Un ricordo 35 anni dopo

Nel 1968 Luca Ronconi ebbe un fortissimo scontro con Pier Paolo Pasolini, che anzi in quell’occasione abbandonò la mitezza adamantina che ne connotava i modi e le parole e cedette ad un’inusuale violenza verbale. Motivo dell’aspro contendere fu lo spettacolo Candelaio di Giordano Bruno, per il quale Ronconi, in quegli anni caldi di furore contestativo, aveva portato in scena una Napoli babelica e maniacale, quasi un “ventre” umano di ambiguo caos metamorfico e beffardo, in parallelo deformante di quello che intanto agitava le università e le piazze d’Italia.Furono in molti ad attaccare quell’allestimento, accusato sul “Corriere della Sera” da Roberto De Monticelli anche di superbia, ma Pasolini in particolare ne rigettò totalmente la visione strumentale, fredda e formalistica, cui era piegata fino allo stravolgimento la vitalità innocente del sottobosco popolare, compreso l’attore pasoliniano per eccellenza, Ninetto Davoli, che era stato inserito tra gli interpreti.  La polemica, innescata a caldo, non venne meno neanche in seguito, se Pasolini, stendendo nel 1974 un’appendice al suo dramma Bestia da stile, bollava tutto il teatro italiano, arrivato “culturalmente al limite più basso”, a parte l’anomalia di Carmelo Bene, e includeva in quel quadro sconfortante anche il teatro cosiddetto di regia, dei Visconti, Strehler e ancora Ronconi. “Pura gestualità – scrisse con infastidito animo demolitorio-, materia da rotocalco”. Eppure oggi, a distanza di tanti anni, Luca Ronconi non serba memoria di quel furibondo diverbio, nemmeno come autorisarcimento personale, e, nella video-testimonianza che ha voluto fortemente lasciare per l’imminente convegno di Casarsa, non esita a individuare in Pasolini non solo l’autore che ha più lungamente amato, studiato e allestito, ma anche la figura più illuminante e decisiva del ‘900 internazionale.
Al di là dell’aneddotica da dietro le quinte e di un circoscritto contraddittorio tra due intelligenze divergenti per intenzioni artistiche, l’episodio può elevarsi e allargarsi ora a paradigma, a spunto esemplare per una ricerca possibile delle ragioni profonde che possano spiegare la vitalità di lunghissimo corso dell’opera e della biografia pasoliniane, sempre attuali per la loro stessa “inattualità”, come vuole Pier Aldo Rovatti, sempre imprescindibili punti di riferimento anche per chi –è il caso di Ronconi- è stato fatto oggetto di strali critici, feroci e sinceri.
Il punto è che Pasolini pare l’incarnazione, forse l’ultima incarnazione, unica e a suo modo inimitabile, dell’intellettuale-poeta che sceglie di uscire definitivamente dalla protezione privilegiata della torre d’avorio e di compromettersi senza remore con l’esperienza dell’esistere. Interpreta cioè il senso del proprio ruolo come intervento agonistico con la realtà, in mezzo alle cose, in un intreccio tra arte e vita in cui il pensiero si alimenta dal bios e insieme, fuori dai rischi di un possibile decadentismo dannunziano e di viscerale biografia in cui potrebbe essere equivocato, si sostanzia di un’onnivora, incredibile consapevolezza culturale, politica, semiotica, antropologica. Un incastro tra “passione e ideologia” che segna di fertili ossimori tutte le multiformi espressioni, anche quelle controverse, contraddittorie e populiste, del genio pasoliniano e lo colloca al crocevia tra slancio energetico, audacia temeraria, pulsione erotica, sfida fisica da corpo gettato nella lotta e, su un altro versante, lucidità implacabile di sguardo critico, che sa leggere e interpretare già storicamente la propria contemporaneità e sa prefigurarne “profeticamente” ciò che sfugge ai più, le avvisaglie inquietanti di una futura evoluzione concreta di degrado.

Un modello, dunque, di artista avventuroso, non conforme e spiazzante, il cui fascino e il cui segreto motore si originano inoltre in un fondante e pervasivo spirito pedagogico, che orienta la stessa solitudine del poeta, Narciso sempre più disperato, in volontà infaticabile e positiva di comunicare e insegnare. Erede in questo senso della tradizione illuministica più che di quella strettamente marxista, Pasolini si propone come guida, anima di cenacoli e iniziative, testa di ponte per altri e con altri, sempre “maestro” di un’estetica che si combina con l’etica, specie per scomode verità in odore di eresia. Anche a costo –e anche qui con lungimirante proiezione del suo destino- di intuire che il “vero maestro” si capisce “soltanto dopo”, quando non c’è più e “ha la sua sede nella memoria”. Lo scrisse nel 1971 in margine ad un ricordo di Roberto Longhi, indimenticato professore, ma il discorso evidentemente vale oggi anche per lui, in tempi depressi e orfani di guide a tutto campo, almeno di quelle che non solo pensano, ma hanno anche il coraggio di osare e rischiare. Forse, per un accostamento finalmente oggettivo al valore d’attualità dell’opera di Pasolini, occorrerà una buona volta liberarsi dal suo “personaggio”, icona e mito che si presta all’agiografia acritica da ”santino”, come pure allo scavo sminuente e voyeuristico nelle ombre dell’uomo. Occorrerà invece ricorrere a lui, e alla sua debordante militanza di scrittore e artista – anima e corpo da intellettuale radicale e mai traditore- come a una monumentale testimonianza recuperabile in assenza di lui. E che perciò ci parla e ci interroga: perché sottolinea ancora di più il vuoto del presente e quello che avremmo potuto essere, anche con la sua ispirazione, e che invece non siamo diventati e non siamo.