Per l’occasione della 74.ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, pubblichiamo un bel saggio dello studioso di cinema Luca Giuliani sul progetto, poco noto, di un film che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta Federico Fellini aveva in animo di realizzare sulla città lagunare. A Venezia Fellini aveva già rivolto il suo occhio visionario nel film Casanova del 1976, ma il nuovo progetto non andò mai in portò. Ne restano tuttavia alcune tracce nel soggetto possibile che restituiscono l’idea che il grande regista aveva in mente. Una Venezia, la sua, onirica e immaginaria, luogo dell’inatteso e del’imprevisto, trina ricamata della memoria e del sogno nella sospensione del tempo e dello spazio.
Il saggio di Giuliani è apparso su “Academia.edu” di agosto 2017.
La notte trapunta di inatteso. La Venezia di Fellini
di Luca Giuliani
«Da sempre sono tentato di fare un film su Venezia; non una storia nel senso tradizionale della parola, ma un film che tenti di riproporre il fascino, di suggerire quella malia, quella seduzione, quell’incantamento, quel senso di irrealtà, di dimensione sognata, fuori del tempo, nella quale ci sembra di vivere ogni volta che torniamo in quella città».
Con queste parole si apre il soggetto dal titolo Venezia spedito da Federico Fellini all’inizio degli anni ’90 agli amici Carlo Della Corte, Tiziano Rizzo e Andrea Zanzotto a conclusione di una corrispondenza in corso già dal 1972. Il progetto di un film su Venezia si era sviluppato alternandosi fra visite in laguna, l’invio di spunti, suggestioni, e la stesura di piccoli racconti (soprattutto da parte di Della Corte, di cui molti poi vengono utilizzati come motivi narrativi nella versione finale del soggetto) e le risposte sempre affettuose di un Fellini stregato da Venezia ma accompagnato dai sensi di colpa per non riuscire ad applicarsi con maggiore impegno all’idea. Nell’aprile del 1988 il progetto sembra concretizzarsi: Rizzo e Della Corte ricevono un contratto per la stesura di un trattamento dal titolo provvisorio Venezia. Nel 1988 sempre in una lettera a Tiziano Rizzo si parla del soggetto nella versione originaria che raccoglie alcuni episodi in più disposti in un ordine in parte diverso da quello della versione pubblicata nel 1992 (1). Tra la prima e ultima versione sembrano essersi persi per strada un racconto di Hugo Pratt, la celebre suggestione goethiana del «canto che un’anima solitaria affida alla lontananza perché un altro, animato dal suo stesso sentimento, lo oda e le risponda» e altri spunti di Della Corte: un pifferaio magico che libera le maschere dal carnevale del re delle televisioni, un povero impiegato in borghese giustiziato perché reo di leso carnevale, una promessa sposa che deve attraversare la laguna ghiacciata per arrivare alla cerimonia di nozze, un percorso fantastico fra i giardini di Venezia, quasi una sorta di barone rampante in laguna, e un’ultima immagine dei suoni di Venezia per nulla città del silenzio.
Oltre agli spunti, ai motivi, alle impressioni il racconto vero e proprio si articola in una dozzina di episodi. Per prima cosa la Venezia di Fellini si mostra dall’alto: «Dall’aereo. Un indecifrabile alfabeto di segni geroglifici, che ricordano quelli sumerici, creano una misteriosa mappa, un arazzo, una tappezzeria (liquida), un’infinita decorazione che si estende per centinaia di chilometri creata dalle capricciose arabescate infiltrazioni dell’acqua del mare che entra nella terra e, spandendosi in migliaia di tortuosi, curvilinei canali, rivi, laghetti, che visti dall’alto suggeriscono l’immagine di un immenso tappeto persiano».
Si inizia con un racconto di Edgar Allan Poe: un bimbo sfugge dalle mani della madre e finisce in canale. Quando ormai tutti disperano di trovarlo, dall’oscurità della facciata del palazzo di fronte, fra le numerose ombre e statue, si stacca una figura che salta in acqua e ne riemerge poco dopo col bambino fra le mani. Lo consegna alla madre, si scopre la figura di un bellissimo giovane al quale la donna impietrita offre un rendez vous, da cui il titolo del racconto.
Il senso di irrealtà e di mistero di Venezia è lo stesso, continua Fellini, che tormenta un famoso regista americano, fine, colto, sceso in laguna per ritirare il premio alla carriera e per ritrovare un amore giovanile.
Altra immagine: canale buio, fiammella in lontananza, un’imbarcazione con due giovani nudi che parlano attorno alla lampada. E’ il ricordo di quanto accaduto sotto casa di Tiziano Rizzo. Siamo all’inizio del carnevale: si vede una nobildonna impegnata nei preparativi di un raffinatissimo pranzo, occasione per far sfilare personaggi e storie non ancora individuate. Nel contempo in un clima allucinante le orde di turisti invadono la superficie di Venezia come i topi le sue profondità.
La cerimonia di inizio del carnevale prevede l’arrivo del re delle televisioni, che passando compra ogni angolo della città, e la diretta in mondo visione dell’ultimo crollo di un palazzo sul Canal Grande, vera e propria inaugurazione della festa, mentre al Torcello si riuniscono i sette grandi della terra. Il palazzo ovviamente verrà ricostruito più nuovo e bello di prima. Allo stesso tempo, una moderna incarnazione di Capitan Nemo, un ingegnere olandese che nella sua batisfera ci inoltra, accompagnato da una bellissima donna che intende sposare, alle prospettive fantascientifiche delle misteriose fondamenta della città. Intanto, in superficie, i veri eroi sono i restauratori. La storia si conclude con un racconto di Schiller anche se Fellini scrive: «Adesso non chiedetemi come entrerà a farne parte».
Il soggetto è accompagnato da una serie di indicazioni poetiche sulla natura dell’attrazione che Fellini prova per Venezia. Al di là di quanto riportato inizialmente – quel senso di malia, di incantamento che impronta la scrittura ai toni dell’effimero, della liquidità e della vaghezza delle superfici come del sentire -, si ricava una figura che fra tutte ricorre con maggiore frequenza: quella di una trama che emerge dal profondo, si mostra e torna a scomparire: «La notte di Venezia trapunta di inatteso come i sogni che accendono il buio tunnel del sonno, e dietro l’oscurità una tessitura di suoni, voci, richiami musicali inquietanti e vaghi». La trama del tessuto, della liquida tappezzeria di Venezia vista dall’alto, la trina infida e attraente dell’architettura dei suoi palazzi, ci aprono all’inatteso, all’incanto. Lo stesso Fellini annota: «Nel tentativo di individuare una traccia narrativa per un film che pretenda di rappresentare la città di Venezia, tento di suggerire in un ordine intercambiabile una serie di motivi e di immagini che potrebbero costituire, per analogia, per continuità di racconto, per contrasto, per intonazione anche semplicemente cromatica, i capitoli di un racconto libero, fiabesco, affrancato dal tempo e dalla logica , così come ci appare Venezia». E forse da questa suggestione conviene partire per fare emergere le ragioni di una affinità elettiva di Fellini per Venezia che, oltre alle reali occasioni d’incontro, solo il Casanova in definitiva, sembra approdare al moto primo dell’immaginazione e della poetica del regista. Venezia, per certi versi, sembra offrirci una mappa, per forza di cose labirintica, della poetica di Fellini.
Trapunta di inatteso, si diceva. Per quanto riguarda la composizione del racconto è lo stesso Fellini, come ricordato adesso, a evocare quell’andamento paratattico che da Ruskin in poi identifica il motivo architettonico gotico di Venezia. Il ghiribizzo stilistico, lo sfaldamento ritmico, l’omogeneità degli elementi, l’imperfezione come fondamento, l’episodico, l’asimmetrico appunto, ma anche la giocosità e la propensione al grottesco. Soprattutto l’apparente casualità e incertezza delle proporzioni che, attraverso l’ornamento e la decorazione, assumono, dissolvendole, le funzioni della struttura. Il ricamo della trapunta come essenza di Venezia. Una trama a vista che dà spettacolo di sé, è struttura e ornamento, decorazione al tempo stesso. Come non vedere nelle modalità di questo intreccio la propensione di Fellini al trucco, al falso, all’incantesimo come qualcosa che attraversa la profondità e giunge in superficie?
Un accostamento notato anche da Amengual a proposito delle Tentazioni del dottor Antonio: «Una volontà che fa ricongiungere vicino e lontano, fuori e dentro, protagonisti e comparse, chi è guardato e chi guarda, assicura se non sempre la nostra unione, almeno sempre la nostra viva immersione nella realtà umana che essa elabora. C’è nell’universo felliniano qualcosa delle città della pittura gotica. La parte è più grande del tutto o se l’uomo è più alto delle sue case non è che domini il reale ma che è sommerso da esso» (2).
La consueta fase euforica dell’ideazione dei soggetti e il successivo tormento per la realizzazione dei suoi film testimonia il tentativo di Fellini di lasciarsi parlare dalle idee, dalle immagini provenienti dalla profondità di ciò che non si conosce e di restituirle il più possibile intatte, affrancate dall’esigenza di una struttura logica. Del resto come scrive Sergio Bettini, Venezia è lo spazio più costruito e meno progettato che esista al mondo sotteso dalla logica dell’omogeneità delle parti piuttosto che della loro organicità (3). La profondità che la trama di un film deve lasciare emergere, ma di cui non può che essere parte, è proprio quel primordiale sentimento di attrazione e repulsione espresso ad esempio da Losey a proposito del Satyricon (4). È per Fellini l’essenza stessa del raccontare ciò che viene prima della storia e che porta lo spettatore a scoprire le proprie personali e intime pulsioni legate al desiderio e alla paura. Questo spazio originario, anteriore alla costituzione dei confini fra immaginazione e realtà, non per nulla costantemente ridisegnati nei suoi film, viene indicato da Fellini come quello della memoria.
«La memoria è come l’anima, esiste prima della nascita. […] Non si esprime attraverso il ricordo. E’ una componente indefinibile e misteriosa che ci invita a entrare in contatto con dimensioni, eventi, sensazioni, che non possiamo nominare, ma che sappiamo, anche se confusamente, essere esistite prima di noi» (5).
E quando Fellini invita Zanzotto a comporre i versi che accompagnano nella sequenza iniziale del Casanova la cerimonia dell’emersione dal Canal Grande della gigantesca e nera testa di donna, una specie di nume lagunare, la gran madre mediterranea, la femmina misteriosa che abita in ciascuno di noi, le suggestioni proposte sono pervase nuovamente dal senso di liquidità primordiale: «Il rituale dovrebbe essere accompagnato da orazioni propiziatorie, implorazioni iterative, fonie seducenti, litanie evocatrici e anche irriverenze, sfide, insulti, provocazioni, sberleffi, tutto un inquieto scetticismo esorcizzante il temuto fallire dell’evento» (6). E ancora: «Mi sembra che la sonorità liquida, l’affastellarsi gorgogliante, i suoni, le sillabe che si sciolgono in bocca, quel cantilenare dolce e rotto dei bambini in un miscuglio di latte e materia disciolta, uno sciabordìo addormentante, riproponga e rappresenti con suggestiva efficacia quella sorta di iconografia subacquea del film, l’immagine placentaria, amniotica, di una Venezia decomposta e fluttuante di alghe, di muschiosità, di buio muffito e umido» (7).
L’idea, la sua memoria, la parola che la evoca. L’immagine dunque, come lo spazio scenico di Venezia: un continuum indistinto e ininterrotto riprodotto per intero da ogni sua parte che sfalda il ritmo narrativo, o architettonico, e si riflette speculare come a Venezia nella superficie dell’acqua.
La notte di Venezia trapunta di inatteso. Della trama si è detto anche se per cenni. Converrà ora soffermarsi sull’inatteso, su quanto il ricamo fa emergere dalla profondità della memoria. Tornano nuovamente le analogie fra un luogo, Venezia, che ha fatto della rappresentazione del proprio passato la forza della progettualità presente, e lo stile di un regista che ha visto nelle potenzialità della memoria la chiave d’accesso alla realtà.
Le storie di Fellini, esplorazioni nei labirinti dell’inconscio e dell’immaginario nelle loro articolazioni più ampie, fino all’eccesso e alla deformazione, non sembrano neppure raccontate, ma risultano come proiezioni da un altro mondo – epifanie, apparizioni sono state definite – che sconvolgono i riferimenti e il rigore cartesiano della percezione quotidiana, e di fronte alle quali lo spettatore rischia la vertigine dello svelamento.
Il potere affidato alla scena, alle singole immagini, prima ancora della loro messa in successione da parte del montaggio, è essenziale. L’effetto empatico delle tonalità che traspare dall’organizzazione semantica del colore è tanto sorprendente quanto dissimulato. Il senso di vuoto, un’organizzazione spaziale quasi metafisica è stato detto, che emerge da alcuni paesaggi ricostruiti, esibiti per la loro falsità, contribuisce a dare quel senso di ordine nel caos descritta più volte come «magnifica confusione». Le immagini producono nello spettatore un’attrazione, una fascinazione immediata e sensazionale che sembra sospendere il tempo come nello stupore delle visioni.
I confini fra reale e immaginario sono saltati d’un colpo solo, con un balzo all’indietro verso il caos da cui i concetti stessi di realtà e immaginazione provengono. Si pensi per analogia alle parole con cui Bettini descrive la forza trasfigurante dell’architettura e dello spazio veneziani: «Queste traforate superfici contraddicono le impostazioni tradizionali dell’architettura non solo sul piano figurativo ma anche nell’ordine temporale giacché insinuano un ritmo a tempi multipli. L’equilibrio apparentemente compromesso da codesta irrazionalità si ristabilisce ma in un altro e diverso ordine strutturale: quello della continuità del colore di superficie, per il quale la dichiarazione formale dei rapporti peso-resistenza quasi non ha più senso»(8). Si potrebbe aggiungere, per quanto riguarda Fellini, neppure quelli fra passato e presente, fra memoria e invenzione.
E in questo senso quanto produttiva diventa la nozione di rovina che dall’Ottocento in poi accompagna Venezia? Quel singolare equilibrio fra natura e spirito che nel caso di Fellini ha portato Edoardo Bruno a parlare di un cinema come di una «profezia sul passato : una memoria su cui Fellini innesta l’angoscia di una morte immanente, si sente lo sforzo disperato per superare il punto doloroso di un trapasso già avvenuto ma sempre dolorosamente presente. Ginger e Fred sono già accaduti, sono il passato, la fantasmatizzazione di un desiderio; tutto quel che compiono è la memoria di un attimo irripetibile, l’ombra di un vicino remoto» (9).
Il ritmo che a Venezia dilata a sfalda la percezione della realtà (in termini temporali il percorso labirintico, in termini spaziali l’omogeneità e l’eccesso dell’ornamento che modulano fino quasi all’estinzione le proporzioni della facciata dei palazzi che si specchiano sui canali) sembra essere lo stesso che permette a Fellini di alterare le relazioni fra realtà e immaginazione.
«Il racconto di Schiller, come il precedente di Poe, mi sembra – dice Fellini – che dilati l’attesa e la trepidazione in maniera molto congeniale al progetto, fanno da specchio al mistero che si vuole evocare e allo stesso tempo costituiscono materiali primari, isole narrative alle quali ancorare questa specie di girovagare incantato attraverso la città incantata e inafferrabile» (10). L’inatteso dunque si articola nella dilatazione di un tempo sospeso, quello della memoria (o del mito), nel quale è possibile arrivare a una verità di cui si ha avuto conoscenza in precedenza e di cui dunque si può avere memoria. Si sa, arrivare a Venezia è sempre un ritornare. All’inatteso inoltre si accompagna anche l’idea di imprevisto, elemento essenziale dell’avventura di cui Venezia è da sempre patria.
Gli spunti potrebbero essere ancora molti per approfondire la natura delle affinità elettive fra Venezia e Fellini: oltre al tema della rovina e del riflesso ci sarebbero quelli del notturno e quella propensione di Venezia a essere altra da sé che l’ha portata a essere capitale di molti generi: Venezia città sacello, porta d’Oriente, altera Roma. Tanti generi quanti sono gli sbalzi d’umore e stilistici che percorrono i film di Fellini.
Ma in definitiva si potrebbe concludere che Venezia conferma a Fellini quanto siano stretti e allo stesso tempo inattesi i legami fra mito e memoria. Nell’immaginario di Fellini Venezia può essere sia la placenta originaria della sua Rimini, e i caratteri grotteschi alla Amarcord del racconto di Hugo Pratt lo confermano, sia l’inquietante Roma che ha saputo amalgamare – dice Fellini – «carnalità e religione, Cristo e Oriente» (11).
In fondo per Fellini, e per il regista americano suo alter ego protagonista del soggetto, Venezia rimane irrappresentabile, per usare le sue parole: «Si scontra con il tentativo inane di pretendere di raccontare con mezzi appartenenti allo spettacolo una città che è un’invenzione, il prodotto di una fantasia, di un sogno.
Questo gioco di specchi che tentano di riflettere e di catturare un’immagine che appare di per sé già come il riflesso di qualche altra cosa, dovrebbe nel suo incessante rinnovarsi assumere un senso di beffa, da restituire al cineasta ambizioso lo sconforto di una sconfitta» (12). Cos’altro è il Casanova se «non un film – sono sempre parole di Fellini – sull’inutilità della creazione, sul deserto arido in cui il creatore fatalmente si ritrova dopo essersi ingegnato a vivere solo con le sue marionette, o con le sue parole?» (13).
Memoria e attualità: origine e finzione sono per Bettini la natura del mito di Venezia. Non è certo nel fatto che Venezia mente (come vuole Simmel: «Venezia ha la bellezza mentitrice e tragica di una maschera che ha perse le radici con la profondità» [14]), ma piuttosto nel fatto che essa è fedele a se stessa: che realizza in sé, con una coerenza imperterrita, il suo senso singolare della interrelazione tra spazio e tempo. È vero che essa dà l’impressione dell’artificiale, cioè di essere poco natura (si pensi nuovamente al Casanova di Fellini) e molto creazione dell’’uomo: «Ma questa è la sua verità, dopo tutto. Proprio perché la forma di Venezia non è data una volta per sempre ma continuamente si discioglie e si ricompone e a ogni istante si crea di nuovo entro il nostro tempo: proprio per questo non mente» (15).
E il tempo, nel cinema di Fellini, ha confini dilatati, rimane sospeso come durante lo spettacolo del funambolo al carnevale che sulla fune gioca la vita. Spettacolo e vita, memoria e ricordo, invenzione e autobiografia sono lo spazio di un regista per cui «la memoria inventa le cose, ma non necessariamente mente su di esse» (16).
Note
1. Una versione del soggetto è stata pubblicata da Lietta Tornabuoni in Federico Fellini, Rizzoli, Milano, 1995, catalogo della mostra tenuta a Venezia nello stesso anno. La presenza di un numero maggiore di episodi nella versione di cui si tratta ora porta ad affermare la sua anteriorità nei confronti di quella pubblicata.
2. Barthélemy Amengual, Itinerario di Fellini: dallo spettacolo allo spettacolare, in Dario Minutolo (a cura di), Viaggio intorno a Fellini, Università di Padova, Padova, 1993.
3. Sergio Bettini, Venezia, nascita di una città, Electa, Milano, 1988, p. 30.
4. «L’ho trovato quasi insopportabile: ecco perchè, verso la fine, avevo il desiderio impaziente di rivederlo al più presto possibile». Joseph Losey, telegramma a Federico Fellini, 16 ottobre 1969. Pubblicato per la prima volta in «Positif», 293/294, luglio/agosto 1985, ora in L. Giuliani, V. Cordelli, R. Costantini (a cura di), Le invenzioni della memoria. Il cinema di Federico Fellini, Lo sguardo dei maestri, Pordenone, 2003.
5. Damian Pettigrew, Federico Fellini. Sono un gran bugiardo, Elleu, Roma, 2003.
6. Lettera di Federico Fellini ad Andrea Zanzotto, in Andrea Zanzotto, Per il Casanova di Fellini, Edizione del Ruzante, Venezia, 1976.
7.Ibidem.
8. Sergio Bettini, cit., p. 32.
9. Edoardo Bruno, Ciao Pippo, in «Filmcritica», n.362, febbraio 1986.
10. Dalle note al soggetto inedito Venezia di Federico Fellini.
11. Federico Fellini, intervista con Lietta Tornabuoni, «La Stampa», 21 marzo 1971, ora in Giuliani, Cordelli, Costantini, cit., p.155.
12. Dalle note al soggetto inedito Venezia di Federico Fellini.
13. Federico Fellini, in Claude Gauteur, Silvia Sager (a cura di), Carissimo Simenon, Mon cher Fellini, Adelphi, MIlòano, 1998.
14. Si veda Sergio Bettini, cit., p. 16.
15. Ibidem, p. 22.
16. Federico Fellini, in Damian Pettigrew, cit.