Pasolini,  la Russia e la traduzione russa della “Nuova gioventù”, di  Angela Felice

Sul numero 48, marzo 2017, di “Diari di Cineclub”, periodico mensile online di cultura e informazione cinematografica, diretto da Angelo Tantaro, è uscito un lungo articolo sull’altalenante fortuna di Pasolini in Russia, durante il regime sovietico e fino ad anni più vicini a noi.  Ne è autrice Angela Felice, che ha preso spunto per questa panoramica dalla recente traduzione delle liriche friulane della Nuova gioventù curata nel 2016 dal poeta e intellettuale moscovita Kirill Medvedev. Quest’ultima operazione pare collocarsi al culmine dell’attenzione, intensa e mai realmente interrotta, che l’intellighentia  russa ha sempre riservato allo scrittore italiano, anche quando il nome di Pasolini era avversato dal regime per sospetto antisovietismo  e per deviata deriva borghese. Ora, come dimostra la scelta del poeta Medvedev,  il complesso della sua opera, letteraria, poetica e cinematografica, spicca come esempio di uno spirito non conforme e di un’alterità indipendente e non etichettabile. 

Pasolini in Russia.
Appunti a margine della traduzione di Kirill Medvedev  della Nuova gioventù di Pasolini
di Angela Felice

www.cineclubromafedic.it – n. 48, marzo 2017

Nel 2016, grazie alla traduzione del poeta moscovita Kirill Medvedev per i tipi della Free Marxism Press, di cui lo stesso Medvedev è titolare, è uscita la versione russa delle liriche friulane raccolte nel 1975 da Pasolini nel volume La nuova gioventù. Anche a non tener conto delle tante tradizioni in altre lingue di cui oggi l’opera pasoliniana è sempre più fatta oggetto, l’operazione spicca per la sua eccezionalità. La comprovano tanto l’immaginabile difficoltà della restituzione di quei versi in una lingua, quella russa, che ignora il mosaico e lo scarto delle parlate dialettali, quanto la scelta stessa di un libro, a suo modo consuntivo, a cui Pasolini consegnò un finale disincanto, calato non per nulla in un friulano lavorato a freddo, «calpestato», scrisse Zanzotto, e quasi abiurato rispetto alle accensioni liriche degli esordi giovanili.
A prima vista, la scommessa di Medvedev potrebbe apparire un esercizio, ambizioso e insieme raffinato, da laboratorio linguistico, stimolato dalla stessa audacia della sfida. Ma in realtà non è questo sforzo, o non solo esso, a gettare le basi dell’agone tra la lingua russa e il testo di Pasolini, di cui in passato, e sempre per la sua casa editrice, Medvedev aveva già tradotto parti dell’opera saggistica. Si tratta allora della continuazione del dialogo con un autore sentito congeniale per ragioni che esulano dal puro dato formale e pertengono più propriamente al territorio dell’adesione ideologica o, meglio, post-ideologica, proiettata sul fondale controverso della Russia di Putin.
Occorre a questo punto fare dei passi a ritroso, quantomeno tre, per cogliere la densa complessità di implicazioni in questo traghetto pasoliniano da una lingua a un’altra, sottratto al mero fenomeno della “curiosità” editoriale come anche all’anomalia della fatica solitaria. E innanzitutto può tornare utile il paradigma adottato da Vladimir Paperny, storico dell’architettura, per descrivere il nocciolo della vita culturale sotto il regime sovietico, secondo un andamento di corsi e ricorsi che si può applicare senza forzature anche al periodo successivo al crollo dell’Urss. In un suo saggio del 1985, Architecture in the Age of Stalin secondo l’edizione inglese del 2002, egli fissò infatti nella ricorrenza di un ritmo perennemente binario la travagliata vicenda della cultura sovietica, quasi una fisarmonica della storia mossa perennemente tra mobilitazione della speranza e arretramento, tra un’epocale sensibilità al processo rivoluzionario, avviato dapprima dall’Ottobre bolscevico con le sue potenzialità emancipatrici, e le successive e traumatiche repressioni totalitarie. In una simile cornice a corrente alternata anche la cultura fu sollecitata a fare la sua parte e, nel dibattito tutto novecentesco sul rapporto dell’arte con la politica, a interrogarsi sulla funzione, le responsabilità e gli atteggiamenti cui l’estetica, di volta in volta, è interpellata dal dinamismo sociale. Di due culture parlò dunque Paperny, intendendo il movimento sistole-diastole  che, in Urss, ha visto alternarsi, da un lato, una pratica estetica spesso fermentante dal basso, progressista e tesa alla ricerca di forme nuove e, dall’altro, una seconda normata dall’alto, ripiegata nel conservatorismo e stagnante.
Ecco dunque il primo passo a ritroso, utile a tracciare la panoramica di questa bipolarità. Nei primi anni Venti esplode il vitalismo  della libertà estetica d’avanguardia, che in varie forme sperimentali fiancheggia il progetto politico del nuovo processo egualitario senza diventarne il diretto megafono propagandistico. Ma l’euforia si smorza ben presto e già intorno agli anni Trenta cede all’avanzare del controllo di Stato, con l’imposizione di una sola cultura ufficiale proletaria e organica, orientata dalla burocrazia al canone legittimato del Realismo socialista. In quel rovesciamento ogni autonomia estetica finisce così per essere sospettata di deviazionismo borghese, censurata  e spesso messa a tacere, anche brutalmente.
Ma poi di nuovo, con il “disgelo” avviato nel 1956, riaffiora il valore della libera competizione artistica e della sperimentazione formale. È richiamata la creatività estetica delle passate esperienze d’avanguardia, specie futuriste, e riprende slancio la fiducia nella possibilità dell’arte di incidere nella riforma politica della società post-staliniana. Appaiono libri e autori prima banditi, come nel caso di Vladimir Lugovskoi e Leonid Martynov, e soprattutto si fa avanti una nuova generazioni di poeti – tra essi, Evgenij Evtushenko-, animati dalla speranza che la libertà estetica possa di nuovo essere accreditata come necessario fattore politico.

Evgenij Evtushenko
Evgenij Evtushenko

Anche questo entusiasmo generale ha però il fiato corto e mostra la corda già nei primi anni Sessanta, toccando il suo acme di disillusione dapprima nel 1963, con la denuncia di Brodsky, futuro Nobel nel 1987, per pornografia e antisovietismo, e poi soprattutto nel 1966, anno evidente di non ritorno in cui furono processati Andrei Siniavskij e Yuli Daniel, rei di sospetto antisovietico per la pubblicazione all’estero delle loro opere. Fino all’era Breznev cala dunque sul cielo sovietico una cappa di plumbea restaurazione, immiserita anche dal grigiore burocratico, a cui gli scrittori reagiscono con varie forme di assestamento: da un lato, sul piano dell’ufficialità, con soluzioni di compromesso ideologico nel caso dei poeti civili degli anni Sessanta, ora inclini all’autocensura e a modalità evasive; dall’altro, con forme sotterranee di dissenso liberale e antisovietico, sorretto da un’idea di arte autonoma e deideologizzata. Sono, questi ultimi, i poeti cosiddetti “non censurati” che poi, in forme ancora più vistose di depoliticizzazione, avrebbero trovato dei continuatori nella generazione dei giovani scrittori attivi durante la Perestroika e negli anni Novanta post-sovietici. L’arte cessa così di essere al centro delle preoccupazioni dirigistiche delle autorità e perde di influenza sociale, mentre si fa largo nei poeti – Stanislav L’vovskij e Dmitri Kuzmin, su tutti- la concezione del carattere privato del comportamento letterario, refrattario a ogni “mandato” civile e praticato nel solo culto soggettivo della ricerca formale.
La Russia di Putin però spariglia di nuovo le carte e già a metà degli anni Duemila, in parallelo con la deriva autoritaria di un regime a vocazione sempre più repressiva e a smentita delle iniziali aspettative liberali, riemergono le nicchie della cultura di opposizione, che rinverdisce il principio dell’impegno  e la compromissione dell’arte con la vita politica e sociale.  In assenza di un collante estetico comune, a parte il rigetto del soggettivismo, o anche nell’incertezza di una definizione condivisa sul ruolo degli intellettuali nella nuova congiuntura politica, si apre allora la strada a un sostanziale divergere di posizioni alternative, nessuna delle quali dominante sulle altre. Per alcuni, come il poeta Prokhanov, l’occasione pare favorire il risveglio perfino dell’estetica di propaganda filosovietica; per altri, Limonov su tutti, l’espressione maledetta di un dissenso radicale, in un ambiguo miscuglio di irrazionalismo, stalinismo e anarchia; per altri ancora, specie della generazione più giovane, la manifestazione del malessere e dell’alienazione  intellettuale, in cui fondere il personale e il politico e reideologizzare l’arte in chiave problematica e non organica.
È nel quadro di questo ripensamento sul valore critico dell’estetica non allineata che si motiva il rinnovato interesse per la figura di Pasolini, ora riletto come modello positivo di artista autonomo rispetto ad ogni condizionamento. II caso della fortuna russa di Pasolini –serve qui un secondo, piccolo passo all’indietro- è peraltro esemplare degli altalenanti travagli della vicenda sovietica e post-sovietica, fin quasi a esserne una sintomatica cartina di tornasole. Se è vero infatti che negli ambienti intellettuali non venne mai meno l’attenzione a questo autore, tradotto fin dal 1962, è anche vero che nella cultura ufficiale sovietica egli conosce tutta la sindrome dell’altare e della polvere. Esaltato fino agli anni Sessanta, quando pare un affidabile compagno di strada marxista, Pasolini precipita nel discredito della “degenerata” arte borghese soprattutto a partire dal 1966, quando egli prese posizione sul caso Siniavskij-Daniel, e da allora è fatto oggetto di pesanti attacchi o, peggio, di un tombale silenzio, come avviene perfino nel caso del suo assassinio, semplicemente ignorato.

Il libro con le poesie friulane di Pasolini, tradotte da Kirill Medvedev. Copertina
Il libro con le poesie friulane di Pasolini, tradotte da Kirill Medvedev. Copertina

Toccherà attendere la Perestrojka e il primo tempo ancora morbido dell’era Putin perché lo scrittore torni alla ribalta come oggetto affascinante di studio, non meno che, sotto traccia, di possibili strumentalizzazioni post-sovietiche per la sua posizione eterodossa rispetto all’ortodossia del Partito comunista, soprattutto italiano. Ed ecco che  nel revival pasoliniano ha certamente un posto di rilievo il poeta-traduttore Medvedev al quale ora torniamo, facendo anche per lui un terzo e ultimo passo indietro. Non è ininfluente infatti ricostruire le premesse biografiche e intellettuali di questo artista di ultima generazione, nato in quel 1975 in cui Pasolini perse la vita. Il suo è anzi il caso probabilmente più sintomatico per i nuovi compiti cui la poesia civile, per lui di dichiarato orientamento marxista,  è chiamata nella capitolazione intellettuale del contesto putiniano. Proveniente da una famiglia colta dell’intelligentija liberale-democratica, poi caduta in disgrazia dopo il tracollo dell’Urss, Medvedev licenzia a poco più di vent’anni due raccolte di poesie corredate da saggi, It’s no good (2000) e Incursion (2002), che sono bene accolte dalla critica e si pongono in evidenza  per la particolarità di una testualità anticonvenzionale dall’andamento più narrativo e saggistico che lirico. Vi è adottato innanzitutto il  verso libero, estraneo al ritmo tradizionale del lirismo russo, e soprattutto, a contrasto con ogni sentore modernista, vi sono espressi i dettagli realistici di una verificabile cronaca quotidiana e esperienziale, frammenti, come amuleti montaliani, di più vasti significati la cui decifrazione è consegnata alla co-creazione del lettore. Soluzioni, queste, in cui poté incidere l’influenza di Charles Bukowski, maestro borderline di licenza formale su cui Medvedev fece non per nulla le sue prime prove di traduttore.
Medvedev pare siglare così le intenzioni del suo impegno intorno al dubbio più che alla certezza ideologica e soprattutto affidare il carattere civile della sua parola non alla protesta apertamente sociale e politica, ma alla tensione interpretativa della realtà, compresa quella della sua esperienza personale. In nuce vi è già la volontà di riflettere sulla condizione attuale dell’intellettuale e sui reali margini di autonomia e influenza nella società putiniana, avviata ormai al capitalismo illiberale e abile a fagocitare nel mainstream del mercato culturale anche le punte più provocatorie. Da lì, per Medvedev, la scelta nel 2006 di abbandonare la scrittura letteraria, sconfessandola in virtù della coscienza della sua impotenza sociale, e di incanalare l’impegno in altre forme, come, ad esempio, con la  rinuncia al copyright sui propri testi, pubblicabili in edizioni pirata senza il consenso dell’autore o stampati nella casa editrice indipendente Free Marxism Press, fondata nel 2007. Da lì, anche, il passaggio alla ribellione dell’azione diretta, si direbbe post-futurista se non fosse piuttosto un’eco del pasoliniano “gettare il proprio corpo nella lotta” capace di far deflagare le contraddizioni dell’intellettuale contemporaneo. È celebre l’episodio –ma ve ne sarebbero tanti altri- in cui Medvedev manifestò da solo all’esterno di un teatro di Mosca, il cui direttore in sentore di putinismo ospitava nel contempo un’opera di Brecht. E, oltre alla pratica dei reading, sono note anche le incursioni folk-rock della band musicale fondata nel 2011 “Arcady Kots” (il nome deriva dal traduttore russo dell’Internazionale), di cui Medevedev è vocalist e strumentista. Azioni tutte, cui di recente si è intrecciato un intermittente ritorno alla prassi poetica, disseminata in rete per riusi e plagi degni dell’epoca benjaminiana della riproducibilità tecnica. Queste strategie di oltranza pragmatica si lasciano leggere non come repliche anacronistiche delle avanguardie storiche o degli agit-prop funzionali alla causa proletaria, ma piuttosto come gesti paradossali di performance poetica, attivata negli interstizi non presidiati da uno Stato che ha eletto a suo slogan il motivo della Stabilità.

Kirill Medvedev
Kirill Medvedev

Si può capire dunque su quali reticoli di affinità poggi per Medvedev il rapporto con il modello della testimonianza di Pasolini. Il giovane “erede” russo ne condivide e reinterpreta l’agonismo pragmatico, non meno che il coraggio della contraddizione e dell’abiura, il corpo a corpo radicale con il Potere e le sue Chiese, la coscienza della crisi del marxismo e insieme la resistenza del pensiero critico non conforme.
Analogamente, sul piano letterario, ne assume a suo modo la poetica del pastiche impoetico, mescolando versi e autoriflessioni, lirismi e interventi critici,  schegge narrative e sperimentazioni linguistiche, una poetica che, nel libro a strati della Nuova gioventù pasoliniana, trova una peculiare esemplificazione, rafforzata anche dal gioco di specchi tra il friulano idilliaco degli esordi e quello umiliato della fine.
Per Medvedev, Pasolini è dunque emblema di indipendenza intellettuale mai negoziabile e maestro di paradossi spiazzanti, come nel caso della poesia Il PCI ai giovani!!  che, con la sua imbarazzante difesa dei poliziotti figli di poveri, fu ferocemente stigmatizzata nel 1968 anche nella Russia sovietica, mentre per il giovane scrittore russo è solo la messa in atto di uno sguardo fertilmente ironico e depistante.
Fatti i conti con le tante occasioni storiche perdute nel suo paese e nella coscienza delle ambiguità o delle difficoltà del discorso artistico contemporaneo, Medvedev teorizza e mette in atto forme rinnovate di alterità non ideologizzata, cercando varchi in cui la protesta, la libertà o anche l’utopia siano ancora praticabili. In questo senso, aldilà del contesto moscovita in cui è fortemente  radicato, egli pare un’incarnazione ideale dell’intellettuale marxista nella post-modernità. E sulla sua strada, allora, non può essergli compagno più fraterno dell’ultimo Pasolini, disincantato ma non arreso anche tra le braci spente del friulano, un tempo incantato, della sua gioventù.