Crocifissione (L’Usignolo della Chiesa Cattolica):
Bisogna esporsi (questo insegna
il povero Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore è degna
di ogni scherno, di ogni peccato
di ogni più nuda passione …
(questo vuol dire il Crocifisso?
sacrificare ogni giorno il dono
rinunciare ogni giorno al perdono
sporgersi ingenui sull’abisso).
Noi staremo offerti sulla croce,
alla gogna, tra le pupille
limpide di gioia feroce,
scoprendo all’ironia le stille
del sangue dal petto ai ginocchi,
miti, ridicoli, tremando
d’intelletto e passione nel gioco
del cuore arso dal suo fuoco,
per testimoniare lo scandalo.