Il poeta salernitano Alfonso Gatto (2009-1976), noto come esponente di spicco della poesia ermetica del primo Novecento, fu anche attore e, per il cineasta Pasolini, vestì i panni dell’apostolo Andrea nel film Il Vangelo secondo Matteo (1964). Questa partecipazione, proseguita sporadicamente anche in Teorema (1968) e in alcuni film di registi amici, dà modo a Paolo Speranza di portare alla luce un aspetto inedito dell’impegno inquieto e curioso di Gatto, ossia il suo interesse per la decima musa, a cui dedicò non solo una saltuaria frequentazione del set, da attore “naturale”, ma anche l’impegno critico militante.
L’articolo di Speranza, uscito l’11 febbraio 2016 in www.lacittadisalerno.gelocal.it, è qui corredato da un’accurata scheda di Angiolo Bandinelli che indaga l’evoluzione e il significato dell’attività letteraria di Gatto, sul fronte sia della lirica che del lavoro saggistico, la cui valorizzazione è oggi portata avanti a Salerno dalla Fondazione Alfonso Gatto.
L’amore per i film Gatto e la critica cinematografica
di Paolo Speranza
http://lacittadisalerno.gelocal.it – 11 febbraio 2016
C’è un’immagine che, forse più di ogni discorso critico, ci aiuta a evocare l’intenso rapporto tra Alfonso Gatto e il cinema: la fotografia, in una pausa di Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, che ritrae il poeta, nei panni dell’apostolo Andrea, insieme ad una irriconoscibile Elsa Morante e ad una giovane comparsa.
Uno scatto “rubato”, nell’estate del ’64, sul set di Massafra: «Lungo le strettoie del vecchio centro storico mi capitò di notare Alfonso Gatto insieme a Elsa Morante mentre si riposavano in uno stanzone buio e fresco. Se ne stavano stravaccati su mucchi di fiscoli in mezzo a torchi e tini, in un frantoio vinicolo. Riuscii a fare un solo scatto. Dopo mi chiesero se si potesse procurare un po’ d’acqua fresca», ricorda il fotoreporter Domenico Notarangelo in Pasolini. Scatti rubati, a cura di Cetta Brancato, appena edito da “Quaderni di Cinemasud”.
In quell’istantanea affiorano i sentimenti con cui Gatto ha vissuto il suo feeling con la settima arte: un’assoluta disponibilità, un’attrazione antica, persino una naturalezza da attore consumato (sebbene avesse allora al suo attivo un solo film, nel lontano ’46: Il sole sorge ancora, di Aldo Vergano, nei panni di un macchinista).
Grazie a Pasolini, confessò su “L’Europa letteraria”, aveva riscoperto l’autentica poesia del Vangelo. E per lui tornerà sul set quattro anni dopo, in Teorema. Con identico entusiasmo risponderà ai successivi inviti di Francesco Rosi, in Cadaveri eccellenti, e di Mario Monicelli per Caro Michele, usciti entrambi nell’anno della sua scomparsa avvenuta l’8 marzo del 1976.
Due anni prima era toccato a lui, alla Radio e poi nella sua Salerno, commemorare l’amico Vittorio De Sica: «Direi che nei risultati migliori, nella qualità migliore del suo racconto cinematografico, nel giungere a questo potere di evocazione per dati addirittura descrittivi del presente, De Sica sia stato veramente uno dei pochi registi non soltanto italiani ad essere poeta, vicino in questo, forse, soltanto a René Clair e a Charlot», aveva affermato a conclusione del suo discorso, pubblicato molti anni dopo su “Civiltà della Campania”, da critico cinematografico autorevole ed esperto.
Il suo esordio (ampiamente analizzato da Pasquale Iaccio in “Cinemasessanta” nel 2009) risaliva al 1937, sul periodico fascista di Firenze “Il Bargello”, e l’appassionata attività critica, tuttora poco nota, si consolidò nel dopoguerra su varie testate (da “Film d’oggi” e “Cinematografo” al “Giornale del Mattino”) e con più continuità negli anni ’60 sul diffuso settimanale comunista “Vie Nuove”.
Tutti indizi dell’indiscussa importanza del cinema nella vita e nella poetica di Gatto. E pensare che al “cinematografo” il futuro poeta si era avvicinato, nella Salerno della sua adolescenza, persino con timore: «Dal Teatro Italia m’ero sempre tenuto lontano per paura.», ricorderà, rievocando con nostalgia quel sito misterioso e magico, «Di legno, grande, giallo, dipinto con lo stesso colore degli stabilimenti balneari, dai quali era a poca distanza, su un terreno vago, dove la villa comunale finiva con pochi pinastri nani e con qualche albero di robinia e di pepe».
In quella sala dall’atmosfera rumorosamente popolare, dove “i signori non c’entravano”, la star era Gennariello, figlio di Elvira Notari, la prima regista italiana, «l’attore-personaggio del cinema napoletano di quegli anni».
A Firenze e Milano i gusti si raffinarono: da Hollywood ecco Rodolfo Valentino (al quale dedicherà nel ’51 un reportage dalla natia Castellaneta), Chaplin – a cui riserva importanti scritti critici – e la “divina” Greta Garbo: passione condivisa, rivela una lettera del ’33, con l’amico avellinese, e futuro critico letterario, Carlo Muscetta.
Verrà infine la scoperta del grande cinema italiano: Pasolini, e prima ancora De Sica-Zavattini e Federico Fellini: «Egli vede per noi le cose che qualche volta abbiamo creduto di vedere», scrive nell’onirico elzeviro “La noce che scende le scale”. Proprio come per quel ragazzo di Salerno che aveva scoperto la magia del grande schermo sulle panche del Teatro Italia: «Il cinema, in quegli anni e nei luoghi di cui vi parlo, era un modo di dar corpo alle ombre (lo è forse anche adesso) e di ricordare quello che si era creduto di vedere».
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Alfonso Gatto nacque a Salerno il 27 luglio 1909, da Giuseppe e Erminia Albirosa. La sua era una famiglia di marinai e piccoli armatori, di origine calabrese. Frequentate le scuole a Salerno e iscrittosi nel 1926 all’Università di Napoli, dovette abbandonare gli studi non ancora ventenne per difficoltà economiche familiari. Seguì un periodo irrequieto, segnato da spostamenti continui, durante il quale Gatto esercitò varie attività (commesso di libreria ma anche giornalista e insegnante).
Nel 1932 pubblicò a Napoli il suo primo libro, Isola, e nel 1934 poté infine stabilirsi a Milano, dove entrò in contatto con gli ambienti letterari del caffè Craja ma soprattutto con Edoardo Persico, figura di punta nel rinnovamento della cultura artistica milanese. Sono da segnalare di questi anni, a testimonianza del fervido intreccio di interessi culturali cui Gatto si venne dedicando, la collaborazione alla rivista “Campografico” di A. Rossi e saggi di critica d’arte, tra i quali Atanasio Soldati pittore (Milano 1934).
Recensendo l’esordio del giovane, Sandro Penna poteva salutare una voce poetica «raffinatissima, parnassiana», che «ci viene dal Sud», carica di «espertissimi giochi» scaturiti da «sensi meravigliosi». Nel maggio dello stesso anno, Eugenio Montale segnalava la presenza in quei versi di una «sensualità» non esente tuttavia da una «esasperazione intellettuale», «metafisica»; ma avvertiva anche, nella pagina del giovane poeta, il peso di «reminescenze» che la rendevano a volte diseguale. In questi due giudizi erano già presenti le coordinate utili a tracciare un primo profilo del poeta; vennero infatti, in buona misura, confermati dalla successiva critica.
La buona accoglienza riscossa all’esordio si rinnovò con il secondo volume di versi, Morto ai paesi (Modena 1937). Quali componenti essenziali di queste prime prove di Gatto si venivano via via individuando la rigorosa ricerca formale, un problematicismo di ascendenza vociana e intriso di diffidenza verso il canto dispiegato della tradizione ottocentesca, ma anche influssi provenienti dalla poesia dialettale meridionale (Salvatore Di Giacomo, Francesco Gaeta) e magari un tono, o timbro di fondo, tale da accomunarlo ai tanti scrittori (tra i quali, per es., Salvatore Quasimodo) saliti dal Sud a Milano nello stesso giro di anni. Le due smilze raccolte divennero, assieme alle opere di Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Mario Luzi, Pietro Bigongiari, e altri, punto di riferimento e quasi bandiera del rinnovamento della poesia e della connessa poetica.
La produzione di questi poeti e dei loro maestri Ungaretti e Montale, subito accomunati nella fortunatissima definizione di “ermetici” (Francesco Flora, La poesia ermetica, Bari 1936), era infatti accompagnata da una forte tensione teorica, nello sforzo di mettere a fuoco quella poetica “della parola”, o anche, secondo una definizione che è proprio di Gatto, della “assolutezza naturale”, di cui la loro lirica voleva nutrirsi. La sua prima elaborazione era fatta risalire, storicamente, ai grandi parnassiani e simbolisti francesi, da Paul Verlaine a Stephane Mallarmé e a Paul Valéry, ma se ne rintracciavano anche in Italia validi precursori nel Pascoli delle Myricae o nel D’Annunzio del Notturno. Secondo questa poetica, la poesia moderna doveva programmaticamente mirare, come si disse anche, all’essenziale, alla sillabazione netta della parola, scandita e isolata nell’alone polisemantico che la rende insieme vaga e magicamente espressiva. Subito divampò, aspra, lunga e complicata, una polemica tra entusiasti fautori e avversari.
Carlo Bo, che di quella poetica fu difensore strenuo, ha scritto che il termine di “ermetica” venne escogitato a condanna di «un modo di poesia oscuro o piuttosto in contrasto con quella che era la tradizione ultima dei poeti dell’ordine» (Bo, p. 416). Prendendo di petto la poesia ermetica in realtà si polemizzava non tanto, o non solo, contro poeti dalla voce inconsueta e portatori di una concezione misticheggiante dell’arte e del suo rapporto con l’Assoluto, quanto piuttosto contro una tendenza, una atmosfera che caratterizzava e definiva, nel suo complesso, la più vivace cultura artistica di quegli anni. Ci si rendeva conto di uno sforzo consapevole dei giovani intellettuali e letterati per confrontarsi da una parte con i modelli avanzati della cultura europea contemporanea, ma dall’altra anche, in un gioco di simpatie e assonanze a volte puntuali a volte ingenue e forse velleitarie, con le problematiche sociali e politiche del tempo, in dialogo serrato ed esigente con l’ideologia del regime, le sue pretese totalizzanti ed egemoniche sulla cultura e sull’arte.
A queste polemiche Gatto partecipò in posizione di primo piano, dalle colonne delle riviste fiorentine “Il Bargello” e soprattutto “Campo di Marte”, quindicinale di “azione letteraria e artistica” da lui retto dal 1938 al 1939 insieme con Vasco Pratolini, sotto la nominale direzione di Enrico Vallecchi. Grazie a questa rivista, il centro di irradiazione delle tematiche dell’ermetismo si trasferiva da Milano a Firenze. Nella sua breve vita (12 numeri, dall’agosto 1938 all’agosto 1939) il battagliero foglio si sforzò di individuare i modi di un raccordo tra la poesia d’avanguardia, ermetica, e quegli aspetti della tradizione che si pensava fossero pronti e maturi per un salto rivoluzionario.
La polemica divenne anche politica o almeno ideologica, aprendo spaccature profonde che videro i nuovi poeti, peraltro affiancati sulla trincea ermetica da un drappello di critici e poeti cattolici (come i già ricordati Bo e Luzi), contrapporsi a letterati e a critici vicini alle concezioni crociane e quindi portatori, a loro avviso, di una ideologia della separazione dell’arte dalla vita di significato borghese.
L’epoca di “Campo di Marte” segnò una maturazione critica dell’intellettuale che, nel clima della crisi incombente e già avvertibile in Italia e in Europa, veniva scoprendo le ragioni di un nuovo e più articolato impegno ideale e civile, anche se ancora nell’alone di quel fascismo detto di sinistra che a Firenze aveva uno dei suoi punti di forza. Per comprendere l’evolversi della sua esperienza non va dimenticato che Gatto, il quale ancora nel 1935 aveva con successo preso parte (presentato come «scrittore, redattore del “Giornale del mattino”, poeta») ai Littoriali del GUF (Gruppi dei fascisti universitari) nella sezione “Narrativa”, nel 1936 fu arrestato per antifascismo e, pur senza processo, dovette trascorrere sei mesi in carcere.
Nei versi composti dopo il 1937 – quelli di La memoria felice (in Poesie, Milano 1939) come i successivi Arie e ricordi e Ultimi versi (che troveranno posto nella 2ª ed. di Poesie, Firenze 1941) – non è tuttavia agevole riscontrare un accrescimento, tematico o timbrico, parallelo allo sviluppo teorico. Oltre alle poesie di L’allodola (Milano 1943), anche le assai belle liriche di Amore della vita (ibid. 1944), che ci portano ben entro l’esperienza di guerra, possono essere ancora ricondotte pienamente ai moduli precedenti, anche se con una limpidità di accento che le distanzia alquanto dalle tensioni dell’ermetismo più ortodosso.
Semmai, vibra qui con più sicura e aerea felicità tutto l’impressionismo già individuato come parte del bagaglio più intimo di Gatto («Si spensero i fanali / restò la luna sui davanzali. / Grigia e rosa come un duomo / ove cantano le vocali»: La luna) ed è ancora percepibile la figuratività di tanta pittura novecentesca. Anche il tema della morte, che pur si affaccia con maggior insistenza, può esser fatto risalire a una dimensione culturale antropologica più che storica o ideologica.
Ottenuta nel 1941 la nomina, per “chiara fama”, a ordinario di letteratura italiana al liceo artistico di Bologna, Gatto conobbe finalmente qualche tranquillità economica. Oltre che a “La Ruota” di Mario A. Meschini iniziò anche una collaborazione alla rivista di Giuseppe Bottai, “Primato”, sulla quale venne pubblicando con continuità poesie e recensioni letterarie. A questo periodo risale anche l’atto unico Il duello (Milano 1944).
Al 1943 va fatta risalire la sua partecipazione attiva alla Resistenza. Iscrittosi al Partito comunista, dal 1944 al 1945 collaborò a “Rinascita” di Palmiro Togliatti, mentre nel 1945, subito dopo la liberazione della città, lo troviamo assieme con Elio Vittorini, Raffaele De Grada, Giansiro Ferrata, nella redazione milanese dell’”Unità”, di cui fu anche inviato speciale. Nel dopoguerra, pur partecipando all’esperienza milanese de “Il Politecnico”, si trasferì definitivamente a Roma, giornalista e pubblicista presso varie testate.
L’iscrizione di Gatto al Partito comunista, come quella di altri intellettuali dell’epoca, non era stata casuale e formale. Nell’adesione al comunismo egli portava quasi integralmente le ragioni di una riflessione maturata negli ambienti del fascismo di sinistra, in particolare nei suoi più scoperti filoni fiorentini. Questo impasto ideale o ideologico di stampo populistico venne a incontrarsi con l’ambizione togliattiana di costruire, grazie al collante del gramscianesimo, un nuovo “blocco” intellettuale alternativo. Gatto sarebbe tuttavia uscito dal Partito comunista già nel 1951.
La fine della guerra, il disastro civile e la svolta politica portarono una sofferta rottura nella poesia di Gatto. Appartiene a questi anni, del resto, la dichiarazione di morte dell’ermetismo, decretata da Bo in un intervento a Parma nel 1942, ma già in realtà consumata nella crisi storica del paese. La svolta fu del resto comune a molti altri poeti (si pensi, per esempio, a Quasimodo). Possiamo riscontrare tutta l’ampiezza del distacco nelle composizioni di Il capo sulla neve (Milano 1949, poesie dal 1943 al 1947) dove è pienamente avvertibile lo sforzo drammatico di aderire alla materia incandescente della guerra e soprattutto della Resistenza. Sotto l’urgenza del tema d’occasione – la diretta esperienza dell’orrore e della violenza – il verso si scioglie dalla sillabazione e dallo stato di aura sospesa che aveva caratterizzato le prove precedenti e si fa più narrativo, prosastico, sovente intriso d’alta retorica. Ciò, almeno, nell’intenzione, nello sforzo tutto programmatico del poeta: perché la misura letteraria, la fedeltà a un insistito modulo interiore finiscono poi spesso per condizionare la scansione e la resa timbrica.
Le opere successive furono pubblicate, a riconoscimento di un’autorevolezza indiscussa, presso Mondadori (Milano). Nelle due più importanti raccolte del dopoguerra, La forza degli occhi (poesie degli anni 1950-53, pubblicate nel 1954) e Osteria flegrea (poesie del 1954-61, pubblicate nel 1962), la carica ideologica trasfiguratrice delle esperienze di guerra appare esaurita e il verso si articola in forme e ritmi più congeniali, nemmeno più ristretti nella ricerca delle fulminanti analogie della stagione ermetica (che del resto non furono mai davvero centrali nella sua opera). L’endecasillabo – un endecasillabo dalle tonalità crepuscolari – si giustappone a forme meliche e idilliache, a cadenze cantabili adagiate finalmente con naturalezza, senza più i timori delle prime raccolte, nella grande tradizione di Pietro Metastasio e Paolo Rolli.
E sempre più frequentemente, seguendo una sua profonda vena, il poeta scenderà alla riscoperta del Sud, il Meridione colto, attraverso una appassionata memoria, come fonte orfica del suo rapporto con gli altri e con la stessa natura. Qui egli scaverà sempre più spesso – in una sorta di ripiegamento doloroso, mitizzante – la materia degli affetti familiari, umani più che direttamente sociali; una ispirazione cui obbediscono le liriche dell’«umanissimo gruppo» (Contini) di La madre e la morte (Galatina 1959).
Ancora nel 1961 Gatto poteva dichiararsi contrario a una letteratura “europea” e invece partecipe di una cultura schiettamente italiana, che si appellasse alle tradizioni più segrete e profonde.
Nella raccolta La storia delle vittime (Milano 1966), oltre alle poesie degli anni 1962-65 e Giornale di due inverni (1943-44 e 1964-65), confluirono le già ricordate liriche di Amore per la vita (1944) e di Il capo sulla neve (1949). Con un’edizione ulteriormente rimaneggiata di Poesie, nel 1960 Gatto iniziò presso Mondadori la pubblicazione di tutta la sua opera poetica: alla riedizione di La forza degli occhi (1967) e Osteria flegrea (1970) seguirono le Poesie d’amore (1973), inglobanti anche le precedenti Nuove poesie(scritte negli anni 1941-49).
Di Gatto vanno ancora ricordati la «fiaba populistica» (Contini) Il sigaro di fuoco (Milano 1945) e Il vaporetto (Milano 1963): sono versi scritti per l’infanzia, ma che hanno sovente la stessa intensità e qualità delle opera maggiori. Accanto al Gatto poeta esiste poi anche, non occasionalmente, il prosatore: gli articoli, i ricordi, i raccontini, raccolti in La sposa bambina (Firenze 1943), con la presentazione impressionistica del piccolo mondo provinciale o infantile che il poeta sente suo e che sa tratteggiare con partecipe tenerezza (si legga per esempio il brano Ritratti di mia madre), richiamano in qualche modo le atmosfere della produzione poetica coeva, collocandosi nella misura della prosa d’arte. Dopo i volumi La spiaggia dei poveri (Milano 1944) e La coda di paglia (ibid. 1949), sviluppano invece una più insistita ricerca narrativa le prose di Carlomagno nella grotta (Milano 1962), nelle quali le tematiche meridionalistiche vengono affrontate con piglio quasi saggistico, tanto che a volte la scrittura, nel tentativo di cogliere gli aspetti propriamente problematici delle questioni, si avvolge in un andamento concettoso e oscuro, che richiama le matrici ermetiche dell’autore. Oltre alla traduzione da R.E. Raspe, Avventure del barone di Münchhausen (Milano 1950) e alle prose di Napoli N. N. (Firenze 1974), va fatto accenno, infine, all’apprezzata attività di acquerellista e pittore, cui Gatto si dedicò negli ultimi anni, che ispira le Rime di viaggio per la terra dipinta (Milano 1969) e che è connessa con la sua ininterrotta operosità di critico d’arte, testimoniata dai volumi: Disegni di Ottone Rosai (Venezia 1939), L. Broggini scultore (Milano 1940), Ottone Rosai (Firenze 1941), 12 opere di Virgilio Guidi (Milano 1943), Virgilio Guidi (ibid. 1947), 25 nuove opere di D. Caponi (Firenze 1959); Cagli (Parma 1967); Testimonianza per Omiccioli (Roma 1967).
Gatto morì, in un incidente automobilistico, a Capalbio, nella Maremma toscana, l’8 marzo 1976.
Postumi sono stati pubblicati i volumi di versi Lapide 1975 (Genova 1976) e Desinenze: 1974-76, a cura di R. Jacobbi e P.M. Minucci (Milano 1977); le prose de Il sogno del poeta, a cura di F. D’Episcopo (Salerno 1990), di Modelli d’arte, a cura dello stesso (ibid. 1996) e de Il pallone rosso di Golia, a cura di C. Nesi, Milano 1997; Gli anni tra parentesi. Lettere ad A.M. Mazzucchelli (1936-39), a cura di A. Astarita, Cava dei Tirreni 1996; Poesie, a cura di F. Napoli, Milano 1998.
Fonti e Bibliografia: S. Penna, Isola, di G., in Italia letteraria, 12 febbr. 1933, p. 8; E. Montale, Isola, di A.G., in Pegaso, maggio 1933, p. 634; G. Ferrata, A. G.,Morto ai paesi, in Letteratura, luglio 1937, p. 162; O. Macrì, Commenti ad A. G., Domodossola 1938; G. De Robertis,A. G., in Id., Scrittori del Novecento, Firenze 1940, p. 355; G. Ferrata, La poesia di G., in La Ruota, ottobre 1941, p. 230; C. Muscetta, A. G. poeta, in Primato, gennaio 1942, pp. 15-17; F. Casnati, Cinque poeti, Milano 1945, pp. 59-67; G. Petroni, A. G., in La Fiera letteraria, 25 giugno 1950, p. 5; La Fiera letteraria, 25 dic. 1955 (n. dedicato ad A. G.); Lirica del Novecento, a cura di L. Anceschi – S. Antonielli, Firenze 1961, pp. XCII, 545, 827; M. Grillandi, A. G. Inquietudini e surrealtà, in Id. Poeti, Milano 1963, pp. 149-177; G. Pampaloni, Prefazione, a Un poeta e la sua città. Omaggio del Comune di Salerno ad A. G., Salerno 1964, pp. 13-30; G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino 1965, pp. 222-232; G. Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea(1940-1965), Roma 1967, pp. 165-170; C. Bo, La nuova poesia, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), IX, Il Novecento, Milano 1969, p. 416; B. Pento, A. G., Firenze 1972; G. Contini, La letteratura italiana. Ottocento e Novecento, Firenze 1974, pp. 377-379; E. Mazzali, A. G., in I contemporanei, II, Milano 1977, pp. 1575-1586 (con bibl.); A. G., in Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano 1978, pp. 607-620 (con antol.); C. Muscetta, Inizi di G., in I contemporanei, VI, Milano 1979, pp. 5774-5783; Riscontri, ottobre-dicembre 1979, n. 4 (n. dedicato al G., a cura di F. D’Episcopo); Stratigrafie di un poeta: A. Gatti. Atti del Convegno nazionale di studi, Salerno1978, a cura di P. Borraro – F. D’Episcopo, Galatina 1980; E. Gioanola, A. G., in Letteratura italiana contemporanea (Lucarini), II, Roma 1980, pp. 343-348; A. G.: oltre la letteratura. Poesia e arti figurative, a cura di F. D’Episcopo, Salerno 1983; Università di Salerno, La cultura italiana negli anni 1930-1945. Omaggio ad A. G., Napoli 1984; S. Ramat, G., A., in Dizionario critico della letteratura italiana, II, Torino 1986, pp. 328-331; S. Guarnieri, A. G. Sotto il segno della contraddizione, in Il Ponte, XLIII (1987), pp. 99-112 (interessante anche sul piano biografico); A. G., in Poesia italiana del Novecento, a cura di P. Gelli – G. Lagorio, II, Milano 1989, pp. 580-588; Salerno rima d’eterno: A. Gatto. Immagini, documenti, manoscritti, dipinti, testimonianze (catalogo, con saggi di G. Pampaloni, G.C. Sciolla, G. Duccilli, A. Modena), Salerno 1994; La rosa dei graniti. Saggi e testimonianze su A. G., a cura di G. Tortora, Cava dei Tirreni 1996; P. Perilli, A. G.: un trobadore del Novecento, in Poesia, XII ( 1999), 127, pp. 41-43.
(Scheda curata da Angiolo Bandinelli, “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 52, 1999, www.treccani.it)