“Pasolini” di Abel Ferrara. Rassegna stampa

Lanciato da un’abile campagna promozionale,  interpretato da un cast di richiamo  e atteso con viva curiosità, il 4 settembre scorso è stato presentato in prima alla Biennale di Venezia il film Pasolini del trasgressivo, discontinuo e inquieto regista americano Abel Ferrara. Il lavoro, doppiato in italiano rispetto al parlato in inglese della prima proiezione, è poi approdato nelle sale italiane a partire dal 25 settembre. Il film ripercorre le ultime ore di vita di Pasolini, ricostruite attraverso i momenti realmente vissuti dallo scrittore e cineasta, e l’immaginario consegnato alle opere a cui stava lavorando nella fase finale della sua attività artistica (il romanzo Petrolio e la sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal) e che la tragica morte all’Idroscalo di Ostia gli impedì di portare a compiutezza.  E’ una sorta di temerario tentativo apparentemente biografico, in alternanza tra fiction e visionarietà, che tuttavia, fin dalla prima veneziana in Sala Darsena, ha diviso il pubblico e la critica in opposte fazioni. Da un lato, si sono schierati da subito i detrattori, a dire il vero in maggioranza,  più o meno delusi per la sommaria trasposizione della tormentata e complessa figura di Pasolini o anche irritati  per il disordine linguistico  del lavoro; dall’altro, i (non molti) difensori, in gran parte cinefili, hanno riscontrato motivi di interesse estetico nella stessa impurità e contraddittorietà del plumbeo lavoro, rintracciando lì la chiave stilistica di Ferrara. A ricevere un consenso pressoché unanime è stata invece la prova d’attore nei panni di Pasolini di Willem Dafoe, affiancato tra gli altri da Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio e Adriana Asti, nei ruoli rispettivamente di Eduardo De Filippo, Ninetto Davoli e la madre Susanna Pasolini. Dell’accidentata ricezione del film, non fortunato nemmeno nei riscontri di botteghino, dà conto la rassegna che qui di seguito riportiamo con una sequenza di estratti ritagliati da alcune recensioni apparse sulla stampa e in rete.

 Massimo Gironi
www.comingsoon.it – 4 settembre
(…) Pasolini – oggetto misterioso e diseguale, ambiguo e difficilmente afferrabile – non è un film che pare avere uno scopo. Se non quello, a tratti inconsapevole, di mettere di fronte lo spettatore all’icona Pasolini da un lato (un’icona piuttosto monodimensionale e mai approfondita, a tratti vagamente caricaturale) e alla domanda scomoda “cosa sarebbe stato di Pasolini se non fosse morto” dall’altro. Scomoda perché, necessariamente, porta con sé quella relativa a cosa penserebbe Pasolini di noi, della società di oggi, e soprattutto di chi lo cita e lo scomoda a ogni piè sospinto. Meno anarchico, selvaggio e sregolato di quel che si potrebbe aspettare da un regista come Ferrara, Pasolini è un film incerto e spesso didascalico, nel quale però non si racconta tanto il passato dell’uomo e dell’intellettuale quanto il futuro che non ha mai avuto. Alla quotidianità di PPP negli ultimi giorni della sua vita s’intrecciano visioni basate sui suoi lavori mai terminati, il romanzo  Petrolio e il film Porno-Teo-Kolossal, che avrebbe dovuto vedere protagonisti Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli. Di quest’ultimo, Ferrara inventa di sana pianta alcune scene, lasciando al vero Ninetto il compito d’interpretare il personaggio di Eduardo, e a Riccardo Scamarcio il ruolo di Ninetto, facendoli muovere in una Roma contemporanea e creando così un cortocircuito temporale che riassume forse il senso dell’intero film.

Willem Dafoe in "Pasolini" di Abel Ferrara (2014)
Willem Dafoe in “Pasolini” di Abel Ferrara (2014)

Paolo Mereghetti
www.cinema-tv.corriere.it  – 5 settembre 2014
Una cosa certamente non manca a Ferrara: il coraggio! Dopo Strauss Khan (presentato tra mille polemiche a Cannes, ma fuori festival), arriva Pasolini, questa volta a Venezia e in concorso, l’uno e l’altro «sostenuti » da una ricostruzione cronachistica che fa acqua nel primo ma funziona nel secondo (anche se in sala il pubblico si è diviso). (…) Affidato a un convincente e mimetico Willem Dafoe, Pasolini ne esce come un intellettuale che non vuole abdicare all’impegno (anche se fuori dai percorsi tradizionali) e che soprattutto continua a misurarsi con la forma da dare alle sue tante idee e suggestioni. Il film lo dice esplicitamente attraverso una lettera ad Alberto Moravia (che sentiamo all’inizio) o l’intervista a Furio Colombo (che ricostruisce con Francesco Siciliano nella parte del giornalista) e lo mostra mentre lavora con foga alla macchina da scrivere. Dove invece il film cade è proprio quando deve immaginare la forma che Pasolini avrebbe dato alle sue due opere: se i forti contrasti luminosi (la fotografia è di Stefano Falivene) aiutano a restituire la giusta atmosfera del «pratone della Casilina», la festa di Petrolio è un’occasione persa e l’orgia di Porno-Teo-Kolossal la parte più deludente (e anti-pasoliniana) del film, girata con uno spirito volgarmente e inutilmente voyeuristico.
Peccato, perché invece certe idee inaspettate sorprendono positivamente, come quella di affidare al sempre ottimo Ninetto Davoli la parte che avrebbe dovuto essere di Eduardo De Filippo in Porno-Teo-Kolossal (ammesso che l’avesse accettata), facendolo parlare in un esilarante romanesco, mentre, sempre per il film nel film, la parte del giovane Ninetto è interpretata da un simpatico Scamarcio che parla in napoletano. Uno scambio di ruoli e di lingue che rimanda alla libertà di Pasolini e alla sua capacità di evitare ogni soluzione scontata.
A disturbare invece c’è stata la scelta del regista di presentare la versione (internazionale?) in cui Dafoe parla in inglese, mentre i suoi familiari usano l’italiano per comunicare tra di loro e l’inglese per rivolgersi a Pasolini. Quando il film uscirà nelle nostre sale si parlerà solo italiano (con il protagonista doppiato da Fabrizio Gifuni) ma qui il miscuglio di lingue e di pronunce — ci sono anche scene in cui Dafoe/Pasolini si rivolge in uno stentato italiano a Pino Pelosi (Damiano Tamilia) — ha finito per accentuare la sensazione di trovarsi davanti a un’opera non ben amalgamata, con cose belle accanto ad altre decisamente fastidiose.
A favore del film c’è l’abbandono di qualsiasi idea complottista e la convincente ricostruzione dell’assassinio nei modi indicati dalla prima inchiesta (quella firmata dal perito Faustino Durante), mentre lascia molti dubbi aver affidato a Maria de Medeiros il ruolo di Laura Betti. Si capiscono le ragioni che avvicinano Ferrara a Pasolini, a cominciare dalla propria smania d’autore (io esisto perché posso girare un film dopo l’altro, dice pressappoco) e in certe scene si ritrova una libertà e una fluidità di riprese ammirevoli (la partita a calcio), ma altre sono fin troppo didascaliche e schematiche. E il film alla fine sembra l’inevitabile specchio di una carriera mai ben controllata, fatta di troppi alti e di bassi neanche fosse sulle montagne russe.

 Alessandra De Luca
“Avvenire”  – 5 settembre 2014
(…) il film di Ferrara, che arriva al Lido a 50 anni dalla presentazione alla Mostra de Il Vangelo secondo Matteo, convince a metà. Il lavoro di ricostruzione del mondo pasoliniano farà storcere il naso a qualcuno, ma la sovrapposizione, come ha spiegato lo sceneggiatore Maurizio Braucci, di tanti strati di colori con tonalità diverse, come si fa in pittura, offre una struttura narrativa che restituisce, almeno in parte, la complessità dell’intellettuale e artista, trovato ucciso all’Idroscalo di Roma la notte del 2 novembre 1975. Ed ecco allora che alla fedele ricostruzione delle ore trascorse con l’adorata madre (Adriana Asti), i cugini Graziella (Giada Colagrande) e Nico (Valerio Mastandrea), gli amici Ninetto Davoli (Riccardo Scamarcio) e Laura Betti (Maria De Medeiros), la notte a bordo della sua Alfa Romeo in cerca di avventure, si aggiunge la visualizzazione di alcuni capitoli del romanzo Petrolio e di alcuni passi della sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal, nuovo film che Pasolini pensava di affidare al giovane Davoli e a Eduardo de Filippo (interpretato proprio da Davoli nel film di Ferrara (…). A non convincere sono invece alcune fantasie sulle opere incompiute (l’orgia del film mai realizzato sfiora il ridicolo), un finale che appiattendosi sulla nuda cronaca nulla aggiunge in termini di visionarietà a quello che già sappiamo sulla morte di Pasolini e soprattutto una scelta linguistica insensata per la quale alcuni degli interpreti mescolano italiano e inglese con un effetto a dir poco straniante anche per il pubblico straniero. Problema che sarà superato dal doppiaggio italiano (la voce di Pasolini sarà quella di Fabrizio Gifuni, mentre Chiara Caselli doppierà la De Medeiros) ma che persisterà nella versione internazionale. Ma resta il mistero di Davoli che nei panni del napoletano Eduardo parla in romano e Scamarcio che nei panni del romano Davoli parla in napoletano.

Riccardo Scamarcio e Ninetto Davoli in "Pasolini"
Riccardo Scamarcio e Ninetto Davoli in “Pasolini”

Antonio Maria Abate
www.cineblog.it – 5 settembre 2014
(…)  Pasolini di Abel Ferrara è senza dubbio il film più difficile di cui scrivere – così, a caldo – tra quelli visti alla Mostra.(…) Tra i delusi o, peggio, gli adirati (che sono la maggior parte), non si fa fatica ad annoverare coloro che da questo film si aspettavano una sorta di biopic, sebbene articolato, particolare. Questi evidentemente, spiace dirlo quasi avessimo la puzza sotto il naso, non conoscono Ferrara. Aspettarsi dal suo Pasolini qualcosa che anche solo si avvicinasse al biopic, alla narrazione più o meno disordinata della vita di Pasolini, è un azzardo come minimo. Sia chiaro, il regista americano ci ha abituato a tutto, ed in fin dei conti potevamo aspettarci di tutto. Anche questo va detto. No, invece Ferrara si conferma Ferrara. Questa sua ultima fatica è un film imperfetto fino al midollo, asettico come solo i suoi film sanno essere, crudo e per certi aspetti quasi disinteressato. Attenzione però, perché quanto appena rilevato esige almeno una spiegazione. Pasolini non è un film su Pier Paolo Pasolini, bensì sull’opera, a tutto tondo, dell’intellettuale bolognese di nascita e friulano d’adozione. E, dato che in una qualunque storia, piaccia o meno, ciò che si ricorda meglio è la fine, Ferrara mette in scena le ultime ventiquattr’ore di vita dello scrittore (come recava scritto nella sua carta d’identità alla voce “professione”).
Di complesso c’è che col regista newyorkese non puoi mai sapere. Troppo è spiazzante il suo cinema, ulteriormente rarefatto negli ultimi anni, segnati da difficoltà indicibili anche solo per riuscire a cominciare a girarlo, un film. Definirlo discontinuo non è sbagliato ma nemmeno così esatto, perché la discontinuità, la violenza con cui Abel Ferrara partorisce i suoi film per poi quasi liberarsene è oramai parte integrante di ciò che è lui come cineasta. Ed in questo senso, forse, nessuno più e meglio di lui era indicato per accostarsi ad una figura che ha vissuto in maniera non meno tormentata la propria esistenza, anche e soprattutto in relazione alla sua opera, ovvero Pasolini. Con in comune, entrambi, di essere stati ugualmente prolifici, in un modo che altri artisti; magari non meno afflitti dei nostri, nonostante tutto sconoscono.
Il film si chiude su uno degli stilemi più classici del cinema di Ferrara, cioè il drastico, feroce accostamento di due opposti: alla scena dell’omicidio di Pasolini (caduta verso il basso) fa il paio un’altra fittizia in cui due suoi personaggi d’invenzione salgono le scale verso il cielo (risalita verso l’alto). Lascia sempre un tantino esterrefatti prendere coscienza di quanto un cinema così viscerale possa al tempo stesso essere così “calcolato”.
Pasolini, non meno che altri film del regista, è di quelli che vanno studiati, che non sono concepiti per travolgere. Emotivamente, ferma restando l’affezione per il vero Pasolini, la versione ferrariana risulta clamorosamente sterile, da qualunque prospettiva la si guardi. Nessuno può negarlo. Non si tratta della sua presunta visionarietà, o della struttura così autonoma e tutt’altro che ortodossa. Nossignore. Pasolini è quasi un omaggio ad un maestro, il cui discepolo coltiva un rispetto (se non un amore) così assoluto che il modo per dimostrarlo non può che essere personale, spiccatamente personale. Dunque rischiosamente poco comprensibile.
(…) Pasolini è un’opera indomita e per questo deve pagare un pedaggio molto amaro. Difettoso sin dalle fondamenta per quanto sia, comunque, nessuna delle sue tare congenite riesce a spegnere il fuoco da cui è arso. Perché, specie dopo averci rimuginato sopra un po’ meglio, l’ardore che anima Ferrara nel girare questo film risulta a dir poco abbagliante. Il che, lo ripetiamo, non lo rende più compiuto neanche un po’, ma per chi adora il cinema ed i suoi eroi, davanti ma specialmente dietro la macchina da presa, tutto ciò non può significare nulla.(…)  Il Pasolini di Abel Ferrara è l’opera che più di ogni altra nella sua filmografia emana quella tensione che mescola e confonde l’Arte con la vita, sbattendoci in faccia la paradossale condizione di chi vive a cavallo delle due. Il problema è quando una sfocia nell’altra e viceversa, creando quella miscela in virtù della quale è anche solo concepibile un’opera come Pasolini. Che in quanto film di finzione è essenzialmente mediocre, forse addirittura pessimo. Come cinema, invece, si tratta di uno dei discorsi più lucidi quanto ai limiti del mezzo, di chi se ne serve o di chi semplicemente ne fruisce. (…) Allora delle due l’una: o abbiamo davanti uno scherzo, peraltro di cattivo gusto, oppure si tratta di un’opera quintessenzialmente geniale, proprio perché sin troppo al di là della capacità di controllo da parte di colui che l’ha creata.

Andrea Lade
www.mymovies.it – 5 settembre 2014
Il primo film che ho visto di questa edizione del Festival è il tanto atteso Pasolini, stroncato dalla critica, disprezzato dagli amatori dell’artista friulano ed ignorato da tutti gli altri. Ma è veramente così orribile il nuovo film di Abel Ferrara? Posso davvero permettermi di archiviare questa “biografia” come un lavoro mal riuscito? Pur essendo il giudizio mio personale totalmente negativo, voglio soffermarmi su alcune motivazioni. Abel Ferrara è un regista eterogeneo che predilige  il genere thriller ambientando le sue opere nei bassifondi delle città; nel 2011 decide di studiare la figura di Pasolini a tal punto da prendersi una pausa di riflessione e di allontanarsi dalle scene per approfondire la sua nuova idea. Pasolini viene studiato nell’ immagine, attraverso i documentari, nella sua dialettica e la ricerca sembra orientarsi nell’ultimo periodo a Roma. La prima scelta azzardata del regista è  Willem Dafoe, sicuramente non noto per la bellezza  che per l’occasione viene ulteriormente alterato per somigliare il più possibile all’ultimo Pasolini (…).  Come se non bastasse, un doppiaggio disastroso alterna dialoghi in inglese a momenti in cui si tenta disperatamente un italiano dal fortissimo e fastidioso anglo-accento.
Il resto del cast non è  d’aiuto : Scamarcio, Ninetto Davoli e Mastandrea  di certo non sono i miei  attori preferiti, ma hanno  fatto di meglio nella loro carriera. Gli episodi  dei due avventurieri Epifanio e Ninetto Davoli non legano tra di loro e si fa fatica a seguire una sceneggiatura confusa e sfilacciata soprattutto nella parte centrale del film dove alcune scene rischiano addirittura di apparire fuori contesto, se non nella mente del regista che sicuramente avrà seguito una sua logica del tutto personale.
Là dove quindi ci sono dubbi sulla sceneggiatura , il contenuto non aiuta di certo. Senza soffermarmi su scene di dubbio gusto come il rito della fertilità, credo che il punto debole di questa operazione sia  la storia in generale, l’ossatura dello script :  il soggetto si sviluppa nel giro di pochi mesi e si concentra negli episodi in cui Pasolini scrive, trascorrendo le ultime ore della sua vita con l’adorata madre, riflettendo sulla sua vita  e più tardi alla ricerca  nella notte di avventure in Alfa Romeo. Avventure notturne che diventano il pretesto per il  regista di dare  una sua versione dei fatti al pestaggio dell’Idroscalo e così il film si conclude in interminabili 5 minuti di una scena opaca ed interpretata  in modo terrificante dal protagonista e dai ragazzi di vita.
Tutto il resto del film è pieno di citazioni, frasi, eventi storici diretti da un regista che sembra aver capito tutto di Pasolini e che invece ha capito ben poco oscurando la sua indole , e rendendo il personaggio  privo di anima, smorto e , ripeto,  insopportabile quando tenta di parlare in italiano. Il regista non fa un’ analisi profonda di Pasolini e aderisce ad uno stile narrativo semi documentaristico per cui raccontare la  biografia di un personaggio significa aderire in tutto e per tutto al suo pensiero. Uscito dalla sala speravo di conoscere qualcosa in più di questo personaggio di cui si è tanto discusso, ma in realtà ho saputo ancor meno. Sicuramente non vi piacerà.
Voto: 2

Silvia Urban
www.bestmovie.it – 5 settembre 2014
(…) Una scelta quasi obbligata, quella di trovare una chiave precisa per raccontare la vita, il mondo e il pensiero di un intellettuale tanto controverso, che non potrebbe essere esaurito nemmeno in dieci film. Ferrara non si accontenta della pura ricostruzione storica di quella giornata, preferendo affiancare a questa anche la messa in scena dei progetti a cui il regista di Accattone e Salò si stava dedicando. (…)  Ed è proprio qui che il suo Pasolini perde mordente e continuità, spezzando il racconto con siparietti immaginifici che non restituiscono il senso delle opere stesse, in un continuo cortocircuito tra finzione e realtà (spesso sfugge il confine che separa l’una dall’altra). Amplificato dalla scelta, altrettanto insensata di usare due lingue, l’inglese e l’italiano (nella versione italiana del film sarà Fabrizio Gifuni a dare voce a Pasolini), penalizzando l’interpretazione degli attori, impegnati in dialoghi francamente inverosimili. Tanto più che la dimensione privata e domestica di Pasolini viene ricreata attraverso l’inserimento di personaggi ritratti in frammenti tanto brevi da risultare delle macchiette: lo sono la mamma Susanna di Adriana Asti, l’amica e attrice Laura Betti di Maria de Medeiros, l’assistente Graziella di Giada Colagrande e il cugino Nico Naldini di Valerio Mastandrea. Scelte che non aiutano a veicolare Pasolini (specie al pubblico che non ne conosce l’opera e la biografia) e inficiano la riuscita di un film che funziona solo laddove un convincente – e incredibilmente somigliante –Willem Dafoe dà corpo e anima a un uomo che con la sua arte amava scandalizzare.

Alessandro Padovani
www.sugarpulp.it  – 5 settembre 2014
Certo, Pasolini non è un film su Pier Paolo Pasolini, inavvicinabile per stessa ammissione del regista americano, ma sul suo ultimo giorno di vita. Eppure l’arrogante sicurezza con cui Ferrara racconta i dettagli della vicende che portarono alla morte dell’intellettuale friulano appare approssimativa, superficiale e poco convincente. Organizzato in un sistema narrativo caotico e confusionale, in cui interviste giornalistiche (con Furio Colombo) e cene con intellettuali e amici (Betti, Naldini, Pelosi) si mescolano a discese negli inferi della periferia romana e alle fantasie di un film che non riuscirà mai a realizzare (Porno-Teo-Kolossal), Pasolini sembra un film senza un centro e una direzione, che brancola smarrito come i viaggi notturni del poeta friulano a bordo della sua Alfa Romeo. Il bilinguismo ingiustificato, anche se non è il problema più grave, è sicuramente il segnale dell’incapacità di Ferrara di tradurre Pasolini, di rendere sullo schermo la sua personalità sfaccettata, come se a dividere i due ci fossero non solo due idiomi differenti, ma anche due culture e due ambienti.
Ferrara punta tutto sulla parte corporale, esibizionista e provocatoria di Pasolini, dimenticando che era anche l’autore che ha rivoluzionato l’idea di cinema e letteratura, il primo che ha denunciato il pericolo del consumismo sfrenato e del conformismo televisivo. Scandalizzare è un dovere, essere scandalizzati è un piacere è la citazione-mantra del regista americano: purtroppo dalle provocazioni di questo film non arriva alcun piacere, ma solo amarezza e delusione per un film che poteva e doveva essere diverso.

Giancarlo Usai
www.ondacinema.it
(…) Il grande pregio dell’opera firmata dal regista de Il cattivo tenente sta proprio nel suo rifiuto di ogni categorizzazione: il Pasolini narrato in questo originalissimo racconto non strizza l’occhio ai classici biopic né tanto meno cede il fianco a tentazioni investigative sul finale drammatico della vita dello scrittore. Il Pasolini che Ferrara ci mostra è ripreso “in diretta”, con una narrazione che si cala, a partire dal buio dei silenziosi titoli di testa, direttamente nelle sue ultime ore di vita. Allontanando impulsi saggistici o analisi antropologiche a ritroso, la pellicola si concentra su ciò che Pasolini fa, scrive, pensa, dice. E la potenza della parola ci restituisce la complessità della sua mente. Solo il suo erede d’Oltreoceano poteva regalarci un film dedicato al creatore di Salò senza cadere nello scontato, nel già visto, nel superfluo. E invece di superfluo, in questa istantanea di fine vita, non c’è nulla. E accade ciò forse proprio perché Ferrara non spiega in prima persona, non è lui a sobbarcarsi direttamente il difficile compito di raccontare al pubblico internazionale “chi era Pier Paolo”. A farlo c’è l’opera stessa di Pasolini. Da una parte, scampoli di vita quotidiana, immortalati con felice semplicità e maestria nella messa in scena degli spazi interni così profondamente caratteristici della Roma anni 70, dall’altra è la voce stessa di Pasolini a dire tutto. Che siano affermazioni pronunciate dal protagonista in scena, sommessamente interpretato da un volenteroso Willem Dafoe, oppure la voce off che legge i pensieri scritti su carta dallo stesso poeta, il ritratto che ne viene fuori, sicuramente sconnesso e inafferrabile, è quanto di più autentico e toccante possa esserci.(…)
Ferrara, che forse sognava di nascere novello Pasolini, dà vita ai progetti incompiuti: attraverso il suo cinema vediamo sullo schermo prima alcune pagine trasformate in sequenza cinematografica di Petrolio e poi lunghi passaggi di quello che avrebbe potuto essere l’ultimo film di Pasolini. Lo stile narrativo di queste “visioni” è criptico e poco fluido, verboso e smaccatamente intellettuale, esattamente com’era il cinema del vero PPP, soprattutto quello della fase finale della sua carriera. Questo è l’omaggio più sentito che Ferrara fa al suo maestro: non lo svilisce in un ordinario film biografico, né ci ammorba con ulteriori elucubrazioni relative alle differenti tesi sull’omicidio di Ostia. Il regista americano si limita a regalarci sprazzi di vita e, tra un momento e l’altro degli ultimi istanti di vita terrena, a mettere in scena, facendosi lui stesso un supplente, le opere irrealizzate di Pasolini. Una scelta folle, rischiosa, ma immensamente coraggiosa.

Paolo D’Agostini
“la Repubblica” –  25 settembre 2014
È un film appassionato quello che Abel Ferrara ha dedicato alla figura di Pier Paolo Pasolini mettendo a fuoco le ultime ore del poeta assassinato nella notte del 2 novembre 1975 secondo modalità che accostano i dati di cronaca a una percezione così personale da indurre nell’idea che il regista italo-americano abbia sentito il personaggio (attraverso la mediazione dell’attore Willem Dafoe a sua volta impressionante per adesione) come un alter ego.

 Federico Pontiggia
“Il Fatto Quotidiano” –  25 settembre 2014 
Pasolini, chi era costui? Abel Ferrara punta sul fine-vita, prende l’attore feticcio Willem Dafoe, gli concede la libertà di parlare in inglese davanti a Furio Colombo, anglo-italiano a casa, italiano con Pino Pelosi e i ragazzi di vita. Una Babele calcolata? No, e Scamarcio che fa Ninetto in napoletano, Ninetto che fa De Filippo in romanesco in Porno-Teo-Kolossal non aiutano. Ma i veri problemi sono altrove: sarà per la trasformazione pornoteokolossale, sarà per la messa in scena di Petrolio, ma questo Pasolini pare figlio di nessuno, perché PPP – crediamo – non avrebbe realizzato così i suoi progetti, e questi progetti non sono realizzati da Ferrara per come lo conosciamo, ovvero brutto, sporco e affamato.

Maurizio Caverzan
“Il Giornale” –  25 settembre 2014
Willem Dafoe somiglia a Pasolini, la postura è studiata, belle le riprese della partita di calcio, efficaci la madre (Adriana Asti) e Nico Naldini (Valerio Mastandrea). Ferrara mette in scena i progetti di PPP, soprattutto Porno-Teo-Kolossal destinato a Eduardo, ed è la parte migliore del film. Per rendere la statura dello scrittore narrandone le ultime 48 ore ci voleva un’idea forte. Invece c’è una comparsa che parla di gay a metà anni ’70.

 Giona A. Nazzaro
www.temi.repubblica.it/micromega-online – 28 settembre
Un progetto coltivato da moltissimi anni, questo Pasolini secondo Abel Ferrara. Un film che il regista ha visto concretizzarsi sempre di più man mano che la frequentazione con Roma si è andata intensificando. Pasolini vede la luce quando il cinema ferrariano ha raggiunto ormai un grado di libertà formale(..) radicale.  (…) Il cinema di Abel Ferrara, nel rispetto dei codici di genere e produttivi, è come se nascesse già compiutamente manierista. È la violenta visceralità del suo sguardo e del suo approccio alla materia del noir a scavalcare la forma al punto da incrinarla e a insinuare che anche in opere non perfettamente bilanciate come Fear City pulsasse dell’altro. (…) Coloro che imputano anche a Pasolini un mancato controllo formale da parte di Ferrara, accennando a momenti estremamente riusciti e ad altri che sembrano invece quasi improvvisati nella loro crudezza e approssimazione, pur centrando quello che è ormai il cuore stesso del gesto filmico ferrariano, non riescono a coglierne il senso e di conseguenza faticano ad accettare che è esattamente in questo spaesamento che si colloca il fare cinema di Ferrara. (…) Rispetto alla regola del biopic hollywoodiano e di quello del cinema civile italiano, Ferrara non si presenta né con rivelazioni inedite né tanto meno offre il suo film con i crismi di un’operazione filologica. Pasolini secondo Ferrara è soprattutto un luogo. Una pura creazione filmica. Ed è in questo luogo, nel quale si accede da diverse strade, essendo questo un luogo aperto, poroso, che Ferrara costruisce un racconto lirico, come un saggio in forma di poesia. Abbracciando senza alcuna remora i precetti pasoliniani del cinema di poesia, Ferrara non rinuncia certo a dichiarare che quanto vediamo sullo schermo non è il poeta friulano ma l’immagine che di lui ha creato un regista e che pertanto va letta e giudicata non rispetto ai suoi presunti indici di realtà ma in funzione del lavoro necessario a crearla.
Purissimo e commovente film saggio, nel quale a tratti si ha quasi l’impressione di percepire il respiro di Ferrara dietro le immagini, Pasolini gioca audacemente lo scarto fra immagine e verosimiglianza lasciando che sia sempre lo spettatore a organizzare le fila delle immagini. Ferrara, lui apre tutte le finestre e il mondo entra da ogni parte. E quest’invasione è proprio una delle ragioni portanti del film. Il film non è solo proprio come non lo è il mondo e come non può esserlo il regista. Nel fare, nel lavorare, ci si contamina. Si diventa altro. E anche Pasolini non è più Pasolini. Intitolandosi semplicemente Pasolini, e spingendo così sino al limite estremo l’identificazione fra il film (in quanto oggetto) e il poeta, Ferrara è come se spostasse il tentativo di un ritratto non rispetto alla storia messa in scena quanto al lavoro necessario a realizzarlo. Come dire che è il processo stesso ad aspirare a essere pasoliniano.
Lì e non altrove vive la lezione e la voce non conciliata del poeta. Non si tratta quindi di mimetismo, nonostante l’altissima prova di Willem Dafoe, apice di una carriera esemplare, ma di comprensione e compassione. L’attore, infatti, spingendo verso una somiglianza quasi mimetica, aiutato anche dai consigli e dai ricordi di Ninetto Davoli, arricchendo la performance dell’attore di dettagli come la catenina visibile al collo, è come se invocasse non una sospensione dell’incredulità ma rivelasse chiaramente l’artificio della creazione attoriale. Willem Dafoe, infatti, interpreta Willem Dafoe che si cala nel ruolo di Pasolini.
Pasolini, il poeta ucciso a Ostia, è l’assenza. L’immagine non vista ma sempre evocata. Pasolini, il film, assume lucidamente su di sé questa assenza e la erge a fulcro sul quale far muovere tutte le figure che concorrono al gioco del sortilegio e dell’incanto: rendere visibile l’invisibile. Ed è solo in quest’angolo di mondo, apparentemente sottratto alle regole riconosciute e condivise del cinema, che la libertà stessa del fare cinema torna genuinamente a provocare scandalo, ossia a essere sottratta all’influenza dei linguaggi dominanti. Scelta, questa, inutile sottolinearlo, essenzialmente pasoliniana. Solo in un luogo dove si discontinua il “parlare-cinema” maggioritario è possibile ipotizzare un’altra parola in grado di tracciare differenze significative. Ferrara, come mettendo in scena un paradossale analfabetismo di ritorno – tanto radicale, infatti, è lo scarto del suo film rispetto al panorama cinematografico attuale – filma il suo Pasolini come da un luogo virtualmente privo di cinema, ritrovando in questo modo una struggente purezza cittiana.

Luigi Locatelli
www.nuovocinemalocatelli.com – 25 settembre 2014
L’ultimo giorno di Pasolini, da un’intervista a una radio francese fino alla spiaggia di Ostia. Ferrara non si limita alla ricostruzione cronachistica, ma inserisce (e mette in scena) brani di Petrolio, il romanzo che Pasolini stava scrivendo, e del film sul re magio Epifanio che voleva realizzare con Eduardo. Ne esce un Pasolini sciamano, profeta (“siamo tutti in pericolo”) della propria fine e di quella del mondo tutto. Operazione interessante. Solo che Ferrara mantiene per tutto il film un tono freddo, distante. Stranamente prudente. Questo film non è né Ferrara né Pasolini. Ma se ne parlerà e straparlerà. Magnifiche tutte le parti della Roma notturna, pessime quelle domestiche e gli inserti con Davoli e Scamarcio. Voto 6 meno

Chiara Guida
www.cinefilos.it – 25 settembre 2014
(…)  Il nome di Pier Paolo Pasolini torna sul grande schermo in un racconto voluto e diretto da Abel Ferrara, un racconto atteso dal pubblico e che si concentra sulle ultime 24 ore di vita del regista, scrittore e artista italiano. La scelta molto specifica dell’arco temporale da raccontare non trova però riscontro in una uguale chiarezza delle intenzioni e del punto di vista assunto dal regista stesso. Il Pasolini di Ferrara non è un film d’inchiesta, non è un film che indaga sull’aspetto privato o intellettuale del personaggio, non si pone domande né fornisce eventuali risposte. Pasolini è un film che mostra, e forse proprio in questa caratteristica sta la sua forza e la sua debolezza insieme, le ultime ore di vita del personaggio, toccando di sfuggita i grandi nodi tematici che lo hanno caratterizzato e reso celebre ma che non sceglie di approfondire nessuno di questi, a favore di una didascalica messa in scena.
Tutt’altro che didascalica è invece l’interpretazione di Willem Dafoe, che si è caricato della responsabilità di dare corpo a Pier Paolo Pasolini, facendolo in maniera ineccepibile (…). Abel Ferrara dirige un film che oseremmo definire senza personalità, con un ottimo interprete ma, anche tenendo conto della delicatezza del soggetto trattato, con poco coraggio nel prendere una decisione sulla strada da percorrere.

Willem Dafoe in "Pasolini"
Willem Dafoe in “Pasolini”

 Pietro Masciullo
www.sentieri selvaggi.it – 26 settembre 2014
Ferrara trova l’unico modo per essere follemente (in)fedele a un pensiero così ontologicamente contemporaneo come quello di Pasolini, cucendo i riflessi vivi di un pioniere della sperimentazione linguistica (giornalismo, letteratura, cinema, poesia), riarticolando questo materiale in un montaggio dialettico personalissimo e sancendo pasoliniamente oltre Pasolini che “la fine non esiste”.“Siamo tutti in pericolo”. Iniziamo dalla famosa ultima intervista che Pier Paolo Pasolini concesse a Furio Colombo poco prima della sua tragica morte. Intervista riportata fedelmente nel Pasolini di Abel Ferrara, almeno sino alla domanda fatidica del giornalista su “cosa ti resta?”. Insomma: se abolisci quest’ordine costituito, tutto il sistema educativo che parte dalla scuola, a te poeta e regista “cosa resta?”. La risposta di Pasolini fu netta: “a me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini”. Dafoe-Pasolini, invece, pur rimanendo fedele alla filosofia che animava quella risposta, ne devia improvvisamente il fuoco: “a me restano i film, girare, farei film anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra. O faccio film o mi suicido”. Eccola, allora, l’abissale dissolvenza incrociata Ferrara-Pasolini. Eccolo il momento decisivo (…), ed ecco da dove partire per comprendere un film che pur nel caos selvaggio delle traiettorie rimane fedelissimo alla lucidità del pensiero pasoliniano.
Pasolini è straniero nel suo Paese. Dalla prima inquadratura è già solo (con) il suo sguardo: si inizia in sala di montaggio dove il regista vuole letteralmente toccare quelle immagini, la sua mano è protesa sullo schermo, Willem Dafoe pronuncia parole incomprensibili. Salò, da ogni punto di vista, è il film della Fine. Delle utopie (oltre ogni empirismo eretico) e della storia (un buco-nero come il petrolio). Una fine a cui Ferrara si ribella con Rabbia, configurando la resurrezione laica dell’utopia-cinema (la Stella cometa) e del pensiero-corpo (Pier Paolo Pasolini) che ha sempre ispirato le sue inquadrature (…), perché la “fine non esiste” ricorda il servetto Nunzio al disilluso padroncino Epifanio. Come tentare un’impresa simile? Forse configurando il ricordo-immagine di un uomo attraverso le opere che avrebbe voluto creare se ne avesse avuto il tempo. Ponendosi esteticamente e politicamente dopo la fine e filmando i fugaci echi di morte di Petrolio o gli ultimi aneliti di speranza di Porno-Teo-Kolossal, perché il cinema fa già parte della vita.  (…).. Ferrara guarda Pasolini come un Cristo laico che ha gettato semi inestirpabili – l’unico film citato apertamente, non a caso, è Il Vangelo secondo Matteo –, filmando una brutale morte fisica che non riesce minimamente a oscurare la vita dell’immag(inazion)e e del pensiero. E non solo di quello pasoliniano (sarebbe troppo riduttivo), ma anche del proprio (di Abel Ferarra) e soprattutto del lettore/spettatore X a cui Pier Paolo era totalmente devoto.

 Vittorio Lingiardi
“Il Sole24ore- Domenica” – 28 settembre 2014
Se di Ferrara abbiamo altrove apprezzato le visioni, le oscurità e i lampi, la sua mimesi pasoliniana ci appare, nonostante le intenzioni sincere, poco convincente.  (…) Non è facile (…) passar sopra la penuria poetica che affligge il tentativo di Ferrara di ricostruire ( pur se in piena fedeltà filologica) le cene del kolossal-progetto pasoliniano. Qui il regista americano finisce per arenarsi nell’improbabile, come nella sequenza troppo lunga in cui, per celebrare il giorno della fertilità, gay e lesbiche si accoppiano in coiti eterosessuali tra sgangherati cori apotropaici. Davoli e Smaracio interpretano con poca convinzione le parti di Epifanio e Nunzio, rievocazione affettuosa ma stanca di Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini. (…). Fare un film su Pasolini e la sua disperata vitalità, nella politica, nella poesia, nella sessualità, è un azzardo. Ferrara è stato coraggioso e Pasolini è comunque una calamita. Ma se ricorderemo questo film sarà soprattutto per la recitazione intelligente e priva di sforzo di Willem Dafoe, che del poeta ha colto la mitezza dei gesti, il tormento composto, la dolcezza carsica che poco si concede. Il resto lo affidiamo ai versi che Eduardo scrisse per l’”amico angelico” nel terribile giorno dopo:”Non li toccate quei diciotto sassi … messi a difesa di una voce altissima…  Penserà il vento levigarli, per addolcirne gli angoli pungenti; penserà il sole a renderli cocenti, arroventati come il suo pensiero; cadrà la pioggia e li farà lucenti, come la luce delle sue parole”.

Gianfranco Cercone
“Notizie radicali” – 29 settembre
Il film che Abel Ferrara ha dedicato a Pier Paolo Pasolini, ha dato origine a controversie intorno alla questione se questo Pasolini corrisponda a meno al Pasolini “storico”; se tradisca, se non le sembianze, lo spirito del personaggio. È una questione che è del tutto legittimo porsi purché sia chiaro che essa non riguarda la riuscita artistica del film. Da un punto di vista estetico, ciò che si richiede al personaggio di un’opera narrativa è di essere in sé “vivo” e vero. Per questo ammiriamo Paolo e Francesca di Dante, o il Giulio Cesare di Shakespeare o il Kane di Quarto potere di Welles: senza che vogliamo o possiamo stabile se quei personaggi corrispondano o meno alle figure storiche che li hanno ispirati.
Ferrara non ha costruito un tradizionale film biografico. Il suo racconto – o forse sarebbe meglio dire: la sua cronaca – si appunta quasi soltanto sull’ultimo giorno di vita di Pasolini: dal momento del risveglio nella sua casa all’EUR, dove viveva con la madre e la cugina, fino al suo incontro notturno, amoroso, con Pino Pelosi, che ci si concluderà, come è noto, con il suo assassinio, ad opera, si vede nel film, di teppisti ignoti. (…). Mi soffermo su questi dettagli per suggerire la qualità, ma anche il limite, del lavoro di Ferrara. Si tratta di una ricostruzione attentissima, appassionata, dell’ambiente familiare di Pasolini; dei luoghi che frequentava; delle parole che quel giorno si ricorda che abbia pronunciato. Ma a forza di esattezza cronachistica, questo Pasolini dà l’impressione, purtroppo, di un cadavere accuratamente imbalsamato; e non certo per colpa dell’ottimo attore che lo ha interpretato: Willem Dafoe (a cui si accompagnano altri buoni o grandi attori. Un nome per tutti: Adriana Asti nel ruolo della madre). E’ che, probabilmente per una soggezione dovuta all’ammirazione, Ferrara non ha osato prestare al protagonista i propri sentimenti, o almeno un aspetto della propria vita interiore: quel prestito necessario a rendere vivo un personaggio, anche a costo di tradire la fedeltà storica.

 Gianni Olla
www.lanuovasardegna.it – 29 settembre 2014
Intervistato da Peter Bogdanovich, Orson Welles, alla richiesta di informazioni su un “certo Pier Paolo Pasolini”, del cui film La ricotta (1963) era stato protagonista, redarguì l’intervistatore, che snobbava quell’esperienza “oscura e estetizzante”, affermando che Pasolini era “tremendamente intelligente e dotato. Magari un po’ matto, un po’ confuso, ma di un livello superiore. Parlo del Pasolini poeta cristiano andato a male e ideologo marxista. Non ha niente di confuso quando è su un set cinematografico. Autorità vera e grande libertà nell’uso della tecnica”.
Un personaggio noto nel mondo. L’esempio serve a far capire che lo scrittore, regista e poeta italiano è, allo stesso tempo, un personaggio conosciuto e osannato al di là delle nostre frontiere, ma di cui non è facile occuparsi in maniera sintetica, se non evocando, in scritti e film, la profezia sul degrado dell’Italia. Il Pasolini di Abel Ferrara, fischiato al festival di Venezia, non rischia di cadere in queste false sicurezze. Più semplicemente, attraverso la drammatizzazione delle ultime quarantotto ore di vita del poeta, ci mostra un personaggio “geniale e sregolato”, tormentato dalla sua stessa creatività, nonché dalle sue scelte di vita che, all’epoca, esibiva come sfida al conformismo sociale, culturale e morale. Certo, già alle prime sequenze, se il viso scavato e lo sguardo dubbioso di Willem Dafoe, duplicano egregiamente il vero Pasolini, la voce di Fabrizio Gifuni (il doppiatore italiano) ci allontana dalle sua presenza verbale, quasi ossessiva, che ancora oggi è possibile ascoltare nelle rievocazioni televisive.
Lo straniamento iniziale – comunque inevitabile – viene però ulteriormente rafforzato, fino a diventare banale, nella prima parte del film, quella in cui il regista, dopo aver curato, a Parigi, l’edizione francese di Salò, mostra un suo lato pubblico che, paradossalmente, sembra avviarsi alla normalizzazione.(…). In questa placidità esistenziale c’è comunque lo spazio per immaginare la vicenda appena abbozzata di Petrolio – suo romanzo postumo – a cui si collega la visione catastrofica della politica come “palazzo del potere” quasi kafkiano. Diciamo che, fino a questo punto, il film prosegue lungo una linea normalizzata all’eccesso, e, soprattutto, quasi incomprensibile per chi non conosca a fondo la biografia di Pasolini. Eppure, anche in questi frammenti, c’è già una linea interpretativa: immaginare il personaggio come visto da un alieno. E del resto anche le visioni romane, di scorcio, che mescolano assieme il passato e il presente – i palazzi “metafisici” dell’Eur – appartengono alla stessa idea di una scoperta “aliena” che si rifà a Fellini o al Sorrentino de La grande bellezza.
Progressivamente, il film prende quota – anche se con molti inciampi – immaginando un Pasolini vitalista e ancora disposto a dare battaglia, ma non già pronto al sacrificio, come molti intellettuali scrissero all’indomani della sua uccisione. Così, per circa un’ora la cronaca essenziale dell’ultima sera/notte s’intreccia con le immagini filmiche – inventate da Ferrara – di un altro progetto incompiuto: Porno-Teo–Kolossal, sorta di fiaba cristiana, con tanto di re magi, che sembra voler duplicare il dialogo filosofico di Uccellacci e uccellini in una dimensione spirituale e totalmente fantastica. Le poche pagine del soggetto originale – che accenna ad una partecipazione, nel ruolo del protagonista Epifanio, di Eduardo De Filippo – si trasformano così in un film “a parte”, di nuovo attraversato dalla costante schizofrenia registica di Ferrara. Se infatti la parte poetico-filosofica di questa ricostruzione è davvero misteriosa e affascinante come le sequenze più belle di Pier Paolo Pasolini, il “porno-kolossal” è invece orrendo. Ma anche questo sta nelle corde di un autore che si dichiara pasoliniano («è stato, senza saperlo, il mio maestro»), ma il cui unico film vicino alla “cristianesimo andato a male” di Pasolini  è Il cattivo tenente, storia della discesa agli inferi di un “arrabbiato” senza speranza, la cui forma, lo stile, la tecnica e la poetica non possono che essere americanissimi.

Marta  Aurino
www.ilmediano.it – 3 ottobre 2014
(…)  La straordinaria somiglianza (in particolar modo nello sguardo sfuggente e nei lineamenti) del protagonista Willem Dafoe con Pier Paolo Pasolini lasciava ben presagire, e invece tutto ciò che resta allo spettatore dopo la proiezione è la sensazione di aver visto un film incompiuto.(…) Per comprendere Pasolini è indispensabile tener conto dello stile di Abel Ferrara, fuori dagli schemi e intensamente provocatorio, e della violenza con cui concepisce i suoi film, come sotto l’impulso di un bisogno di purificazione. Perciò nessuno meglio di Ferrara poteva accostarsi ad una figura che ha vissuto un’ esistenza tanto tormentata e che permetteva al regista di esprimere, ancora una volta, la sua devozione per  Quarto Potere e per Orson Welles.  Tuttavia il film non risulta né piacevole, né fluido. Manca il quadro politico, manca il cuore della poetica pasoliniana, la grinta e la forza di volontà dello scrittore non vengono rappresentate con la necessaria evidenza: Pasolini appare come un malato di sesso, saccente fino allo stremo e incline ai peggiori vizi. In definitiva Pasolini è un film che non consiglierei agli ammiratori dello scrittore, vuoi per l’impostazione scelta dal regista, vuoi per l’italiano un po’ sbiascicato di Willem Dafoe.
Ma ci sono anche i pregi. Le interpretazioni di Ninetto Diavoli e di Riccardo Scamarcio, che non è più solo un belloccio imbambolato, animano il film, le inquadrature fanno vibrare il cuore agli appassionati di cinema riportando alla mente quelle di Allen e di Truffaut, ed infine non manca l’affascinante “marchio” del regista americano, ovvero la contrapposizione tra vita e morte, cielo e abisso. Lo ritroviamo, questo “segno”, nel finale: alla scena dell’omicidio di Pasolini (caduta verso il basso) se ne contrappone un’altra, di pura invenzione, in cui Encolpio e Gitone salgono le scale verso il cielo (simbolo dell’ ascesi e della speranza). Ferrara si può amare oppure detestare, ma indubbiamente è un grande sperimentatore.

 Giulia Marras
“Diari di Cineclub” n. 21 – ottobre 2014
Come ampiamente previsto, Pasolini di Abel Ferrara, nella Selezione del Con­corso Internazionale dell’ultima Mostra di Venezia, ha diviso completamente gli animi della stampa, soprattutto, inutile dirlo, quella italiana. La decisione di ritrarre un personaggio di tale calibro prometteva già dall’annuncio grandi polemiche, così come ne generava lo stesso Pasolini nell’epoca di at­tività; e come ne ha sempre scatenato anche il regista newyorkese, dal carattere, sì, turbo­lento e dal passato problematico a causa delle dipendenze da alcool e droghe, ma anche per le scelte dei suoi protagonisti maledetti, dal più celebre Il cattivo tenente di Harvey Kei­tel fino all’ultimo Devereaux, interpretato da Gerard Depardieu, ispirato a Dominique Strauss-Kahn e alle accuse di violenze sessuali che lo videro coinvolto nel 2011. Pasolini, giunto quasi alla conclusione di un Festival particolarmente in sordina, sia in quanto qua­lità della selezione generale che in numeri di presenze al Lido, mostra le ultime 24 ore di vi­ta del poeta friulano, la giornata del 1 Novem­bre 1975, dal suo ritorno a Roma da Stoccolma, dove si stava occupando della traduzione della raccolta Le Ceneri di Gramsci, fino alla tra­gica e violenta morte a Ostia.
Le critiche parla­no di maltrattamento di Pasolini nella vacuità del raccontarlo escludendone l’intera opera, atteggiamento di presunzione tipico dell’a­mericano che si affaccia ad un’altra cultura, volgarità e confusione data dalle tre lingue di­verse utilizzate in questa versione originale (…). Ora, da una parte questi possono essere argomenti condivisibi­li, dall’altra sembrano sentenze decretate già prima di aver realmente visto il film di Ferra­ra. I punti elencati sono condivisibili perché effettivamente segnalano in sé le direzioni che il regista e lo sceneggiatore (l’italianissi­mo Maurizio Braucci) hanno deciso deliberata­mente di intraprendere. Fondamentalmente il film è difendibile per gli stessi motivi con cui è stato attaccato (o è attaccabile). Ma è an­che questo il cuore pulsionale del cinema. Vo­lendo analizzare punto per punto, Pasolini infatti si limita davvero al racconto e all’espo­sizione della sua ultima giornata e soprattutto del suo ultimo film, Salò, dei suoi ultimi scritti, compresi quelli di Petrolio, e la sce­neggiatura mai realizzata, Porno-Teo-Kolos­sal (…).
É l’uomo-Pier Paolo di cui ci parla Ferrara, alleggerito del “sapere accumulato”, reinserito nel contesto familiare e quotidiano piuttosto che in quello sociale e culturale: la scena chiave diviene quella mai vista o imma­ginata – a differenza dell’esibizione delle im­magini del cadavere – del risveglio del 1° no­vembre a casa della madre, interpretata da Adriana Asti, della “vestizione” e della colazio­ne, in completo silenzio. Solo sguardi, stan­chi, malinconici, forse perché consapevoli dell’avvenire, già scritto nei titoli del giornale del mattino degli omicidi che si consumavano in quel periodo del terrore. “Roma è finita, amico mio” -dice Pier Paolo al ristoratore del Pommidoro, prima tappa della serata fatidi­ca, dove aspetta Ninetto, l’altra sua famiglia- “bisogna emigrare”, riflettendo quelle tarde sensazioni del poeta che non trovava più la re­altà in cui si era imbattuto nelle borgate negli anni ‘50. I corpi si sono americanizzati, come quelli dei ragazzi di vita che incontrerà a Ter­mini, come l’anello che porta al dito Pino Pelo­si. Con la “rana” Dafoe parla italiano, con la famiglia in inglese: è la separazione di due re­altà tenute in disparte l’una dall’altra. A ben vedere la summa del pensiero pasoliniano rie­cheggia in sottofondo per tutto il film nelle manifestazioni studentesche, nelle immagini del deserto rosa con i corpi da Orestiade afri­cana, nelle riprese dei ragazzi di vita, nelle parole dell’intervista con Furio Colombo, poi intitolata “Siamo tutti in pericolo”: “io scendo all’inferno” e so cose che non disturbano la pa­ce di altri; il suo cinema rientra con la colon­na sonora, composta di brani già utilizzati da Pasolini per i suoi film, tra cui l’aria di Rosi­na del Barbiere di Siviglia “Una Voce Poco Fa” cantata dalla grande amica del regista Ma­ria Callas, nell’ultima scena della morte solita­ria ed estrema.
Ferrara tratta Pasolini, corpo pensante all’inizio, inerme alla fine, come un personaggio universale, più di quanto riesca a fare Martone con il suo favoloso Leopardi: lo stringe in spazi intimi, seppur quelli originali (i due ristoranti a San Lorenzo e Trastevere, Roma, Ostia), e lo veste dei suoi stessi abiti, ma l’esterno spazio-temporale è lasciato fuori dall’inquadratura, anche se la carica in­volontariamente di epicità; inoltre la sessuali­tà è colta da fuori, come se ancora fosse rima­sta un segreto. Il film di Ferrara non chiede allo spettatore una conoscenza precostituita dello scrittore di Casarsa, né della storia del suo omicidio (anche se le dinamiche rappre­sentate riflettono esattamente la sentenza del 1976 di omicidio volontario di Pelosi in con­corso con ignoti), ma offre la possibilità visio­naria di scorgere un futuro letterario e cine­matografico negato. Non c’è particolare cura nella forma, questo è vero: l’immagine di Fer­rara è sempre stata grezza, sporca, povera. Ma così era anche l’immagine cinematografica di Pasolini: scevra da ogni orpello scenografico, erano l’urgenza della storia, la particolarità dei suoi (loro) personaggi ai limiti della so­cietà ad avere la meglio. In entrambe le filmo­grafie, i luoghi sono già dati, stabiliti incon­sciamente ancora prima della stesura dello script: Roma, come New York per Ferrara, è finita, finita nel senso di spazio ormai defini­to, chiuso, non immortale. Infinito è invece il pensiero dell’uomo-Pasolini, perché, da quel 2 novembre, ancora di più e per sempre inafferra­bile.

 [idea]Scheda[/idea]

Pasolini  (Belgio, Italia, Francia, 2014) di Abel Ferrara
interpreti
Willem Dafoe, Maria de Medeiros, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande, Roberto Zibetti, Adriana Asti, Valerio Mastandrea, Tatiana Luter, Guillaume Rumiel Braun, Diego Pagotto,  Salvatore Ruocco

sceneggiatura
Abel Ferrara e Maurizio Braucci

fotografia
Stefano Falivene

durata:86′

distribuzione
Europictures

Produzione
Capricci Films, Urania Pictures S.r.l.