Pasolini fra cinema e pittura, di Pier Marco De Santi

Pasolini fra cinema e pittura

di Pier Marco De Santi

 

Dal vastissimo panorama bibliografico sulla personalità e sull’opera di Pier Paolo Pasolini si ricava netta l’impressione che tutto sia stato ormai detto e scritto. In realtà il “fenomeno Pasolini” – uno tra i più compositi, complessi, inquietanti dell’arte e della società contemporanee – è stato analizzato e posto al vaglio dei più sofisticati metodi di indagine. Per questo, un ulteriore approccio alla creatività pasoliniana (sia in ambito socio-politico, sia in campo storico-letterario, fino al frastagliato humus della storia delle arti) rischia di inabissarsi nelle acque melmose dell’ovvietà.
Anche per uno studio relativamente meno sondato, quale è quello della grafica e della pittura di Pasolini, si tratta perciò di non incorrere in un pericolo: quello di dover riporre necessariamente le armi dell’analisi critica nelle casse polverose di una archiviazione generale. Archiviazione che, nel caso dei disegni di Pasolini, è stata fin troppo frettolosa. Di qui il desiderio di “riaprire il caso” e di individuare nuovi stimoli per uno studio più approfondito, nel tentativo di riproporre questo specifico aspetto dell’operatività di Pasolini come essenziale cornice di un complessivo quadro creativo, e non semplicemente come “curiosa” attività a margine, e neanche come elemento isolato a cui attribuire, ipso facto, patente di “opera d’arte”.
L’iniziativa lodevole di una esposizione e pubblicazione postume dei disegni e degli oli di Pasolini si deve a Giuseppe Zigaina, pittore e intimo amico dello scrittore-regista, a lui legato fino dagli anni del dopoguerra. La prima mostra dell’intero corpus grafico e pittorico di Pasolini è avvenuta nel giugno 1978 a Roma, a Palazzo Braschi: circa duecento tra schizzi, disegni, bozzetti, quadri, pubblicati nel bei catalogo delle edizioni Scheiwiller e accompagnati da scritti di Argan, De Micheli e dello stesso Zigaina.
Un’altra occasione per una rilettura di questo intimo e viscerale diario figurativo pasoliniano è venuta da una ulteriore iniziativa, sempre a cura di Zigaina: la pubblicazione dello splendido volume Pier Paolo Pasolini: Drawings and Painting, realizzato in occasione di una recente mostra statunitense (febbraio/marzo 1984) organizzata dall’University Art Museum, University of California, Berkeley, e dall’Istituto italiano di cultura di San Francisco. La lussuosa veste grafica del volume e l’ottima qualità delle 104 riproduzioni a colori (una quindicina delle quali non presenti nel volume/catalogo di Palazzo Braschi), uno specifico scritto di Pasolini del 1970, pubblicato postumo, una nuova introduzione di Achille Bonito Oliva e una interessante puntualizzazione di Zigaina sono i fondamenti principali sui quali poggia la proposta al pubblico americano della produzione figurativa di Pasolini.
Sulla base di una analisi comparata del contenuto dei due volumi sopracitati e degli scritti in essi riportati, a distanza di tanti anni, è ora giunto il momento di tentare un bilancio complessivo sulla qualità artistica delle pagine del singolare diario visivo pasoliniano, ma anche e soprattutto di iniziarne una lettura sostanzialmente rapportabile ai principali capitoli della vita e dell’attività creativa del loro autore. Così, i disegni e gli schizzi di Pasolini assumeranno anche il ruolo di tessere di mosaico che si innestano a riempire alcuni “punti neri” e a far luce su alcuni aspetti solo apparentemente marginali dell’eterogeneo universo dell’artista.
Il giudizio degli storici dell’arte sulle “qualità artistiche” delle opere figurative di Pasolini è stato, fin dalla mostra romana, alquanto cauto. In effetti, l’intento dell’esposizione di Palazzo Braschi non era tanto quello della scoperta di un Pasolini pittore quanto quello – come si sottolinea nelle presentazioni al catalogo – di offrire un contributo in più «alla conoscenza della complessa personalità del poeta e del regista, dalla cui attività traspare in ogni momento l’appassionato interesse per l’immagine». Ha scritto Giulio Carlo Argan: «II vecchio pregiudizio della diversità, quasi di rango sociale, tra il lavoro intellettuale del letterato e quello del pittore, legato ancora alla manualità o all’artigianato del fare, benché rigettato per principio, sussiste nel fatto; e lo prova proprio la frequenza con cui gli scrittori sentono il bisogno di disegnare e dipingere, non si sa se per svago, per esercizio o per castigo. (…) Non ha senso chiedersi se Montale o Zavattini o Pasolini siano veramente dei pittori, è chiaro che non lo sono. È invece interessante vedere quali siano il posto e la funzione della figurazione nel quadro delle loro attività preminenti. Quant’acqua porta al mulino della loro poesia o narrativa o, magari, cinematografo? E quanta eventualmente ne scarica, torbida di scorie inservibili?».
È sostanzialmente sulla base di queste premesse che si è inteso far conoscere la pittura di Pasolini anche negli Stati Uniti, pur se la presentazione di Bonito Oliva tendeva all’individuazione di un preciso atteggiamento stilistico nel processo figurativo pasoliniano. Scoprendo, nel vorticoso work in progress dell’artista, singolari affinità con i principali “luoghi deputati” del Manierismo italiano, il critico fa di Pasolini un tardo pronipote di quelle poetiche e di quel fenomeno artistico».
La “forzatura” pare evidente; anche se è assolutamente incontestabile, al di là e al di sopra del Manierismo, il fatto che – come scrive Bonito Oliva – l’attività figurativa di Pasolini, come il suo continuo attraversare i confini delle sfere della letteratura e del cinema, non ha niente di casuale né di pateticamente dilettantesco. E questo risulta chiaro fin dai primissimi disegni giovanili.
In un pressante e viscerale bisogno di misurarsi, di confrontarsi con la realtà, di prendere posizioni e distanze su tutto e su tutti, Pasolini non ha mai seguito alcuna scuola accademica, alcuna tendenza ufficiale, non ha mai ubbidito a nessuno stimolo che non premesse dall’interno della sua magmatica personalità. È’ stato, in tutti i campi espressivi nei quali si è misurato, un “autodidatta”. Lo dimostra anche la pratica del disegno che, almeno agli inizi, Pasolini doveva considerare come un aspetto importante e assolutamente non marginale dei suoi primi passi creativi.

Pier Paolo Pasolini, Ragazzo
Pier Paolo Pasolini, Ragazzo

Il più consistente nucleo di disegni finora conosciuti (circa un’ottantina di pezzi; oltre un terzo dell’intera produzione) appartiene, infatti, agli anni 1941-1943: gli anni di Casarsa. Pasolini aveva 19-21 anni e la sua personalità stava appena fornendo i primi germogli di poesia. Gli interessi creativi di Pasolini, in questi anni, erano orientati prevalentemente proprio in ambito figurativo e nella pratica della raffigurazione grafica. Dall’analisi degli schizzi del 1941, soprattutto se se ne compie un assemblaggio per tematiche (operazione necessaria, dato che l’impaginato, specialmente del volume italiano, possiede una distribuzione non cronologica ed eterogenea dei disegni giovanili), salta immediatamente agli occhi il fatto che Pasolini organizzava le proprie visioni grafiche, appunto, per cicli tematici. Per ciascuna “serie”, schizzata su fogli di piccolo formato uniforme, Pasolini adoperava la stessa tecnica: inchiostro o penna o pennello su carta. Cercando di afferrare “l’attimo fuggente”, di cogliere la realtà nel suo divenire, Pasolini in realtà affidava alla sensibilità poetica del suo occhio giovanile il compito di realizzare squarci di poesia figurativa. Sensibilità poetica e sensibilità figurativa, gusto delle inquadrature e del bozzetto di ambiente, concorrono a far assumere a queste prime serie di disegni dignità e consistenza a un tempo poetiche e visive. Ecco perché pare giustificato definire questi primi disegni come “diario poetico”. L’immagine figurata vela un bozzetto poetico.
Anche i fogli delle serie pasoliniane degli anni 1943-1944 indicano chiaramente come ancora nel giovane talento non si fosse verificata alcuna scelta tra la pratica della poesia e quella del disegno. In qualche caso, addirittura, coesistevano in simbiosi come un tutt’uno. Il giovane Pasolini era, per il momento, ancora sollecitato dal bisogno interiore di un confronto “crepuscolare” con il mondo degli affetti familiari, con gli aspetti del vivere quotidiano, teneri e idillici, propri di quella civiltà contadina “dai piccoli, ma grandi valori”, che tanto affascinava la sua esuberante sensibilità.
Non sembra di intravedere, negli schizzi di questi anni – come, invece, sostiene Bonito Oliva – «la necessità di uno stile sgraziato, opposto alla grazia retorica dell’arte ufficiale del fascismo». Lo stile di questi disegni è, in effetti, forbito fino alla rarefazione, raffinatissimo, “in punta di mano” e, per quanto imiti quello di grandi artisti contemporanei, pare profumato – se l’immagine è consentita – da una goccia di femmineo narcisismo. L’occhio del poeta e del pittore continuavano a coesistere. La scelta tra poesia e pittura non era ancora avvenuta. Così come non era ancora avvenuta la maturazione di uno specifico stile poetico e pittorico.
Da autodidatta di talento, Pasolini in quegli anni si nutriva delle esperienze altrui: le sue continue letture, così come l’incessante pratica del confronto e della documentazione sui maggiori artisti contemporanei, non potevano che dare un iniziale risultato, quello della pratica della imitazione. In questo senso è doveroso affermare che, dal punto di vista dello stile, nei disegni di Pasolini degli anni 1941-1943 non è riscontrabile alcuna sostanziale originalità. Pasolini ritraeva e schizzava “à la manière de…”, come l’allievo che tende a emulare il maestro. Disegnava come De Pisis (si confrontino, ad esempio, gli schizzi Giovane che scrive, Uomo che legge, Ritratto d’uomo, Ritratto di Susanna Pasolini, Bersagliere, Ritratto di bersagliere, Ragazzo, Ritratto di ragazzo, Figura a letto); rendeva omaggio a Scipione (Donna col lampione, Donna al fiume, la serie Donna col ranocchio, Donna nel canneto, Uomo nel canneto, Davanti al mio corpo); si rifaceva a Fabio Mauri (Giovani bersaglieri); si manteneva in bilico tra Pirandello e Mazzacurati (Giovane che si lava, Donna con fiore azzurro); dipingeva “alla Tomea” (Paesaggio, Paesaggio del Tagliamento). In conclusione, Pasolini era completamente immerso nel tentativo di individuare un proprio stile, attraverso un intenso lavoro di apprendistato teso all’appropriazione dei maggiori modelli figurativi del momento, al fine di “decollare come pittore”, ma anche di prendere progressivamente le distanze da uno stile “provincialmente naturalistico”.
Posti eventualmente in relazione con la futura attività cinematografica, gli schizzi di Pasolini di questi primi anni Quaranta, le sue “poesie a colori” (come qualcuno li ha definiti) confermano, se pure ce ne fosse bisogno, che il regista possedeva fin da allora un non comune occhio esercitato alla visione, all’osservazione, all’inquadratura. Niente di più, niente di meno. Relativamente alla prima metà degli anni Quaranta, in fondo, più che a questa iniziale pratica disegnativa, la Stimmung storico-artistica del cinema di Pasolini, il suo gusto pittorico, affondano le radici nelle lezioni di Roberto Longhi, appassionatamente seguite negli anni universitari. È qui appena il caso di ricordare che la sceneggiatura di Mamma Roma è dedicata proprio a Longhi, a cui Pasolini si dichiara esplicitamente debitore della sua folgorazione figurativa.
Nella Nota postuma pubblicata nel volume statunitense dei suoi disegni, Pasolini parla di Longhi come Ejzenstejn di Mejerchold, in termini, cioè, di incondizionata venerazione. Lo definisce il suo Nous (Essenza divinizzata del pensiero) e ricorda che, in quegli anni di università, la sua adulazione per Longhi era tale da non poterlo neanche “supplicare”. Solo nel 1975 Pasolini avrà l’opportunità di liberarsi di questa venerazione per il maestro, schizzando una ventina di caricature: le uniche fatte ad amici e intellettuali. In esse, l’omaggio di Pasolini non è ne icastico ne iconico, è più semplicemente e affettuosamente ironico.

Gli autoritratti

Pier Paolo Pasolini, Due autoritratti
Pier Paolo Pasolini, Due autoritratti

La ventilata carriera di Pasolini/pittore diminuisce progressivamente, fino a interrompersi, negli anni più disperati della guerra, come se la tragedia non lasciasse più spazio al bozzetto campestre o familiare; e si conclude definitivamente con i due Autoritratti degli anni 1946/1947: i primi di una lunga serie che Pasolini completerà (ma come totale sfogo diaristico, al di là di qualunque velleità artistica) nell’arco degli ultimi dieci anni di vita. In realtà, se i due autoritratti “col fiore in bocca” a tempera su faesite (Autoritratto con la vecchia sciarpa, 1946; Autoritratto, 1947) sono opere di elevata dignità artistica, nelle quali Pasolini intensifica al massimo il suo sforzo pittorico, costituiscono anche e soprattutto una testimonianza narcisistica e autolesionistica dell’inconscio proposito del pittore di dare l’addio alle proprie aspirazioni figurative. Non è questa la sede per addentrarci in analisi stilistiche ne in distraenti forzature di letture interpretative. Il compito spetta di diritto agli storici dell’arte. Qui si tratta più semplicemente di rilevare che i due Autoritratti pasoliniani sono una sorta di testamento impietoso, malinconico e ossessivo, tra l’ascetico e il macabro, di un particolare stato emozionale. Lo stesso che, un anno prima, aveva generato questa spassionata confessione, in una lettera scritta a un caro amico bolognese: «(…) Vorrei sputare sul monte Rest, lontanissimo, in fondo al Friuli, sul mare Adriatico invisibile dietro le Basse; e anche sulle facce di questi Casarsesi, di questi italiani, di questi cristiani. Tutto puzza di fucilate e di piedi. Che cosa mi lega a questa terra? Non avere paura, Luciano, che sono abbastanza puzzolente anch’io per essere capace di non sentirmi legato a tutta questa merda. Domani (fra sessanta anni; ci tengo) avremo una buca; non sarebbe una novità se non avessi visto con QUESTI occhi calarci dentro una morta, di cui sapevo che era stata viva; e allora in quel corpo che calava giù, ho misurato tutta questa umanità merdosa; viene qualcuno (la morte) a turarti il naso, e tu non senti più niente. Nel mio paese nasce primavera».
Pur avendo incominciato a partecipare alla vita politica, Pasolini stava vivendo, in questi anni dell’immediato dopoguerra, l’esperienza sessuale di una narcisistica, quanto tragica, percezione della propria differenza dagli altri. La sua condizione di “diverso”, la pratica omosessuale, creeranno di lì a poco lo “scandalo di Casarsa”, con la traumatica espulsione dal Partito comunista, l’allontanamento dall’insegnamento, la rottura con il padre, la fuga con la madre a Roma, non senza provocare un iniziale raptus suicida. «Un altro al mio posto si ammazzerebbe; disgraziatamente devo vivere per mia madre», scriveva Pasolini a Ferdinando Mautino della federazione comunista di Udine.
La guerra, l’uccisione del fratello da parte dei partigiani, il suo dichiarato odio per i borghesi, la sua condizione di “diverso”, la progressiva presa di distanza nei confronti di quel mondo rurale e schietto di Casarsa, che tanto aveva amato, fanno sì che in questi Autoritratti si respiri la più profonda delle disillusioni e che Pasolini si rispecchi in un ieratico, quanto sprezzante, atteggiamento di distacco dalla realtà: crea di sé un’impassibile, impenetrabile maschera espressionista, al cui volto accentua i lividi tratti fisiognomici della morte. Il richiamo è sì a Van Gogh, ma anche a Ensor. Di qui il senso di emarginazione, di esclusione, di inquietante mutismo che trasuda da questi Autoritratti (in particolare, in quello del 1947): ma da quel silenzio, tuttavia, come in una sorta di contrappasso, si grida di disperazione come nei quadri di Munch.
Come non notare, a questo punto, che – nei momenti di massimo isolamento, nei molteplici eventi traumatici della propria esistenza, nelle fasi cruciali delle sue battaglie più difficili contro un mondo che ostinatamente si vantava di non parlargli, di non sentirlo, di non vederlo – Pasolini si è sfogato e annullato nell’ossessivo soliloquio di una serie di autoritratti, assai vicini a quei primi della seconda metà degli anni Quaranta? Come non avvertire nella serie degli autoritratti degli ultimissimi anni, la sensazione che Pasolini vi innestasse la propria disperazione, la paura del precipizio, la sensazione dell’abisso?
I due Autoritratti del 1946/1947 sono legati, in effetti, da un doppio filo rosso in soluzione di continuità (sia pure con un salto di venti-trenta anni) alle febbrili introspezioni degli ultimi Autoritratti a pastello colorato. E questi ultimi, oltre a riflettere la struggente percezione pasoliniana della propria totale differenza dagli altri, si dissolvono nell’ultimo disegno di Pasolini: molte bocche chiuse, stilizzate con mano incerta e sottese da una massima, scritta a caratteri microscopici, “Il mondo non mi vuole / più e non Io sa”.
Dopo la fuga da Casarsa per Roma, Pasolini – distruggendo ogni affetto e spegnendo per sempre l’epos friulano – non disegnerà più crepuscolari squarci di vita quotidiana, propri di un mondo e di una civiltà inesorabilmente cancellati dal proprio sguardo figurativo Soltanto venti anni più tardi, dopo essersi “selvaggiamente” (l’avverbio è dello stesso Pasolini) dedicato al proprio lavoro poetico-letterario, dopo avere affrontato l’intenso banco di prova della pratica di sceneggiatore, nel momento in cui affronta la pratica della regia con Accattone recupera e introduce nel suo film quella autenticità, propria di un poetico cinéma-verité, così trasparente fin nella sua giovanile attività figurativa. Lo schema delle scene, delle inquadrature, dei “tagli visivi” che compongono i film di Pasolini è come riempito di sostanza “veramente viva”, di elementi poetici, di poesia: di quegli ingredienti, insomma, che stanno alla base anche dei suoi primi schizzi.
Identica è, in sostanza, la visione del mondo: nel suo fondo, di tipo epico-religioso. Il mondo contadino dei disegni cede il passo a quello – per Pasolini altrettanto “ieratico” – del sottoproletariato urbano. La Stimmung dei disegni e delle inquadrature è la stessa.
Gli elementi epico-religiosi (già alla base dell’attività grafica), nella raffigurazione di personaggi al di fuori di una coscienza storica come di una coscienza borghese (quale traspare in tutti i film di Pasolini), giocano un ruolo determinante. Il tratto essenziale del disegno, quell’intima caratteristica epica di guardare propria dei bozzetti giovanili, si tradurranno in stile nei film di Pasolini: nel suo modo di girare, di vedere il mondo dei poveri, di “sentire” il sottoproletariato nel corso dei secoli; nella fissità iconica delle sue inquadrature; nella frontalità delle immagini e dei piani; nell’austerità solenne delle sue panoramiche.

Pier Paolo Pasolini, Ninetto e Laura
Pier Paolo Pasolini, Ninetto e Laura

Disegna con la macchina da presa Pasolini riprende a disegnare con la mediazione dell’occhio della macchina da presa, in specifiche visioni luministiche di grande forbitezza ed eleganza; l’inquadratura origina il quadro, l’affresco, il bozzetto, il disegno o crea, come nell’immagine di Argan, «un’evocazione magica nella sfera di cristallo di un indovino».
«Il cinema», scrive Argan, «ha affascinato Pasolini per la sua straordinaria capacità di produrre fiumi di immagini estremamente nitide e particolareggiate pur nel tempo minimo della percezione (…). Gli piaceva cesellare l’immagine per introdurre nella visione un ralenti immaginario pure nel brevissimo tempo reale della percezione: e per questo aveva bisogno dell’esperienza figurativa che i suoi disegni, pure nella loro qualità non eccelsa, documentano (…). Certamente i disegni di Pasolini rimangono un momento artigianale, ma non più rispetto a un opposto lavoro intellettuale, bensì rispetto a un immane lavoro industriale di progettazione, elaborazione e produzione di immagini (…). La relativa convenzionalità dei disegni si spiega col doveroso rispetto a un’arte altrui, con le sue regole che il dilettante, per quanto geniale, non si sente autorizzato a cambiare. Più che attraverso un paragone relativamente facile con la narrativa, i suoi disegni si spiegano in rapporto alle contraddizioni interne della regia. Sapeva che il cinema è una forma di consumismo tanto più demoniaca in quanto riempie lo spazio del mondo d’immagini piene di attrattiva, ma senza durata. Di ciò consapevole, ha voluto immagini splendenti ma cave, come le donne delle tentazioni di Sant’Antonio, che sono soltanto parvenze, abiti regali sul vuoto totale del corpo e dell’anima. Ha quindi sentito il bisogno di dar loro un senso emblematico, che contrastava moralisticamente con lo splendore illusorio. Lo straordinario viaggio di Pasolini au bout dell’immaginario cinematografico era moralmente lecito solo ancorandosi segretamente alla radice sana dell’arte ed ecco la ragione di una nostalgia dell’artigianato: la grafica e la pittura erano un po’ come un vaso di gerani sul davanzale di un grattacielo, avevano un senso di talismano.»
Un aspetto importante – ed al quale non si è dato alcun peso, tanto meno nella prospettiva della creatività cinematografica di Pasolini – una caratteristica propria specialmente della pratica pittorica pasoliniana degli anni 1946-1947, ma assolutamente specifica dei “cicli grafico-pittorici” degli ultimi dieci anni, è quello della tecnica compositiva: non più a china o a penna o a matita, secondo le regole della tradizione, ma (è proprio il caso di dire) a pasticci di invenzioni materiche e di strani interventi manuali.
Intanto, quando dipingeva, Pasolini lo faceva su grezza tela da sacco, esibendosi (anche quando realizzerà alla maniera di Chagall i ritratti di Laura Betti o alla maniera di Manzù i numerosi profili della Callas) in vere e proprie performances. Pur non creando alcunché di informale, spesso Pasolini era solito disegnare e dipingere in contemporanea, versando la vernice liquida di un barattolo direttamente sulla carta a realizzare i contorni e i pieni del soggetto raffigurato. Altre volte intingeva la punta del dito nel colore e lo premeva direttamente sulla carta: un’evidente citazione di questo modo di procedere si vede in una sequenza del film Teorema. Altre, ancora, spremeva direttamente il colore sulla tela grezza piena di buchi, dopo averla prima ricoperta con colla di poco valore e poi di gesso, stesovi sbrigativamente.
Pasolini stesso giustifica questo suo modo di comporre, scrivendo: «Riesco a creare le forme che voglio, con i contorni che voglio soltanto se il materiale è difficile, impossibile e, soprattutto, in qualche modo, “prezioso”». Nel suo modo di dipingere la religione delle cose e dei personaggi, nella sua maniera di fare pittura “dialettale” trasformandola in “linguaggio per la poesia” (le definizioni sono di Pasolini), specialmente nelle sue ultime fatiche figurative, Pasolini ha sempre ed esclusivamente avuto bisogno di un materiale “espressionistico”.
Ce ne dà una conferma anche Zigaina, quando scrive: «Pasolini ha sempre dipinto da poeta. Esemplare è, in questo senso, la sua tecnica espressiva. Ad esempio: raramente l’ho visto adoperare i colori tradizionali a olio o le tempere. Fin da quando l’ho conosciuto, nell’immediato dopoguerra, ha sempre sperimentato le più strane tecniche pittoriche, adoperando e mescolando tra loro i più strani materiali. Negli ultimi tempi, durante i suoi soggiorni a Cervignano o a Grado, adoperava come colori i mezzi più impensabili, scelti solo apparentemente in modo casuale. Per i verdi adoperava un certo tipo di erba grassa o i chicchi dell’uva bianca. Per i rosa quelli che in laguna chiamano i “fiuri de tapo”. E per ottenere certi rossi usava l’aceto di vino mescolato alla calce. Durante la fase di essiccazione di queste materie miste affioravano le trasparenze più strane».
Le intuizioni mistico-naturalistiche di quei rituali poetici, di quelle metafore espressive proprie del modo di disegnare e di dipingere di Pasolini – una «sorta di gioco manuale, magico, fantasioso», come scrive De Micheli -, sono entrate tutte a far parte di diritto dello specificissimo modo di Pasolini di affrontare il problema dei costumi dei propri film. Costumi tutti di invenzione, che non appartengono a nessuna epoca, le cui fantasie materiche concorrono a creare, a fare – dei personaggi che le indossano – veri e propri miti: ad un tempo archetipi, metafore e significazioni antropologiche.
Pasolini, in tutti i suoi film, in perfetta sintonia con la vulcanica creatività di due tra i maggiori scenografi e costumisti del cinema contemporaneo (Danilo Donati e Piero Tosi), ha preteso eccezionali doti di manifattore e artigiano, nella costruzione e ideazione dei costumi. Tutto doveva essere diverso dalla tradizione: diversi i materiali, diverse le tecniche costruttive. E tanto Donati quanto Tosi hanno risposto con risultati eccezionali alle aspettative del regista. Danilo Donati, adoperando materiali poveri se non addirittura “naturali”, con una straordinaria abilità di intervento manuale immediato, è riuscito a inglobare e restituire l’attore in una macchina visiva estremamente funzionale all’immagine cinematografica pasoliniana. Ha caratterizzato fino all’enfatizzazione il comportamento dei protagonisti/archetipi del mondo interiore del regista.
La perfetta compenetrazione, l’assoluta simbiosi tra Pasolini e Donati per una rivisitazione e deformazione del costume di fantasia in sintesi di estrema povertà, a partire da La ricotta e ancor più da Il Vangelo secondo Matteo, hanno fatto scuola, determinando poi lo stile non solo di tutti i successivi film di Pasolini, ma anche quello di innumerevoli filmacci di altri registi che hanno copiato assai male e a man bassa proprio dal binomio Pasolini-Donati.
Piero Tosi, come Donati, ha creato per Pasolini autentici capolavori di costumistica manuale, materica. Per Medea, ad esempio, ha dovuto innanzitutto inventare le “materie” dei costumi,» delle stoffe, trattandosi di un film ambientato in un mondo perduto e senza tempo. Allo stesso modo di come Pasolini si inventava le materie per i colori della sua pittura, creandoli dai più strani procedimenti manuali, Tosi ha realizzato i costumi di Medea con l’uso di materie poverissime, come il cencio della nonna, o i riscaldi, o la garza più o meno pesante, lavorata alla maniera degli indiani. Queste stoffe povere, secondo quanto ci ha raccontato lo stesso Tosi, venivano infilzate a piegoline e poi cucite a intervalli irregolari. Si creavano così delle strisce, degli stretti budelli di stoffa, che venivano immersi in una soluzione di amido e fissatori. Il tutto, in seguito, veniva tinto e messo in forni a essiccare. Quindi, da questi materiali fissati e colorati con le tinte delle “terre” si toglievano le cuciture, ottenendo così un risultato di coloritura non uniforme. Su questi materiali “diversi” si agiva poi manualmente, cucendovi sopra pezzi di riscaldo di identico o di altro colore, lamine dorate o argentate o bronzee, in modo da ottenere un tessuto strano, magico, misterioso, non rapportabile a niente di conosciuto.
In altri casi, su quelle strisce di stoffa infilzata si gettava del colore; oppure le si dipingeva in maniera informe. Una volta sfilzate, da queste stoffe venivano fuori effetti grafici, come quelli prodotti dai bambini quando ritagliano con le forbici la carta ammazzettata.
Sui costumi, infine, secondo una tecnica in uso presso i bizantini, si ricamava – in totale invenzione – non con il filo, ma con strisce metalliche. Anche le pietre cucite sui costumi erano grezze, non lavorate, a pezzi: soprattutto pezzi di lapislazzuli.
Tutto insomma era creato di sana pianta. Le corazze, ad esempio, erano fatte tutte con il cuoio tagliato e intrecciato al rame. Altre stoffe erano disegnate con le forme di ferri roventi, in modo da trarne effetti xilografici. Venivano decorati e arricchiti ulteriormente anche quei mantelli dei pastori turchi, fatti arrivare in gran quantità, che già possedevano disegni tanto belli, alla Campigli. Persino i costumi dei cavalli erano realizzati manualmente. E i guerrieri, adorni di ori e di celate in una contaminazione stilistica tra il Medioevo e l’Africa, erano vestiti come i cavalli, a formare un corpo unico.
È di questi materiali di artigianato puro, in conclusione, che si veste Medea: un film senza tempo ispirato unicamente alle suggestioni e ai suggerimenti del paesaggio nel quale è stato ambientato. «È stata un’esperienza esaltante, irripetibile», così ha commentato Piero Tosi, «nella quale Pasolini ed io ci siamo buttati come due artigiani provetti, capaci di creare tutto ex-novo(…). L’unico mio cruccio era il fatto che Pier Paolo non voleva assolutamente che curassi il volto dei suoi personaggi. Il trucco per Pasolini non doveva esistere. Sceglieva delle facce e dovevano rimanere com’erano, senza neanche un minimo di modifica».
Oltre ai personaggi presi dalla strada, amici intimi e intellettuali ritratti nei propri film nelle loro caratteristiche fisiognomiche nude e crude senza alcuna alterazione del trucco, Pasolini ha voluto protagoniste di alcuni suoi capolavori anche attrici e personalità del mondo dello spettacolo, notoriamente circondate dalla mitica aureola del divismo, sia pure “all’italiana”. Ma né la Magnani, né la Mangano, né la Callas – per fare qualche nome – sono state “graziate” dallo specifico impegno registico di Pasolini, dal cui copione non solo erano escluse fondamentali cognizioni tecniche, ma erano addirittura bandite le parole “attore” e “attrice”. Gli aneddoti in proposito sono numerosi e non è dunque il caso di insistervi.

Il caso di Medea

Pier Paolo Pasolini, "Ritratto di Maria Callas" (1969), tecnica mista su carta
Pier Paolo Pasolini, “Ritratto di Maria Callas” (1969), tecnica mista su carta

Nel caso di Medea, che in questi appunti è assolutamente pertinente, Pasolini si è, in sostanza, “servito” di Maria Callas, fidando nella sua totale disponibilità e usando la sua personalità, il suo volto, i suoi gesti come “materiali”; inseguendo principalmente la forza delle immagini della sua tipologia e dei suoi tratti fisiognomici e trascurando volutamente le sue grandi doti drammaturgiche. «Mi ricordo che, fin dall’inizio del film», ci ha confermato Piero Tosi, «Maria traumatizzata dal fatto di essere già avanti nel tempo e di non possedere nessuna pratica cinematografica, si raccomandava a Pier Paolo perché non le facesse primi piani. Ma con molta gentilezza, perché era disposta a tutto. Sostenendo di essere abituata a fare il suo lavoro di teatro a una certa distanza dal pubblico, pregava Pier Paolo di inquadrarla a distanza. Maria aveva il complesso del proprio naso, ma Pier Paolo le diceva che aveva un naso stupendo, come quello dei più bei vasi greci. E così la inquadrava in maniera tale che il naso le venisse ancora più lungo».
Il volto, la presenza magnetica dello sguardo della Callas, il suo strepitoso istinto scenico, la tragicità della sua liturgia gestuale: questi erano i veri poli dell’interesse, dell’attrazione di Pasolini per il grande soprano. Il fatto stesso che la Callas avesse interpretato il personaggio di Medea alla Scala quindici anni prima era, tutto sommato, poco influente. Per i motivi sopracitati, Pasolini studiò freneticamente il volto della Callas (alterandone proprio i dati somatici, come nel film) in una serie di disegni, di profili, violentemente schizzati e contornati di fondi di caffè, macchie d’olio, aceto, umori di uva, petali di fiori.
L’atteggiamento pasoliniano nei confronti di questa copiosa serie di ritratti, a loro volta in serie di sei-otto per ciascun disegno (alla maniera di certi studi rinascimentali), pare improntato a una totale libertà espressiva, nella quale l’occhio del ritrattista gioca con una fantasiosa manualità. In questo caso, la spontaneità dei disegni è legata all’immissione di elementi rituali che sembrano dolcemente deturparli di una vena a un tempo mitica e funerea, quale è appunto quella che si coglie in tanti profili di vasi greci. Certamente, i profili della Callas fissati da Pasolini sono veri e propri studi di inquadrature – per primi o primissimi piani – della futura protagonista del film Medea. I ritratti della Callas sono funzionali al film, sono materiali di approccio al personaggio protagonista. Manca, tuttavia, in questi disegni, quello scarto emotivo che contraddistingue, ad esempio, la forzatura caricaturale dei disegni preparatori di Fellini rispetto alla realizzazione filmica del personaggio-tipo.
È appena il caso di ricordare che, negli schizzi di Fellini, i personaggi respirano sempre dal mondo dei fumetti, sono clowns, marionette in caricatura; mentre nei film, passati al vaglio della lunga mediazione del set, diventano tipi perfettamente caratterizzati nei loro umori comici, grotteschi, tragici. Nelle silhouettes pasoliniane della Callas, il personaggio – pur nella diversa sostanza grafica rispetto alla carnalità dell’immagine cinematografica – possiede già quella identica presenza, quell’incombente peso ieratico che assumerà nel film. Al punto che (se volessimo tentare un sia pure forzato paragone), saremmo più portati a ritenere che il procedimento di avvicinamento, mediante disegno, alla protagonista di Medea è per molti versi identico a quello che conduce Ejzenstejn all’individuazione, attraverso la pratica del disegno di preparazione, del personaggio protagonista di Ivan il Terribile. In Pasolini, l’occhio del disegnatore coincide con l’occhio del regista e, in un certo senso, sembra ignorare eventuali sollecitazioni intermedie, come quelle della fase del set.
Ancora diverse sono le considerazioni che si possono fare a proposito delle strisce colorate del fumetto pasoliniano per la preparazione dell’episodio La terra vista dalla luna, inserito nel film Le Streghe: l’unico tentativo del regista di scrivere graficamente le inquadrature, le situazioni, le battute di un brano cinematografico; l’unico esempio, in Pasolini, di una intera sceneggiatura pensata in termini figurativi. In questo caso l’approccio è assolutamente – in modo inequivocabile – caricaturale, come si addice a un fumetto. E in effetti il grottesco episodio filmico è realizzato alla maniera di un fumetto. Per quanto apparentemente così distanti, dunque, il diaframma tra le esasperazioni grottesche delle immagini disegnate e la inevitabile plasticità delle grottesche inquadrature filmiche non è poi così spesso come si potrebbe desumere da una prima, approssimativa comparazione. Ancora una volta c’è perfetta coincidenza tra l’occhio del fumettista e quello dell’autore cinematografico.

La Terra vista dalla Luna, la sceneggiatura a fumetti firmata da Pasolini
La Terra vista dalla Luna, la sceneggiatura a fumetti firmata da Pasolini

Già nel fumetto, conferma De Micheli, «Pasolini vede i suoi personaggi, li segue nei gesti, nei dialoghi, nelle scene. Il suo segno è rapido, vivace e rappresentativo. Patetica e grottesca vi emerge la maschera di Totò (…). Questo gruppo di fogli illumina come meglio non sarebbe possibile il suo meccanismo creativo, che sa tradurre in una successione mobilissima di immagini l’essenza poetica di un racconto, la sostanza di una parabola letteraria dove i nodi dell’esistenza hanno un riscontro così tragico e dolce».
La stessa dolce tragicità dell’ “Autoritratto cinematografico” di Pasolini che, nei panni di Giotto, nelle ultime inquadrature del suo Decameron, di fronte all’affresco di una sua Apocalisse, commenta scuotendo il capo: «Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?».