In ricordo di Angela Felice

Sono già passati due anni da quando Angela Felice ci ha lasciato. Ci mancano i suoi abbracci e il suo sorriso, la sua vivacità intellettuale e la generosità, la sua passione per il teatro e la letteratura. Il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di cui è stata direttrice per diversi anni la ricorda con affetto assieme ai tanti amici dedicandole una poesia che amava particolarmente.

SUSPIR DI ME MARI TA NA ROSA

Ti ciati tal ninsòul
blanc, rosa blancia,
fànghi il jet a me fì
ti ciati tal ninsòul.

Rosuta di me fì,
dulà ti àia ciolta,
parsè ti àia ciolta,
la man di me fì?

I ti tas tu, salvàdia,
coma lui che a sta ora
cui sa dulà ch’al è
cu la so pas salvàdia!

Coma tal grin dal sèil
ti tas tal so ninsòul
e chel me zòvin còur
al tas sòul sot il sèil.

Dutis dos dismintiadis,
la mari e la rosa!
Zint cui sa dulà
al ni à dismintiadis.

SOSPIRO DI MIA MADRE SU UNA ROSA.
Ti trovo sul lenzuolo / bianco, rosa bianca, / facendo il letto a mio figlio, / ti trovo sul lenzuolo.
Rosellina di mio figlio, / dove ti ha raccolta, / perché ti ha raccolta, / la mano di mio figlio?
Taci tu, scontrosa, / come lui, che a quest’ora / chissà dov’è, / con la sua pace scontrosa.
Come nel grembo del cielo / taci nel suo lenzuolo / e quel mio giovane cuore / tace solo sotto il cielo.
Tutte due dimenticate, / la madre e la rosa! / Andando chissà dove / ci ha dimenticate.

[Pier Paolo Pasolini, da “Tal còur di un frut” (1953)]


Sono tante le persone e gli amici del Centro Studi Pasolini che in questi giorni ci hanno trasmesso un loro saluto, un ricordo affettuoso di Angela Felice. Pubblichiamo quello inviatoci dallo scrittore Dario Pontuale autore del libro La Roma di Pasolini – Dizionario urbano che poche settimane prima – il 24 marzo 2018 – avevamo presentato con successo al Centro Studi.

Foto di Angelo Novi dal film “Mamma Roma” (1963)

Mi telefonò un giorno con il suo accento schietto e la voce baldanzosa. Non la conoscevo, eppure mi invitò a Casarsa come uno di famiglia. Era metà dicembre, faceva freddo a Roma, figuriamoci in Friuli, pensai. Accettai con piacere, mi salutò con la promessa di venirmi a prendere alla stazione e che non dovevo preoccuparmi di null’altro. Quando giunsi al binario, poche settimane dopo, lei era lì ad attendermi. Fuori nel parcheggio quella macchina dai tempi andati, figlia di ricordi vividi, simbolo e orgoglio nonostante i freni stridenti. Non mi strinse la mano, mi abbracciò, a me perfetto sconosciuto. Un abbraccio stretto, come si fa con le persone care, come chi conosci da anni.

Ci fermammo davanti al Centro Studi, con lo sguardo fiero e dritto mi accompagnò dentro stanze che per me erano solo spazi letti sui libri, luoghi divenuti cari a furia di sentirli citare. Un luogo dell’anima per chi tenevo nell’anima. Lei, invece, passeggiava dentro un universo famigliare, con quel suo piglio pragmatico che mai dimenticava la tenerezza, la gioia di sorridere. Mi presentò, mi descrisse con tale attenzione da farmi apparire uno importante: “il critico venuto da Roma” ripeteva a tutti. A sera, dopo una robusta cena, mi disse: “Domani ti vengo a prendere e ti porto sui luoghi Pasoliniani”. Non avevo chiesto nulla, ma conosceva già i miei desideri.

Mantenne la promessa, a metà mattina cominciammo i sopralluoghi. Tra una sosta e un’altra, dopo curve e un incrocio mi raccontò di lei, della sua vita, delle sue idee. Tacevo, rapito dai posti tanto quanto dalla sua passione; ipnotizzato dell’impeto di un fiume in piena. Arrivati davanti alla tomba, cambiò tono, prese altra forma, mostrò ancora di più la sua anima più profondamente vitale. Fissando la lapide assorti nel silenzio, chiese: “Cosa provi?”. Spiazzato dopo suo tanto raccontare, rimasi in silenzio qualche secondo e approcciai una risposta: “Sento come un silenzio dentro”. Mi vergognavo un po’ di simile sgangherata esternazione, invece lei mi stupì nuovamente: “Significa che hai capito”. Mi sentii promosso dalla sua anima e con la leggerezza di un sorriso mi ricondusse in auto.

Tornai a Casarsa per presentare il libro, lei promise la medesima accoglienza e mantenne la promessa ancora una volta. L’accento schietto e la voce baldanzosa rimasero anche mesi dopo; poi andò come andò. Quando seppi della notizia provai “silenzio dentro”, ne provai molto. Ora quando la ricordo, però, penso allo stridio di freni logori e a quel calore trasmesso in pieno inverno per il critico (freddoloso) venuto da Roma.