Le intuizioni e gli allarmi di Pasolini e Volponi a contatto con i mutamenti che la realtà industriale del dopoguerra opera nel tessuto abitativo e urbanistico delle città italiane, sconvolgendo antichi equilibri tra centro e periferie, travolgendo modi di vita, cambiando radicalmente territori e identità umane. Innovazioni vorticose e ferite brucianti nello spazio che sono introdotte dall’avanzare della modernità a colpi di scavatrici che piangono in Pasolini e in nome di un progresso inarrestabile di cui anche Volponi, dopo una prima fase di entusiasmo, non manca di deprecare in seguito la prospettiva angosciosa della devastazione, antropologica e ambientale. Sono i temi su cui Mario Sechi, professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Bari, concentra la sua analisi nell’acuto saggio Centri e periferie di città in Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, uscito nel 2004 sul numero 125 della rivista “Urbanistica”.
Qui è ripubblicato per gentile concessione dell’autore, che ringraziamo. (af)
Centri e periferie di città in Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi
di Mario Sechi
in «Urbanistica», 125, settembre-dicembre 2004, pp. 90-96
In un fascicolo di una pubblicazione aziendale dei primi anni Cinquanta, «Esso-Rivista», su cui si alternavano le firme di scrittori e di tecnici, scienziati ed artisti, nel segno di una rinnovata cultura industriale rivolta ai grandi problemi della ricostruzione post-bellica, ho rintracciato tra gli altri un interessante articolo del pittore Renzo Vespignani, dal titolo Periferia industriale (novembre-dicembre 1951), nel quale il tema delle nuove periferie metropolitane viene affrontato in una prospettiva assai sollecitante e positiva.
La tesi di Vespignani è che le grandi città a vocazione non industriale – come Roma in primo luogo – esprimano la propria vitalità moderna facendo agire sui margini del proprio territorio, invece che al chiuso delle fabbriche, la forza creatrice delle macchine. Gru e impastatrici, tra i capannoni dei depositi tranviari e dei gasometri e gli scali merci delle ferrovie, si accampano davanti agli occhi del pittore come agenti poderosi dell’innovazione, strumenti atti a scavare e lavorare il paesaggio, trasformando con ciò la vita stessa e l’immaginario dei suoi abitanti.
Siamo per ora lontani dalle attestazioni di allarme per il fenomeno della speculazione edilizia, che di qui a poco accompagneranno tutta la fase del boom economico: e alludo, tra i primi, al bel romanzo omonimo di Italo Calvino (La speculazione edilizia, del 1958), sulla distruzione della costiera ligure prodotta dal moltiplicarsi delle case di vacanza della nuova borghesia di massa. Agli albori della ripresa post-bellica, nel clima ottimistico ed operoso diffuso dal movimento olivettiano di Comunità al livello degli operatori industriali, degli urbanisti e dei sociologi, si afferma ancora un’idea tendenzialmente armonica del rapporto tra tecnica, produzione e progresso civile. Alle nuove frontiere della ricerca e della progettazione (si pensi all’uso pacifico dell’energia nucleare, invocato e perseguito in alternativa all’incubo delle armi atomiche) si attribuiscono potenzialità enormi di avanzamento dell’intero sistema, e così pure si assegna un valore di per sé positivo alla crescita impetuosa del tessuto edilizio attorno ai vecchi centri urbani.
Al nome di Vespignani (il pittore) affiancherei a questo punto il nome più noto di Pier Paolo Pasolini (il poeta e scrittore, poi cineasta), per illuminare più a fondo il contributo offerto dagli artisti – della parola e dell’immagine – alla decifrazione dei nuovi scenari della modernità italiana. Nei romanzi romani degli anni Cinquanta (da Ragazzi di vita del 1955 a Una vita violenta del 1959) Pasolini ha rappresentato, com’è noto, un conflitto aperto e doloroso tra il cuore borghese della città e l’accampamento sottoproletario delle borgate e dei suburbi: tutto un mondo escluso, brulicante di tensioni esplosive che il nuovo sviluppo non sembra in grado di contenere. La cintura della metropoli appare in questi romanzi-reportage come un paesaggio insieme devastato e informe, dove appunto convivono baracche e palazzine nuove dell’edilizia popolare, vecchi capannoni e officine, sterrati spelacchiati e fazzoletti di coltivi. Uno spazio aperto di frontiera, dove si specchia l’angoscia di un cambiamento non regolato, che assume tratti anarchici e violenti.
Sono non a caso i “pischelli”, gli adolescenti per definizione orfani e senza futuro che popolano tutta la stagione romana di Pasolini (cinema compreso, da Accattone a Mamma Roma), i più autentici interpreti di quella difficile transizione che investe le città italiane, la loro fisionomia e la loro identità, nel decennio del miracolo economico. Con l’ulteriore complicazione, per quanto riguarda Roma, di un inevitabile, oggettivo rinvio alla complessiva e controversa identità della nazione, alle tante divisioni nette che tagliano – tra Nord e Sud, borghesia e popolo, cultura e masse – la realtà antropologica dell’intera penisola. Non sono dunque, i “ragazzi di vita”, espressione di realtà marginali o residue, derivati insomma di un ottocentesco e pittoresco “quarto stato”, ma semmai escrescenze nuove e patologiche della modernizzazione. Nei loro destini di esasperazione (oggi diremmo, di devianza) e di morte, il getto della vita si ritorce soffocato, senza sviluppi.
Per quanto riguarda Pasolini, vorrei stringere su una sola puntualizzazione testuale, che non riguarda i romanzi né le sceneggiature dei film, bensì un componimento poetico di grandissima suggestione, intitolato Il pianto della scavatrice, e contenuto nella raccolta Le ceneri di Gramsci, vincitrice del premio Viareggio nel 1957. Si tratta dell’unica poesia che io conosca, avente come oggetto la realtà di un cantiere edile, uno dei mille e mille che cambiarono, in quel tempo, il volto delle nostre città, sfigurando e rifacendo, male o bene, facciate e strade, percorsi e dimore, reali e mentali, della gente comune.
La scena del cantiere si disegna dinanzi agli occhi del poeta sulla via del ritorno a casa, che egli percorre, come consuetudine, dopo un lungo attraversamento di quartieri popolari e borghesi (Trastevere, il Gianicolo, Villa Pamphili). Come ogni volta, a muovere il passo del flaneur attraverso la città (si pensi a Umberto Saba nel suo rapporto di amore carnale per Trieste, agli inizi del secolo) è un bisogno di conoscenza dinamica degli spazi e delle masse umane che li abitano. Ricordi e visioni si sovrappongono nella sua mente, risollevando le tracce di altre passate perlustrazioni, compiute in auto o in autobus, dalle borgate delle prime modestissime case dove abitò – al ghetto ebreo e a Ponte Mammolo, a Rebibbia – fin verso il centro, oppure attorno al perimetro largo della città (Monteverde, Primavalle).
Il disordine, il contrasto stridente delle varie facce della città, delle varie popolazioni che la compongono, si racchiude nell’immagine mentale di una distruzione creatrice, di un sommovimento dei sostrati di tufo, di fango, di terra, da cui emergeranno ogni volta le nuove forme dell’abitare e del vivere. È a guardar bene il concetto stesso di Leopardi, la fatica assidua della natura nel rifare all’infinito se stessa, incurante del dolore dei suoi figli, ma trasportato al livello del fare umano, che è nell’epoca moderna sogno di razionalità e di bellezza, ma anche sottrazione di vita, imposizione di modelli, di standard, di norme univoche del comportamento e del gusto.
Ecco allora, come un urlo d’animale, lo stridere della benna della scavatrice, attorniata dagli scalpellini, piazzata al centro dello spiazzo che presto diverrà cortile, recinto bianco e asettico della convivenza borghese, suona patetico ed angoscioso come un richiamo di condiviso dolore: «[…] Piange ciò che ha/ fine e ricomincia. Ciò che era/ area erbosa, aperto spiazzo, e si fa// cortile, bianco come cera,/chiuso in un decoro ch’è spento dolore.// Piange ciò che muta, anche/ per farsi migliore. La luce/ del futuro non cessa un solo istante// di ferirci: è qui, che brucia/ in ogni nostro atto quotidiano,/ angoscia anche nella fiducia// che ci dà vita […]».
L’esatta consapevolezza del poeta riguarda il mutare dei destini umani che ogni nuova pietra, ogni edificio, ogni nuovo isolato o condominio porta con sé. Per cui la macchina che scassa il suolo ed edifica, e l’energia che la muove, vista in azione su uno sfondo di vicende sociali e culturali di incerta e penosa evoluzione, assumono il valore di una enigmatica allegoria. Il realismo sperimentale del poemetto pasoliniano, come dei disegni e quadri di Vespignani, dove pure la natura si apre alla presenza dei manufatti edilizi ed industriali con sorprendente generosità, innesca una catena di interrogazioni di vasta portata, cui mancheranno a lungo – da parte di sociologi, di architetti e urbanisti, di operatori dell’ambiente – convincenti e meditate risposte. Quale sarà l’effetto a distanza di questa mutazione di scenari, di luoghi, di modi e di rapporti con lo spazio abitato, che investe da un capo all’altro l’Italia del miracolo? Quale sarà il risultato di questo nuovo, spaesante espianto di comunità e di individui, gettati oltre l’orizzonte delle loro culture?
Il protagonista di Una vita violenta, Tommaso, come del resto la madre prostituta e il figlio adolescente del film Mamma Roma, una volta entrati nella logica dell’adattamento all’ordine della rispettabilità borghese, dimensionate le loro speranze di felicità nel sogno piccolo-borghese della casa in condominio (le palazzine bianche dell’INA-case), appaiono come svuotati della loro torbida ma autentica umanità, fisicamente e mentalmente “spostati”, de-realizzati. La profezia negativa che lo scrittore proietta sui suoi personaggi, per sempre contaminati da un’ansia nevrotica di normalità, è una profezia in parte temperata da razionali contrappesi di fiducia illuministica, ma sta lì, e fa da incombente preludio a tutto un seguito di verifiche e di puntualizzazioni successive.
In ogni caso, se la poesia e il romanzo, il cinema e la pittura, si arrischiano a leggere problematicamente i mutamenti delle città, quando questi si fanno più accelerati ed intensi, ciò accade perché è la messa in situazione dei loro soggetti ad imporre questo sforzo. Ogni esperienza esistenziale e sociale si svolge dentro uno spazio. Tra mente e corpo si tende un nesso rigoroso di interdipendenza, cosicché persino le avventure della coscienza hanno un loro correlativo di materialità, una res extensa che irrevocabilmente le àncora.
Tanto il nouveau roman francese, quanto la pop art, e in Italia il cinema anni Sessanta di Antonioni e Ferreri, e le opere in versi e in prosa della neo-avanguardia, hanno in comune questo senso ravvicinato e asfissiante della spazialità, intesa come disordine, ingombro di materiali ed oggetti, artificializzazione estrema dei gesti della vita. Il chiuso delle case si inscrive nell’ordine di un paesaggio senza sfoghi di cielo, e cioè fisicamente, millimetricamente misurato.
Naturalmente, non tutta la letteratura dei decenni successivi si arrende, per così dire, alla fatalità di questo restringimento di campi. Un intellettuale di vivace e robusta cultura tecnico-umanistica quale fu Paolo Volponi seppe tentare vie originali di approfondimento della lezione di Pasolini. Dalla natia Urbino a Roma, poi a Ivrea e a Torino – dalla civilissima e pensosa provincia centro-italica alla cosmopoli del potere, dai laboratori della ricerca e della tecnica al centro di comando della grande industria automobilistica -, gli spostamenti di Volponi disegnano una larga perimetrazione di territori, e alimentano uno sforzo di teorizzazione a tutto campo dei processi del mutamento e dell’innovazione.
Il fascino della fabbrica cui soggiace il protagonista operaio del suo primo romanzo, Memoriale, del 1959 – soprattutto nei turni di notte, quando essa gli appare «lucente […] come un pezzo di stella caduta», «con i suoi vetri e metalli, con le grandi arcate azzurre e tutte le macchine in fila» – e la dedizione fiduciosa che egli rivolge alle macchine, alla loro fragile forza bisognosa delle mani e del cervello dell’uomo, sono il punto di partenza di un sogno di trasformazione e liberazione della vita attraverso la scienza: l’ardita utopia che lo scrittore marchigiano perseguirà accanitamente per decenni, motivando e ri-motivando la sua professione di letterato per l’industria.
L’impatto del nuovo sviluppo sull’intero scenario ambientale e culturale del paese suscita in lui un insieme di interrogativi di vasta portata. Qual è la qualità, cioè il contenuto di conoscenza e di bellezza inglobato nelle rinnovate linee della produzione? Quale la qualità dei consumi? Quali spazi sussistono, nell’evoluzione del mercato, per l’incremento della ricerca e dell’innovazione? Quali spazi di libertà si aprono nell’organizzazione del lavoro, e per la mente e i bisogni materiali ed emozionali dei cittadini-consumatori? La convinzione profonda di Volponi è che un effetto di progresso civile e culturale possa realizzarsi attraverso una virtuosa reazione a catena: dalla sfera della progettazione alla fabbricazione, e poi all’uso di macchine sempre più evolute, e ancora – indirettamente – alla diffusione di saperi ed abilità tecniche ed intellettuali di tipo creativo, capaci di liberare le potenzialità di realizzazione umana degli individui e delle comunità. In altre parole, l’educazione pragmatica ai valori della scienza può tradursi per lui in un impulso straordinario di emancipazione dalle paure, dalle soggezioni, dall’inerzia e dalla pulsione di morte che incombe (siamo in epoca post-nucleare) sul mondo contemporaneo.
Nel suo percorso di romanziere, Volponi tende al massimo l’arco dell’utopia, collegando il rigore astratto di questi pensieri alle psicologie di personaggi irregolari, provinciali anarchici e ribelli, come lo furono – non si dimentichi – tanti eroi della nuova scienza rinascimentale, nati nel fondo della campagna italiana, da Telesio a Bruno e Campanella. Contro la cappa della superstizione religiosa e della cultura accademica, le loro vite e i loro pensieri esplodono come razzi di solitaria speranza. Andando oltre l’accorata sociologia urbana di Pasolini, lo scrittore-manager vuol guardare, raccontando l’avventura del pensiero, dentro la traiettoria del mutamento, non solo per comprenderne la forza, ma per indirizzarla verso esiti pienamente umani.
Tanto più rovinosa apparirà a lui, a partire dagli anni Ottanta, la parabola di un nuovo ciclo della vita economica e produttiva, che sembrerà mettere in atto un processo di destrutturazione del sistema industriale rinnovato nel dopoguerra, e un conseguente smantellamento dell’alleanza tra produzione e cultura, e tra l’una e l’altra delle “due culture”: e un pericoloso abbassamento, infine, del livello della vita civile e culturale della nazione. Il lascito conclusivo della sua esperienza personale ed autoriale sta nelle pagine di un romanzo-saggio spietatamente profetico, Le mosche del capitale, uscito nel 1989, all’indomani della rottura definitiva della collaborazione con la FIAT.
Non sarà il caso di seguire qui il tormentato andamento di questo libro di analisi e di confessione, di denuncia e di grottesca allegoria del nuovo potere delle holding finanziarie e speculative, lanciate verso le praterie un po’ incivili del mercato della globalizzazione. Sarà interessante piuttosto vedere come la diagnosi delle nuove contraddizioni dello sviluppo, originatesi questa volta non fuori – nella politica, nel sociale – ma dentro la testa del sistema industriale, venga a cercare le sue conferme sulla scena della città, evidenziando una specie di malattia degenerativa della crescita urbanistica, che pare giunta ad un punto di vera e propria implosione.
La città è Torino, e la sua storia, scritta nelle pietre, nei pieni e nei vuoti dei quartieri e degli spazi abbandonati, è la storia di un ordine cercato e perduto. Al declino della fabbrica, alla sua perdita di peso nella strategia dei gruppi imprenditoriali, alla sua bruttezza contagiosa, che fa brutte le operaie, brutti i pezzi prodotti senza controllo di qualità, brutta la vita collettiva del lavoro, corrisponde il declino, e in definitiva la morte della città moderna.
Ridotta ad un informe budello, essa insacca disordinatamente, a strati e a blocchi, i conglomerati umani che furono classi e ceti, e che tendono ora a presentarsi disgregati ed atomizzati. Eccone uno spaccato, un carotaggio in senso radiale, che segue la linea di una direttrice viaria dal centro storico alle nuove periferie. Zone signorili, appena a ridosso della cinta monumentale, poi isolati di abitazioni ordinarie, piccolo-borghesi e popolari, votate a un inesorabile declassamento, con negozietti e sottoscala inzeppati di sotto-proletari semi-clandestini; poi di nuovo palazzi e condomini di qualche pretesa, ben muniti e protetti da «cancelli inferriate […] ringhiere colonne respingenti», con annessi supermercati; poi ancora un «nuovissimo residence» adatto alla polverizzazione abitativa delle innumerevoli monadi metropolitane, individui mescolati tra loro senza distinzione di status o di rispettabilità, forza-lavoro allo stato fluido, modernissima e flessibile, tanto nelle sue mansioni quanto nei suoi comportamenti sociali. Ma la fulgida modernità del residence è già deturpata dai segni di uno spaventoso incendio che ne ha distrutto due piani, lasciando a terra tre cadaveri senza nome.
Subito dopo, i «casamenti» operai, anch’essi a strati: prima i calabresi degli anni del boom, poi i sardi e i siciliani arrivati tardi e respinti dalla grande industria, poi veneti, lombardi e marchigiani, inseritisi alla spicciolata nelle piccole industrie disseminate intra moenia; poi di nuovo gli indigeni, chiusi in un rancore di accerchiati, poi infine le «case basse», dove alloggia come in una casbah una massa informe di popolazione senza precisa identità, lavoratori stagionali, mille-mestieri, prostitute, emarginati, delinquenti di professione.
In breve, l’organismo urbano sembra impotente a ricucire e a suturare le lacerazioni che la crescita puramente quantitativa degli spazi edificati, e l’ammassamento di nuove ondate migratorie, hanno prodotto. Quella ferita dolorosa ma vitale, che fu inferta all’immagine antica della città dalla scavatrice di Pasolini, ha come suppurato. La città, nata per unire, per incrociare i destini e le vite della gente secondo le esigenze del lavoro e della civile convivenza, esala – scrive Volponi – un puzzo di morte, mescolato di rumori assordanti e di rancorose solitudini. Inutilmente, il restauro di prestigiosi immobili da salvare, affidato al mecenatismo delle banche e delle finanziarie, preserva nel centro storico la monumentale bellezza di singoli manufatti, peraltro escludendola dall’uso, mettendola per così dire sotto vetro. La fine di un ciclo espansivo e progressivo della cultura industriale ha privato la crescita delle città di un alimento imprescindibile di progettualità e di idee.
L’angoscia dello scrittore può evocare, di volta in volta, immagini di disordine e di degrado, una vorace consumazione e contaminazione di spazi, oppure al contrario un’idea di ordine fittizio, operante dentro la psicologia e negli stili di vita delle nuove masse omologate. Ancora Pasolini, nell’ambizioso affresco del suo incompiuto e postumo Petrolio (1992), prova a schizzare a più riprese, come una specie di natura morta con figure, la condizione delle “nuove periferie”:
Le prime case erano posate su quella pianura senza forma: erano enormi, bianche, geometriche, le pareti battute dal sole […] erano accecanti, e la serie infinita e tutta uguale dei balconi le screziavano di piccole, secche, misere ombre identiche; le pareti in ombra erano nere e lisce: dei giganteschi rettangoli. Le forme di questi grandi casamenti, disposti in gruppi asimmetrici ma regolari, intorno a cortili circondati da muri, erano forme gemelle. Ripetizioni di una stessa forma; che del resto si ripeteva anche, analoga, negli altri gruppi vicini. Come costellazioni, questi gruppi di abitazioni, si spingevano dal deserto desolato verso costellazioni più fitte. Ma il silenzio non era meno fondo che nel deserto. Negli enormi cortili di materiale povero, cemento spruzzato per parere marmo, mattoni che parevano finti, il vuoto era assoluto. In qualcuno soltanto due o tre donne stavano raccolte, profilandosi oscure contro le pareti metalliche, con in mano sacchetti di plastica bianca, semitrasparente. C’erano anche dei bambini, lontani, silenziosi, per lo più oltre i cortili, tra i muretti di cinta e i fossati secchi e colmi di rifiuti oltre i quali si stendeva il deserto.
Certo, la testimonianza letteraria accentua lo stridore dei contrasti, prospetta in maniera univoca le tendenze di un’epoca, che è comunque un’epoca di difficile passaggio. Ma quel che ce ne resta è il segnale di allarme, la spinta etica a riflettere e decidere, per il futuro ancora, e per quel che sta in noi.
[info_box title=”Mario Sechi” image=”” animate=””]Laureato in Lettere moderne presso l’Università di Bari nel 1969, con una tesi sulla lirica barocca dell’Italia meridionale (relatore Mario Sansone), è professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea alla Facoltà di Lingue e Letterature straniere della stessa Università dal marzo 2000. I suoi interessi modernistici, divenuti prevalenti nell’ultimo ventennio, si sono concentrati sui seguenti poli: Italo Svevo e la letteratura europea post-naturalista; Le culture del fascismo; Le riviste letterarie tra anni Trenta e anni Cinquanta del Novecento; La poesia del secondo Novecento. Nell’ambito delle sue ricerche, ha acquisito una specifica competenza nella ricostruzione – in prospettiva geo-culturale – delle forme diffuse di organizzazione dei movimenti e delle tendenze artistico-letterarie, con particolare riferimento alle riviste e all’editoria, nonché ai centri della politica e della produzione. Ha collaborato e collabora a importanti riviste specializzate nazionali e internazionali; ha partecipato come relatore a numerosi convegni di studio (su letteratura e psicanalisi, le forme prosastiche della poesia, Alfieri politico, la critica letteraria degli anni Cinquanta e Sessanta, la letteratura giovanile del Novecento, il caso Metello, la poesia di Guido Calogero, ecc.); ha collaborato al progetto editoriale “Les lettres européennes” per le Edizioni Hachette di Parigi; è stato tra i fondatori della Società italiana per lo Studio della Modernità letteraria (MOD); è componente del Collegio dei docenti del Dottorato in Scienze letterarie linguistiche ed artistiche (indirizzo Italianistica) dell’Università di Bari e ha curato la realizzazione di varie tesi di Dottorato. Dirige attualmente un gruppo di ricerca «Revisione e reinvenzione dei generi nella modernità letteraria (tra Italia ed Europa)».
Tra i suoi lavori, Il mito della nuova cultura, Lacaita, Manduria, 1984; La figura del corvo, Liguori, Napoli, 1990, (con B. Brunetti), Lessico novecentesco, Graphis, Bari, 1996, Il giovane Svevo. Un autore “mancato” nell’Europa di fine Ottocento, Donzelli, Roma, 2000.[/info_box]