«Livorno è la città d’Italia dove, dopo Roma e Ferrara, mi piacerebbe più vivere. Lascio ogni volta il cuore sul suo enorme lungomare, pieno di ragazzi e marinai, liberi e felici. Si ha poco l’impressione di essere in Italia. Intorno, nelle fabbriche dei cantieri verso il Nord. Ferve un lavoro che non ha un’aria familiare, e per questo è tanto più amica, rassicurante. Livorno è una città di gente dura, poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante. I ragazzi e le giovinette stanno sempre insieme. Il problema del sesso non c’è, ma solo una gran voglia di far l’amore. Le facce, intorno, sono modeste e allegre, birbanti e oneste. Pei grandi lungomari disordinati, grandiosi, c’è sempre un’aria di festa, come nel meridione: ma è una festa piena di rispetto per la festa degli altri» [P.P.Pasolini, La lunga strada di sabbia, con foto di Philippe Séclier, Contrasto, Roma 2005, p. 35].
Ecco Livorno, come parve a Pasolini nel giugno 1959, durante una sosta del viaggio in Fiat 1100 in cui raccoglieva impressioni per il reportage La lunga strada di sabbia che gli era stato commissionato dalla rivista “Successo”. In primo piano appare una città libera, allegra, operosa, intelligente, certo diversa dalla Livorno pericolosa da cui, con una fuga rocambolesca, il Pasolini giovane soldato di 21 anni riuscì a scappare dopo l’8 settembre 1943, evitando la cattura e la prigionia in Germania. Da quell’episodio il suo destino virò con una piega del tutto diversa: perse la tesi di laurea, già abbozzata, in Storia dell’arte; si mise in salvo in Friuli, a Casarsa, raggiunta con mezzi di fortuna; scelse in modo definitivo la via della poesia.
In quella data fatidica, che avrebbe aperto la seconda fase di una guerra ancora più cruenta, furono tanti i giovani soldati a mettersi in salvo dai nazisti come meglio potevano. Così fu anche per il livornese Carlo Azeglio Ciampi, futuro Presidente della repubblica e allora giovane e brillante studente sotto le armi. La sua recente scomparsa ha spinto Mauro Zucchelli a ripescare dall’oblio quel drammatico 8 settembre ’43 vissuto a Livorno: un fuggi-fuggi generale in cui Ciampi, come Pasolini e altri ragazzi, incrociarono con singolare coincidenza le loro strade, magari, chissà, sfiorandosi senza potersi conoscersi. (af)
L’8 settembre ’43 a Livorno Ciampi con Pasolini, Diaz e Toaff
di Mauro Zucchelli
http://iltirreno.gelocal.it -17 settembre 2016
Magari quel giorno si saranno visti di sfuggita in mezzo agli accademisti alla Terrazza o forse alla Rotonda, eppure questa singolare storia – un castello di destini incrociati che avrebbe fatto felice non solo Calvino – non avrebbero saputo raccontarvela neanche i diretti interessati. Anche perché Carlo Azeglio Ciampi, classe 1920, era solo un brillante laureato di filologia classica alla Normale nel segno di due prof. antifascisti come il grecista Augusto Mancini e il filosofo Guido Calogero. E Pier Paolo Pasolini, di due anni più giovane, anche se aveva già pubblicato poesie in friulano che avevano fatto drizzare le antenne di uno studioso del rango di Gianfranco Contini, era sì una star delle belle lettere ma fino ad allora soprattutto come attaccante della squadra dell’università di Bologna.
Quel giorno è l’8 settembre ’43: è una data che non troverete scritta in rosso nelle biografie di Ciampi. Eppure è in quel momento che il giovane Carlo Azeglio oltrepassa la sua “linea d’ombra” e fa la sua scelta di campo in un’età (personale) e in un momento storico (collettivo) che richiama l’ora delle decisioni irrevocabili. Già, perché l’8 settembre lascia il segno della pelle della storia d’Italia con tutta la sua ambiguità: è la fine dell’alleanza con i nazisti ma non è la fine della guerra; è la capitolazione definitiva del regime fascista ma la fuga dei Savoia al sud sbriciola lo Stato e lascia il Paese in balìa di sé stesso. Per dirla con una capriola di parole: è il giorno in cui gli italiani sentono la pace così vicina e invece l’armistizio spalanca le porte a una guerra che diventa ancora più guerra.
Carlo Azeglio Ciampi, poco più che un ragazzo, salva la pelle dal rischio di finire in prigionia: la sfanga perché non è là dove ci si immaginava che fosse. È militare in Albania, 104° Autogruppo pesante: nient’altro che aiutante ma, a dispetto del grado cucito sulla divisa, è di fatto il braccio destro del comandante. Nel giorno in cui il re sparisce insieme allo Stato, Ciampi non lo trovate di là dall’Adriatico nel suo reparto. No, è qui in licenza: arriva a Castiglioncello, dov’è la sua famiglia (e da dove, a guerra finita, con la città da ricostruire e la casa sghimbescia, farà l’andirivieni in bici col fratello per aprire il negozio di famiglia).
Quando da ufficiale ligio alla disciplina delle “stellette” e al senso del dovere si presenta al reparto militare più vicino per mettersi a disposizione, trova un capitano che potrebbe essere Alberto Sordi di Tutti a casa: sta infagottando quel che può negli scatoloni per sparire anche lui come sta sparendo lo Stato.
Si potrebbe strologare chissà quanto sulla Caporetto dello Stato e sul naufragio dell’etica della responsabilità per una generazione appena più che ventenne, costretta a azzeccare la decisione giusta dentro l’uragano della storia: l’unica bussola certa è il sussulto etico-politico contro la Repubblica sociale italiana, la ripulsa che gli deriva tanto dagli insegnamenti dei maestri quanto dall’esperienza multireligiosa della “sua” Livorno. Fatto sta che Ciampi si salva perché, di nuovo, non è là dove gli accidenti delle vicende umane avrebbero dovuto portarlo: né fra i partigiani alla “macchia” alle spalle della costa livornese né dallo zio antifascista in una Roma che presto le Ss metteranno a ferro e fuoco.
Prima ancora di incamminarsi da Scanno per una maratona in mezzo alla neve della Maiella, inizia da Castiglioncello – dove nell’agosto successivo arriverà sir Winston Churchill insieme al generale Clark per un summit alleato all’hotel Miramare – il trekking del giovane Ciampi che sembra non solo il tentativo di un gruppo di antifascisti di ricongiungersi con i reparti militari anti-nazisti ma anche la parabola-cammino di una generazione a ritroso nello spazio e nel tempo per rifondare la propria ragion d’essere.
A Castiglioncello lascia il suo amico Furio Diaz, quattro anni più di lui, che invece prenderà la strada dei gruppi partigiani locali. Con Nicola “Marco” Badaloni, che invece aveva quattro anni meno di Ciampi, l’amicizia sboccerà più tardi: a guerra finita, entrambi in cattedra come giovani prof.
Era la “meglio gioventù” di casa nostra: e Diaz a ventott’anni si ritroverà nel luglio ’44 sindaco comunista del più importante porto della logistica militare Usa, lui che diventerà uno dei massimi specialisti dell’Illuminismo e entrerà in rotta con il Pci dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria.
Curioso che, a testimonianza del vorticare convulso di quei giorni, compaia prima dell’8 settembre sulla stampa locale – ma sotto la testata “Cronache dal Tirreno” – un editoriale di Furio Diaz. Il giornale lo firma Giovanni Engely, perché Giovanni Ansaldo, l’ex antifascista conservatore poi diventato un big fra i grandi giornalisti del regime, aveva lasciato la direzione del “Telegrafo” dei Ciano per farsi richiamare come tenente colonnello in Dalmazia: lo faranno prigioniero prima i tedeschi che lo porteranno in un campo di concentramento polacco, poi a fine guerra la polizia antifascista di Parri.
Ma nei primi del settembre ’43 è a Livorno anche un giovane studente friulano: si chiama Pier Paolo Pasolini, è figlio di un ufficiale di fanteria spedito alla guerra d’Africa, l’hanno richiamato alle armi a Pisa, ma sembra che P.P.P. – come lo ribattezzeranno – puntasse su Livorno per farsi arruolare in Marina all’Accademia navale. Sta di fatto che, come racconta lui stesso in una lettera all’amico Luciano Serra, è qui che sfugge ai tedeschi, mentre la fila delle reclute viene avviata a un treno che deporterà tutti in Germania. In mezzo al caos agguanta un fucile e si getta in «un canale fra Pisa e Livorno»: è stata una fuga «romanzesca», dice all’amico. Ma perde anche la tesi di laurea: relatore un prof. di grande nome come Roberto Longhi, pronti i primi tre capitoli su Carrà, De Chirico e De Pisis. Inutile dire che il giovane Pier Paolo s’immagina storico dell’arte. Non sarà così, e Pasolini busserà poi al prof. Calcaterra per una tesi su Pascoli. Lasciamo uno storico dell’arte per trovare un poeta, ma quel tuffo nel mondo anticonvenzionale di Longhi non sarà inutile: la cultura visiva la ritroveremo nel Pasolini cineasta.
Però Livorno in quei giorni non è solo l’incrociarsi di destini tra un futuro economista che ha le radici nelle lettere classiche e un futuro intellettuale-profeta che dedicherà l’incompiuta opera-testamento ai guai economici dei potentissimi boiardi di Stato. Ad esempio, Galeazzo Ciano aveva telefonato alla moglie Edda, figlia del duce, dopo la notte del Gran consiglio che aveva portato alla caduta del fascismo: prima ancora che arrivasse la macchina inviata da Galeazzo, nel giro di poche ore i familiari di Ciano lasciano la casa di Livorno e scappano verso Roma cercando di mettersi nelle mani dei tedeschi perché all’interno della nomenklatura di regime l’aria per i Ciano si va facendo irrespirabile. Figurarsi che avevano cominciato a spuntare articoloni sull’arricchimento all’ombra di Mussolini.
In fuga i Ciano ma in fuga erano anche i Toaff. La famiglia-simbolo dell’ebraismo aveva già lasciato Livorno stremata dai bombardamenti: via prima nelle campagne di Orciano nella tenuta del professor Raccah fuggito in Palestina e poi a Pisa, nella casa dei Pardo Roques, famiglia sefardita con profonde radici e interessi economici a Livorno, il cui capostipite Abramo Giuseppe verrà assassinato, schiacciandogli la testa con gli stivali, da un gruppo di Ss in combutta con una spia italiana per razziarne i beni.
In fuga, quand’era niente più che un bambino, anche un altro Ciampi – Piero lo chansonnier – la cui famiglia aveva casa in via Pellettier, chissà come mai proprio vicino all’angolo con l’allora via dei Disperati: proprio la zona dove il 28 maggio precedente aveva infuriato il più feroce dei bombardamenti. D’altronde, non è forse vero che una relazione del prefetto prima della fine della guerra aveva segnalato che quasi tre quarti dei livornesi erano fuggiti altrove?
Resta il fatto che quell’incredibile giorno del settembre ’43 le “porte girevoli” dell’esistenza di ciascuno disegnano qui a Livorno un crocevia di eventi singolari: e non solo, come abbiamo visto per il giovane Carlo Azeglio Ciampi o i quasi coetanei Pier Paolo Pasolini, Elio Toaff, Galeazzo Ciano, Edda Mussolini, Furio Diaz e Nicola Badaloni.
All’annuncio dell’armistizio, – lo ricorda Gabriele Coscione nel prezioso libro dedicato a quel mercoledì da leoni – sognando la fine della guerra in una città martoriata dall’incubo di oltre cento bombardamenti aerei, non erano mancate le scene di gioia: anche dei soldati tedeschi che evidentemente non ne potevano più neanche loro. Talvolta anche livornesi e tedeschi insieme.
È un limbo che dura qualche ora. Finché proprio davanti a Castiglioncello di Ciampi in fuga, come segnala la ricerca di Gabriele Milani, la Marina nazista attacca l’incrociatore Foscari e il piroscafo Valverde nel primo atto di guerra in mare. E a terra le truppe tedesche occupano con un blitz il Cantiere Orlando, mentre alla Rotonda la 619° batteria antiaerea gira i cannoni contro i carriarmati tedeschi e a Stagno il quarto gruppo 100/17 del reggimento artiglieria Superga agli ordini del maggiore Gamerra si scontra con un reparto della Wehrmacht. Ma siamo già all’indomani, e questa è un’altra storia…