Nel 2015 è uscita una nuova edizione di Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, un saggio che all’epoca della prima uscita (1965) fu un colpo al cuore per la cultura progressista di sinistra, di cui erano stroncate con implacabile requisitoria e sotto il marchio di un supposto populismo deleterio le espressioni letterarie, quelle più care alla sinistra “ufficiale” del Pci, quelle orientate a fornire una rappresentazione “positiva” e antiborghese di un mitizzato mondo popolare.
Il libro apparve per i tipi della piccola ed “eversiva” casa editrice romana Samonà e Savelli, laboratorio della nuova sinistra operaista, e in effetti non risparmiava nessuno: nemmeno Gramsci, con la sua categoria del nazional-popolare, e nemmeno Pasolini, aspramente criticato come l’esponente più rappresentativo, ancorché geniale, del populismo letterario, ideologicamente velleitario e sostanzialmente forzato.
Inutile dire le polemiche roventi suscitate da quel saggio, in cui poi si vide una sorta di manifesto preparatorio del ’68. Da allora, poi, è cambiato o, meglio, è crollato tutto: la società letteraria con il suo rovente dibattito interno, il rapporto con la tradizione, la funzione intellettuale dello scrittore-guida, il ruolo della critica. E’ cambiato anche il popolo ed è cambiato anche Asor Rosa, che, nel ripubblicare il suo saggio per l’editore ultraistituzionale Einaudi, vi aggiunge una necessaria appendice aggiornata, intesa a delineare lo stato della letteratura del terzo Millennio. Nel quale, sostituito il popolo con la massa, sparita la classe operaia “rivoluzionaria” nel contesto post-industriale e spazzata via anche la “repubblica delle lettere” con il suo rovello ideologico, lo scrittore resiste ancora, ma in solitudine e in ricerca ansiosa di sponsor, amicizie editoriali e pubblici.
Sulla ristampa del celebre e discusso saggio pubblichiamo una acuta recensione del critico Massimo Raffaeli e una intervista ad Alberto Asor Rosa, entrambe uscite nel 2015. (af)
Scrittori, popolo e massa
di Massimo Raffaeli
www.leparoleelecose.it – 8 giugno 2015
[L’articolo è uscito su “Alias”]
Pochi libri di critica hanno inciso così profondamente nel senso comune come Scrittori e popolo, uscito cinquant’anni fa da una piccola editrice romana, Samonà e Savelli, che allora garantiva una specie di samizdat alla sinistra extraparlamentare. Lo firmava uno studioso ancora giovanissimo, poco più che trentenne, Alberto Asor Rosa, allievo di Natalino Sapegno all’università di Roma, attivo nei “Quaderni Rossi” e compagno di via di Raniero Panzieri. Si trattava di un esordio geniale, sorprendente per la padronanza di una strumentazione in cui la capacità di delineare un quadro storico per ampie campiture e tagli dialettici si integrava ad una microfisica testuale, nel campionario dei testi analizzati, di secca e persino spietata precisione analitica.
Paradossalmente, non si trattava di un libro ideologico ma di un libro critico, nell’accezione etimologica, il cui orizzonte d’attesa era di totale alterità rispetto al quadro convenuto della sinistra istituzionale e della cosiddetta via italiana al socialismo. In effetti, Scrittori e popolo era un libro di critica della “italianità” letteraria analizzata nella lunga durata e con un’ottica che oggi diremmo annalistica circa una nozione, il populismo, declinata a destra quale folclore endogeno o clausura autarchica e dedotta, o meglio diluita, a sinistra nei termini di un generico o irenico progressismo. Questo era infatti l’incipit folgorante di quel libro: “L’uso del termine populismo è legittimo solo quando sia presente nel discorso letterario una valutazione positiva del popolo, sotto il profilo ideologico oppure storico-sociale oppure etico. Perché ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello”.
Diviso in due, la prima parte di Scrittori e popolo tracciava un quadro storico a maglie fittissime di quella nozione capitale, dall’Unità alla Resistenza, dalle riflessioni di Gioberti e Oriani ai Quaderni di Gramsci, cogliendone la vischiosità e l’ambiguità per esempio tra i “fascisti di sinistra” (Vittorini per primo) quasi fosse, il populismo, una incombenza ipotecaria fatalmente ricevuta anche fra i convertiti, nel secondo dopoguerra, al neorealismo e/o al comunismo (e, qui sia detto per inciso, che proprio tale quadro è in realtà la sinopia dell’altro grande contributo di Asor Rosa, cioè il quarto volume, tomo secondo della Storia d’Italia einaudiana, intitolato La cultura che taluni allora presero, nel ’75, per una palinodia); la seconda parte di Scrittori e popolo contiene invece quelle che l’autore definiva “esercitazioni”, analisi in vitro della produzione di Cassola e Pasolini, severissime e tuttavia utili non tanto a un giudizio di valore complessivo, meno che mai a una loro eversione in blocco, quanto alla messa a fuoco di una serie di contraddizioni o di aporie (l’intimismo di Cassola, l’estetismo di Pasolini) da misurare col metro della produzione grande-borghese, Pirandello, Svevo, Montale.
Cinquant’anni e però sembrano molti di più: questo giova al valore del libro (pochi testi della nostra critica, dopo tutto, appaiono meno datati e perciò ancora discutibili, vale a dire saldi nell’impianto e sicuri nelle soluzioni interpretative) ma questo dice d’altra parte che il quadro è mutato irreversibilmente, come adesso attesta la ristampa arricchita da una sua necessaria appendice, Scrittori e popolo 1965-Scrittori e massa 2015 (Einaudi, “Piccola biblioteca”, pp. 430). Asor Rosa nel suo più recente contributo muove dalla consapevolezza che è venuta meno, e nei modi di una disintegrazione, l’esistenza stessa di un “popolo” e con essa delle “élites” che ne interpretavano e insieme convogliavano le dinamiche sociali e politiche, per dar luogo qui e ora a una massa assoggettata e reclusa negli spazi di quella che pure definisce una “democrazia passiva”. Ciò ai suoi occhi comporta una serie di conseguenze capitali, grosso modo a partire dal passaggio di millennio: il tramonto della modernità quale spazio del conflitto (di idee, posizioni, organizzazioni); la rottura del rapporto con una tradizione secolare di testi, valori, orientamenti; l’obsolescenza della critica e della sua funzione primordiale che è quella di mirare sempre ad una alterità nella stessa percezione degli oggetti sottoposti al suo vaglio; infine la presenza ubiquitaria di un’industria culturale che ha saputo trasformare il mercato e i suoi cicli di produzione e consumo in un vero e proprio stato di natura.
Anche in Scrittori e massa non interessa allo studioso individuare ritratti monografici e stilare specifici giudizi di valore ma la messa a fuoco di un comune orizzonte, di costanti tematiche dentro un campionario che associa narratori e poeti nati fra gli anni cinquanta e ottanta del secolo scorso. Quello che colpisce, con evidenza statistica, è non soltanto la loro produttività (sollecitata dai ritmi ormai convulsi della editoria) e la diffusa originalità delle fisionomie testuali (indotta magari dal ri-uso delle fonti tradizionali o dalla contaminazione perpetua con i mezzi di comunicazione di massa), quanto uno stato di isolamento, o peggio, di “atomismo individualistico” che li obbliga a produrre in una specie di trance e nello spazio-tempo di un eterno presente. Il che vuol dire che si chiede loro di produrre delle storie, delle “belle” storie, ma non di riflettere, di prendere la parola, e di continuo, ma non di prendere una posizione circa il vivere in società, in questa società, o sui destini generali come era d’uso viceversa fra gli ultimi grandi maestri (Pasolini, Fortini, Calvino) per cui dirsi scrittori e intellettuali era sinonimo. Asor Rosa non rinvia gli scrittori di oggi alla pratica dell’engagement ma piuttosto individua il tabù più diffuso, per cui la pratica dello storytelling è appunto la compensazione del silenzio tombale riguardo ai meccanismi sociali, al pensiero unico che governa le coscienze, ai grandi poteri che propongono la globalizzazione e i suoi istituti economico-finanziari come il solo e il migliore dei mondi possibili. (Esemplare in tal senso è l’analisi di Gomorra e del caso Saviano nella intersezione, come nella ambiguità, di testimonianza e fiction). E’ probabile Asor Rosa qui trascuri alcuni segnali in controtendenza, quali il ritorno della letteratura di reportage e di docufiction, nonché il redivivo dibattito intorno alla nozione di “realismo”, ma è comunque comprensibile il fatto che colga nella parola dei più atomizzati e isolati rispetto al contesto, i poeti e le donne specialmente, tra opacità sociale e vivida sussultante esperienza del corpo, quei nessi di fertile contraddizione e quelle verità che ai narratori per lo più sono inibite o deliberatamente impedite. Così si conclude Scrittori e massa: “In letteratura, come in qualsiasi altra operazione storica umana, non c’è disvelamento della verità senza conflitto. Solo l’’opposizione’ […] consente il disvelamento delle apparenze e l’emergere dei tratti più nuovi del reale – e del pensiero. […] Se non c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo; e se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione – il mondo resta una veste esteriore che ricopre a stento, sempre, le vecchie apparenze ”. Scrittori e popolo era nato da un’identica persuasione ma oggi è un grido che risuona, abbastanza disperato, nella nostra pace domestica.
Pubblicato nel 1965, Scrittori e popolo ricostruisce i rapporti tra produzione letteraria e immagine del popolo lavoratore. Le questioni che affronta sono tra le più dibattute del dopoguerra: la formazione di una tradizione nazionale moderna, la genesi dello storicismo marxista italiano, il fascismo di sinistra, l’antifascismo militante, Vittorini, Gramsci, Pasolini e gli “ismi” che a loro si collegano. L’ottica di Asor Rosa è fortemente critica, l’intento esplicito quello di demistificare il mito del populismo. Questo spiega il coro di critiche che accolse il libro: era inacettabile che fosse messo in discussione un dogma fondamentale del progressismo benpensante, e che cioè con i buoni sentimenti si fa della buona letteratura, e magari dell’eccellente politica.Considerata tra le opere che hanno anticipato e preparato il ’68, Scrittori e popoloconserva ancor oggi una carica interpretativa e una capacità di ricostruzione storica inconsuete fra i prodotti più recenti della critica contemporanea. Ad accrescerne l’interesse è poi l’introduzione che Asor Rosa ha scritto appositamente per questa nuova edizione, e che si intitola Vent’anni dopo.
Asor Rosa: “Siamo rimasti senza scrittori e senza popolo”
di Simonetta Fiori
www.repubblica.it – 23 maggio 2015
Cinquant’anni fa con Scrittori e popolo fece piangere i mostri sacri della sinistra intellettuale. Oggi con Scrittori e massa, che praticamente ne è un sequel, non fustiga più nessuno. O meglio, non fustiga più nessuno in particolare, forse per mancanza sia degli autori che del popolo. Alberto Asor Rosa ridacchia in un angolo della sua luminosa casa di Borgo Pio, determinato a non accettare provocazioni. «Il popolo non c’è più, sostituito dalla massa. Ma gli scrittori resistono, altrimenti non avrei scritto il nuovo libro».
Certo fa effetto leggere tutto di filato l’opus maximum del 1965, un attacco radicale alle fondamenta gramsciano-storiciste del sistema culturale italiano, e il lavoro successivo dedicato al grande mutamento. In un unico volume (Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Einaudi) è racchiusa la storia culturale di questo paese, incluso il terremoto degli ultimi decenni. Con qualche risultato paradossale, che attiene alla biografia di Asor.
Irriverente, severo, anche un po’ aggressivo con Pasolini e Calvino, Vittorini e Pavese. E rispettoso, attento, misurato con Piccolo, Scurati e Veronesi, per citare tra i più famosi. Professore, che succede?
Una prima spiegazione è anagrafica: al giovane spregiudicato e ribelle è subentrato un vecchio rispettoso del suo prossimo, per un fatto biologico. E poi m’è parso che nei confronti degli scrittori più recenti fosse più opportuno un atteggiamento di comprensione.
Perché?
Sono stati meno fortunati della nostra generazione. A 30, a 40, forse anche a 50 anni, non beneficiano di nessuna delle condizioni positive di cui abbiamo beneficiato noi. Nessuno di loro gode del sostegno di una società letteraria ormai dissolta.
Devono cavarsela da soli.
Può sembrare paradossale, ma nella società di massa ognuno è costretto a cercare da sé. E nell’assenza di aggregati culturali si riempie il vuoto con una rete di relazioni private. Pensi a quel nuovo genere letterario che è il ringraziamento. Alla fine di ogni romanzo compaiono tabulae gratulatorie di impressionante ampiezza: compagni di vita, editor, amicizie varie. Ma quando mai Moravia o Calvino hanno ritenuto di dover ringraziare qualcuno?
E in questa nuova rete l’editor diventa signore assoluto.
Il rapporto tra autore e redazioni editoriali s’è fatto sempre più stretto e il compito di entrambi mi sembra sia quello di costruire trame che piacciano al pubblico. Naturalmente il rapporto con il mercato non è sempre così meccanico. Però mi convince l’analisi di Emanuele Trevi: la letteratura ha smesso di pensare. E l’unico compito che lo scrittore si assegna è lo story teller.
Oggi la parola narrazione ha assunto una centralità ossessiva.
Anche nella politica. E la narrazione deve soddisfare determinati criteri, che sono nel segno della normalizzazione.
È interessante la sua analisi: l’elemento che caratterizza la generazione di scrittori nati dal 1960 in poi è la rottura con la tradizione. La ignorano, non la conoscono.
Hanno scavato un fossato rispetto alle generazioni precedenti. Fino a qualche tempo fa gli scrittori spendevano parte della ricerca nel confrontarsi con chi era venuto prima. Pasolini, Fortini e Calvino – gli ultimi tre classici – radicano la loro novità su una riflessione intorno al passato. Poi c’è stata la generazione degli eredi, ancora immersi nel clima culturale precedente: Cerami e Tabucchi, Starnone e Busi, Tondelli e Mari, per citarne alcuni. Infine la grande massa di autori degli ultimi decenni: tranne poche eccezioni come Mazzucco, pensano “il nuovo” come sciolto da qualsiasi debito con il passato.
Con quali conseguenze?
Lingua e stile nascono dal ripensamento di una lingua e di uno stile di qualcuno che c’era prima. Se non c’è conoscenza, non può esserci conflitto. E se non c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo. E se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione. L’unico frammento di tradizione che ogni tanto emerge è quella pasoliniana, ad esempio nel Saviano della testimonianza etico-politica: io so. Ma il Calvino delle Lezioni americane, che erano un grande lascito per gli scrittori del nuovo millennio, è scomparso.
Questo cosa comporta?
Negli scrittori più giovani la riflessione razionale su ciò che significa scrivere e su come si scrive si è molto indebolita. Il messaggio calviniano che mescola fantasia e razionalità è inapplicabile. E insieme a Calvino – cosa ancor più grave – esce di scena la tradizione occidentale in cui questi elementi si sono mescolati in modo profondo. È difficile ravvisare nei romanzi degli ultimi vent’anni l’impronta di Baudelaire o di Kakfa o di Mann. Gli ormeggi si sono totalmente liberati.
Lei lamenta la mancanza di follia. A cosa si riferisce?
La follia è quella che trovi in Pirandello o Svevo, la derogazione dalle regole. Oggi non ce n’è uno che deroghi dalle regole. E tra l’assenza di follia e l’assenza di tragedia il nesso è stretto. Per usare una terminologia infantile, è raro imbattersi in romanzi che finiscano male. Un’eccezione è nel primo Giordano. Anche Ammaniti che pure ci presenta storie drammatiche non ce le fa mai leggere come tragedia, preferendo la commedia. Un po’ di follia era in Scrittori e popolo , che prendeva a schiaffi il meglio della cultura progressista. Direi meglio, incredibile sfrontatezza.
Cosa aveva in testa? Far saltare il sistema culturale della sinistra?
Noi pensavamo che si potesse realizzare il progetto politico operaista. E per fare questo occorreva sgombrare il campo dal principale ostacolo al rinnovamento che era lo storicismo: una linea culturale – Croce-De Sanctis- Gramsci – condivisa non solo dal Pci ma da tutta l’intellettualità italiana del tempo.
Accusava Pasolini e Vittorini, anche un po’ il Calvino de Il sentiero dei nidi di ragno, di essere subalterni alla tradizione che impediva di creare cose nuove. Agli scrittori di oggi rimprovera il contrario, di non conoscerla per niente la tradizione. Si ricorda il vecchio detto? Rivoluzionari a vent’anni, conservatori a ottanta.
Non c’è dubbio. Ma la differenza di atteggiamento dipende anche dal diverso clima culturale. All’epoca le spinte al rinnovamento erano formidabili. Mentre scrivevo quel libro andavo a fare volantinaggio davanti ai cancelli delle fabbriche e non sentivo alcuna separazione tra la mia vita da letterato e la milizia politica. Oggi dove ti attacchi? Questo però non bisogna dirlo: un vecchio professore non deve essere né fustigatore né tragicamente pessimista.
Gliela fecero pagare, all’epoca?
Si arrabbiarono molto. Sull’ “Unità” uscì un veemente attacco di Carlo Salinari dall’espressivo titolo: Un piccolo borghese sul piedistallo . Mentre un giorno sorpresi Sapegno che ridacchiava con il mio libro in mano: «Queste cose le ho sempre pensate».
Pasolini non la perdonò.
Incontrandomi all’Università, mi guardò con gli occhi a mirino: Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita.
Si è annoiato molto a leggere i giovani contemporanei?
No, affatto. Non ho mai smesso di farlo pur continuando a studiare Dante e Boccaccio. Scrivono un po’ troppo, questo sì. Credo che dipenda dalle potenzialità del computer. Potrei chiedere un provvedimento di legge perché si torni all’uso della penna.