Marco Bellocchio, Pasolini e “I pugni in tasca”. Una scheda di Mauro Molinaroli

“Nave in bottiglia” è il titolo della nuova rubrica che su «PiacenzaSera.it» sarà curata da Mauro Molinaroli, giornalista e scrittore. Per la seconda puntata i ricordi lo hanno riportato all’anno 1965 e a Bobbio, nel piacentino, dove l’esordiente Marco Bellocchio girò il suo primo lungometraggio, I pugni in tasca. Fu un film manifesto, che in parte anticipò la contestazione del Sessantotto,  cogliendo nel  ribellismo anarcoide del protagonista Sandro i germi di una violenza trattenuta ma pronta a esplodere contro i limiti angusti dell’istituzione della famiglia e in assenza di modelli positivi a cui riferirsi. Era il ritratto di una generazione inquieta, che colpì anche Pasolini che con Bellocchio intrattenne nel 1967 un vivace scambio epistolare, poi premesso alla sceneggiatura del film edito da Garzanti e oggi leggibile anche in Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, vol. II, pp. 2800-2815. «Per finire questo nostro dialogo di isolati – concludeva Pasolini –  le auguro, come devono suonare le conclusioni, di turbare sempre di più le coscienze dell’Esercito, della Magistratura, del Clero reazionario, e insomma della Piccola Borghesia italiana, a cui abbiamo il disonore di appartenere» (cit., p. 2815).

Marco Bellocchio, Bobbio e “I pugni in tasca”. “Famiglia, maledetta famiglia!”
di Mauro Molinaroli

www.piacenzasera.it – 6 dicembre 2017

Bobbio era fredda, in quel grigio gennaio del 1965, un gennaio di neve e di brina e di notizie piccole, evanescenti, senza mordente. Era fredda per la temperatura rigida, anche troppo. Ed era fredda e curiosa nei confronti di quel ragazzo schivo, pieno di talento, inquieto e vincente che viveva a Roma, viveva di cinema.
Marco Bellocchio – pallido, bruno, arrabbiato – aveva deciso di girare il suo primo film proprio lì, in quella Bobbio che era una metafora della provincia italiana e che forse in quel periodo non sentiva completamente sua.

Bobbio (Piacenza). Il Ponte Gobbo
Bobbio (Piacenza). Il Ponte Gobbo

Quel film era I pugni in tasca e sarebbe diventato lo straordinario punto di partenza di una carriera senza eguali, il grimaldello di una love story con il cinema poeticamente altalenante, ma di inarrivabile coerenza. Fino a quel momento Bellocchio aveva girato in Valtrebbia due tesi per il Centro sperimentale di cinematografia, due lavori dedicati ai cimiteri e ai bambini, che contenevano già tutte le caratteristiche del Bellocchio più maturo, sospeso tra spregiudicatezza espressiva e grande tensione emotiva.
Ma stavolta non era una piccola prova, un cortometraggio, un esercizio di stile. Stavolta si trattava di un film vero, completo, che parlava sì di Bobbio, ma soprattutto della provincia maledetta e ostile dalla quale ogni giovane vorrebbe andarsene e della rabbia dei ragazzi usciti come proiettili dagli anni Cinquanta, dei tanti giovani Holden che volevano cambiare il mondo e la loro vita. Cinecittà si spostava sul Ponte Gobbo, bellissima architettura romana che d’estate fa sognare: puoi specchiarti nelle acque del Trebbia con la luna che si fa magia. E la curiosità in quei quattro mesi di riprese fu forte, sana, intelligente, senza eccessi.
Gli interpreti del film erano Paola Pitagora, Marino Masè, Lou Castel (vero e proprio alter ego del regista), Liliana Gerace, la scozzese Jeannie MacNeill, oltre a Gianni Schicchi, Pier Luigi Troglio (che con Bellocchio avrebbe poi girato altri tre film, La Cina è vicina, In nome del padre e Marcia trionfale) e Mauro Martini.
La troupe alloggiava all’albergo “Piacentino”. Dicono si facesse vita ritirata. A fine febbraio fecero visita sul set anche Walter Chiari e Ugo Tognazzi, incuriositi dalla personalità di Bellocchio e amici della Pitagora e della MacNeill. Il film fu terminato il 30 aprile, ma già se ne parlava. I giornalisti salirono a Bobbio cercando di capire quella vicenda di ribellione giovanile che anticipava il terremoto e le utopie del Sessantotto. Pier Paolo Pasolini l’avrebbe poi definita un’opera in «prosa che sfuma continuamente verso forme di espressione di tipo stilisticamente poetico». Un’opera in cui si esalta «l’anormalità contro la norma del vivere borghese, contro le istituzioni». [cit, p. 2802, ndr.].

"I pugni in tasca" di Marco Bellocchio
Lou Castel nel film “I pugni in tasca” (1965)  di Marco Bellocchio

“I pugni in tasca” – Trama
La storia si svolge in una grande casa sull’Appennino piacentino dove quattro fratelli, tre maschi adulti e una giovane donna, vivono con la madre, anziana vedova cieca. Augusto, il fratello maggiore, è l’unico ad avere una vita lavorativa e sociale: fa l’avvocato, ha una fidanzata, vede gli amici a Piacenza e lì frequenta regolarmente una prostituta per soddisfare i propri bisogni sessuali. I suoi fratelli invece quasi non escono di casa. Uno, Leone, poiché minorato e incapace di gestire la propria quotidianità; l’altro, Sandro, apparentemente normale, o, meglio, capace di controllarsi grazie ai farmaci contro il male che affligge la famiglia, l’epilessia, ma chiuso nell’universo della casa e della propria stanza dove nutre morbose fantasie d’amore e morte. La sorella Giulia si vuole ora alleata al fratello maggiore, rappresentante del potere in casa, conservatore e superficiale, ora complice di Sandro nelle atmosfere claustrofobiche degli interni.
Sandro medita una strage in cui la famiglia incontri la morte per mano sua e lasci libero il solo Augusto di vivere la propria vita nell’agio. In occasione di una visita al cimitero in cui egli si mette alla guida dell’automobile di famiglia, lascia un biglietto con la propria confessione e parte con la madre, la sorella e il fratello malato su di una strada che potrebbe facilmente condurre ad un dirupo. Al momento cruciale però ferma l’auto e la famiglia torna a casa ed alla vita di sempre.
In realtà la distruzione è solo rinviata: in breve tempo Sandro prima uccide la madre, sospingendola in un burrone, e annega poi il fratello Leone nella vasca da bagno dopo avergli somministrato una overdose di farmaco. Durante le esequie della madre confessa a Giulia di averla uccisa lui. La sorella all’inizio non vuole credergli, ma, quando muore Leone, Giulia capisce e sviene, rotolando dalle scale. Soccorsa, rimane bloccata a letto per l’incidente. Il desiderio di affermazione e riscatto di Sandro sembrerebbe essere compiuto, ma la fine di un passato soffocante non rappresenta garanzie di futuro: il male è in agguato, e Sandro muore a causa di un attacco epilettico senza che Giulia vada in suo soccorso. [Fonte Wikipedia]