Mario Dondero, l’uomo dalle suole di vento

Alessandro Negrini, poeta e giramondo di origine torinese oggi di stanza in Irlanda del Nord, si definisce regista e sceneggiatore passato al cinema per caso. Sarà così. Di certo è per caso che si è incrociato con Mario Dondero, il poeta-fotografo che poi lo ha accompagnato nelle presentazioni del docufilm pluripremiato Paradiso (2009) e gli è diventato amico e compagno di viaggio. Anzi, un “uomo dalle suole di vento”, come racconta Negrini in un sincero ritratto di Dondero, steso al momento della sua scomparsa.

Grazie all’autore, che ci ha concesso di ripubblicare il suo scritto anche nel segno di Pasolini, di cui Dondero ha catturato con i suoi scatti leggendari i barlumi della rara umanità.

«Scusi, lei fa foto?» – «Sì, un po’»

“La mia amicizia con Mario Dondero, l’uomo dalle suole di vento”

di Alessandro Negrini (22 dicembre 2015)

Succede che alcune forme di bellezza abbiano come loro origine un errore, un’imperfezione, una gaffe. Ed è a causa di una gaffe che ebbe inizio la mia amicizia con Mario Dondero.

Eravamo entrambi a Cagliari, ospiti del festival “Marina Cafè Noir”. In una di quelle sere, a cena in un ristorante, mi trovavo a dover ascoltare e tradurre a tavola i noiosissimi monologhi di un ospite irlandese che viaggiava con me. Tra un suo soliloquio e l’altro, captai alla mia destra la parola “fotografia”: mi girai e, seduti a fianco a me, due leggende: Uliano Lucas e, alla mia destra, Mario Dondero. Ma con un piccolo particolare: nella mia enciclopedica ignoranza, non avevo la più pallida idea di chi fossero.

Mario mi si presentò con la sua affabilità, curioso di sapere chi fosse il suo vicino di tavolo e, non avendo io idea di chi mi trovassi davanti, gli feci la domanda più cretina, e a seguire imbarazzante, che potessi fare:

«Ho sentito prima … che lei fa foto?» gli chiesi.

Lui, con la sua proverbiale autoironia, il suo sorriso sagace ed astuto, mi rispose: « Un po’».

Quella mia gaffe fu, per dirla con una delle sue frasi, l’inizio di uno dei suoi corsi accelerati d’amicizia. Scoprimmo di condividere molte passioni, ma sopratutto l’arte della flânerie, il perdersi nei luoghi, nelle occasioni, cambiando traiettorie all’ultimo minuto, con il solo scopo di vivere le cose nel loro presente e nel loro esserci. La sera successiva venne al cinema a vedere Paradiso, il mio documentario girato a Derry in Irlanda del Nord, città dove lui venne a fare un memorabile reportage negli anni dei Troubles, la guerra civile nordirlandese.

Andai così a scoprire le sue foto alla mostra del “Marina Cafè Noir”, innamorandomi del suo stile fotografico, così identico a lui. Delle sue foto colpiva il rispetto che trapelava per chi era davanti all’obiettivo, eppure capace di dargli risalto, riconoscimento e identità, sia che fosse un contadino, Pasolini, Orson Welles o un nomade irlandese. Tanto da sembrare che fotografasse non qualcuno, ma sempre “con” qualcuno, in una invisibile ma percepibile empatia.

Così come non si curava del destino economico delle sue foto (tanti sono i suoi rullini dimenticati su treni, navi, bar), così Mario non percepiva l’amicizia come oggetto di scambio. Si dava appassionatamente.

E così, Mario Dondero divenne il più grande, generoso P.R. che io avessi mai avuto.

Iniziai a ricevere molte telefonate: «Salve, Mario Dondero ci ha parlato tanto del suo film …». Altre volte incontravo qualcuno che mi diceva: «Ah, ma lei è Alessandro Negrini? No, perché Mario ha fatto due scatole così a tutti parlandoci di ‘sto Paradiso…». E così, un po’ per fiducia nell’opinione e nel gusto di Mario, altre volte immagino un po’ per sfinimento, mi invitavano insieme a lui a presentare Paradiso in giro per l’Italia. Da lì iniziò la nostra amicizia, fatta di presentazioni insieme, incontri, telefonate, camminate, discussioni sulla politica, sulle donne ed il pensare progetti possibili, tra cui l’idea di un film su Mario e Uliano Lucas e sulla loro divertentissima amicizia. Rammento a Cagliari una splendida discussione tra di loro, sulla professione del “paparazzo”, con opinioni opposte, con loro due che discutevano punzecchiandosi con l’eleganza di un duello ottocentesco.

Per Mario Dondero il tempo non era denaro. Era un bicchiere da riempire di buon vino, di vita, di ritardi colossali, di deviazioni all’ultimo minuto, di incontri, tutti da bere con dolcezza, magari ingannando anche quel tempo, facendoci dimenticare con il suo charme che il vino ed il tempo prima o poi finiranno. A tal punto da farci rendere impensabile che il mondo potesse esistere senza Mario esattamente come Mario senza il mondo.

Una volta, a Milano, ci ritrovammo a passeggiare alla ricerca di un bar dove bere un bicchiere. Stavamo parlando della mia “non voglia di lavorare”. Ad un certo punto, ci passò a fianco una donna in bicicletta, la quale si fermò per raccogliere un pezzo di carta lasciato da qualcuno per terra, per poi posarlo in un cestino. Tu la guardasti, ti fermasti e, prima che lei se ne andasse, ad alta voce e con enfasi le dicesti: «Complimenti!». Chissà dove stava per andare quella ragazza. Ovunque fosse diretta, arrivò in ritardo, perché Mario decise di raccontarle un aneddoto. E poi un altro. E poi lei si fermò con noi, a bere quel bicchiere che cercavamo un’ora prima.

La sua curiosità per le persone era indomabile e ineludibile. Ogni partenza era un’avventura dagli esiti imprevedibili.

Una volta venne a prendermi all’aeroporto di Falconara. «Andiamo a Loreto», disse: «Ho sentito che c’è una troupe di peruviani». E così partimmo, con il suo fedelissimo amico Umberto, ed arrivammo nel piazzale del paese. Lì, ci infilammo in una scena a dir poco surreale, con tanto di acquario a fianco della piazza come parte del set, con all’interno un piranha. Mario avvicinò il produttore, un nano peruviano accompagnato da un’attrice altissima, e gli disse: «Buongiorno, posso permettermi di interromperla? Volevo darle il benvenuto. Ma lo sa che un mio amico sostiene che il piranha sia un gradevolissimo pesce se fatto al forno? Lei cosa ne pensa?».

Erano questi, immagino, alcuni degli aneddoti che avevano fatto di lui una leggenda, come la voce che, a Parigi, avesse fatto un intero servizio fotografico a tutta la Comédie Française, ma senza pellicola in macchina, perché allora costosa e lui con pochi soldi in tasca.

Mario che canta. Che ti rapisce senza fartene accorgere. Mario che ricorda anche alla persona più umile che la vera nobiltà è “l’insopprimibile umanità”. Eri una fabbrica vivente di interazioni umane, un patrimonio inestimabile di affabulazioni e divertimento. Un costruttore di castelli umani. Grazie a te nuove amicizie nacquero, come quelle con Antonello Murgia a Cagliari, con Nicola Loviento, Alfredo Ingino e Daniele Ficarelli a Foggia, con i quali condividiamo ancora una bellissima amicizia, la cui matrice generante fosti tu.

Io ti osservavo, mi chiedevo se a volte tu non ti sentissi solo, nomade ma sempre circondato da mille incontri. Una volta, in trattoria, te lo chiesi. «Ti senti mai solo, Mario?». «A volte, sì, mi è successo. Viaggiare ti rende libero, ma ti fa anche perdere pezzi di vita», mi dicesti.

Ma sempre agilmente e veloce sparivi, perché dovevi – come dicevi tu – fare un salto in Sicilia, o Parigi, o Genova. E ripartivi, camminatore instancabile, veloce e leggero come dicevano di Rimbaud, girovago dalle suole di vento. Per molti, sei stato anche tu un viaggio: vivere scoprendo Mario.

E ti osservavo, scoprendo le tue mille, dolci contraddizioni. Sempre in viaggio, inafferrabile e tuttavia lentissimo nel percorrere tre isolati, una vita per attraversare un viale, perché per raccontare un aneddoto ti fermavi, e fermavi chi era con te, appoggiandogli la mano sul braccio e proseguendo il tuo racconto, con tempi di percorrenza da tartarughe in viaggio.

Bambini che fumano a Derry – Mario Dondero (1968)

P.S. Quando meno me lo aspettavo, mi chiamavi: «Ciao caro, volevo sapere come stai». Poi, circa un anno fa mi chiamasti. «Dove sei, Alessandro? Perché se ti fa piacere io farei un incursione in Irlanda». Le chiamavi così, incursioni. Era parte del progetto pensato con Antonello Murgia: ritrovare le persone e i luoghi che fotografasti negli anni ‘70 in Irlanda del Nord e fotografarli nuovamente 40 anni dopo. La mostra sarebbe poi avvenuta a Cagliari accompagnata dalla proiezione di Paradiso. Poi, arrivò l’operazione che ha placato il tuo vagabondare, con la tua dolce e stupenda Laura Strappa a proteggere il vento che soffiava ancora nel tuo sguardo.

Ciao, carissimo amico. Proseguiamo senza di te questo viaggio, con nella borsa la cosa più preziosa che ci hai lasciato: la meravigliosa, delicata bellezza del mancarsi senza appartenersi. E tuttavia esser dentro un’appartenenza più grande. Perché siamo dentro un’enorme famiglia, i cui famigliari vanno cercati e scoperti ovunque, alla fermata di un autobus, in un ristorante, su un treno. Mi piace immaginare che ora siamo tutti lì, in qualche angolo di via, dimentichi della destinazione, ma parte di un racconto più grande, zeppo di ironia, umanità e avventura. A mettere in pratica il tuo amato “detour”, “ l’andar fuori rotta”, girando un angolo di via che non si pensava potessimo incrociare, la malia delle deviazioni inattese.

Forse siamo stati tutti, senza saperlo, una tua fotografia.

Enorme, dove ora tutti ci riconosciamo.

 

Alessandro Negrini pluripremiato regista e poeta italiano, nato a Torino, definisce se stesso un regista per errore. Prima di diventare un regista ha lavorato come bidello, venditore per un circo sconosciuto, guida illegale di un museo e fattorino di “Pagine gialle”. Ha trascorso gran parte dei tardi anni Novanta viaggiando in Europa e scrivendo, finché nel 2001 si è trasferito in Irlanda del Nord. I suoi documentari e cortometraggi, spesso legati ai temi civili delle esclusione sociali e della resistenza, hanno ottenuto un notevole riconoscimento internazionale con premi in festival di tutto il mondo