L’esplorazione agli inferi di De Martino e Pasolini, di Roberto Nistri

Sono passati cinquant’anni dalla morte di Ernesto De Martino e quaranta da quella di Pier Paolo Pasolini. Queste ricorrenze sono state occasione anche a Taranto, come nel resto del paese, di dibattiti e commemorazioni. Il 24 novembre 2015 la Libreria Gilgamesh ha ospitato la conferenza Pier Paolo Pasolini ed Ernesto De Martino. La discesa negli inferi,  mentre il 3 dicembre a Palazzo Pantaleo si è tenuta la tavola rotonda Omaggio a Ernesto de Martino a 50anni dalla morte. Un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie.
Su
www.siderlandia.it del 7 dicembre 2015 Roberto Nistri dà conto in modo acuto e con penna lucidissima di queste importanti occasioni culturali.

Da Ernesto De Martino a  Pier Paolo Pasolini: una difficile eredità
di Roberto Nistri
www.siderlandia.it – 7 dicembre 2015

Ci aiutano le conclusioni dell’ultimo festival della Filosofia tenutosi a Modena. Erede potrà essere chi, all’inizio, avverte la propria mancanza, la propria solitudine nei confronti del padre. Si fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. “Heres” latino ha la stessa radice del greco “Kheros”, che significa “spoglio”, “mancante”. Può ereditare solo chi  si scopre “orbus, orphanos”. Ereditare la ricchezza del passato: il primo comandamento di De Martino e Pasolini.
E’ salutare avvertire la nostra condizione di orfanaggio, ritornando sui passi di quei due viandanti che, camminando sull’orlo,  sul margine, sul limitare della strada, si sono affacciati nella zona oscura, scampando al pericolo della normalità e dell’ortodossia. Cercavano la luce nel buio, scaldandosi al calore dei fiammiferi, per ritrovare le parole messe da parte,  come mozziconi nei taschini (Vinicio Capossela).  Cavalieri di ventura, se “adventura” è un rivolgersi alle cose future. Hanno praticato la discesa negli inferi per conto nostro, come due sentinelle che ancora oggi ci avvertono del pericolo. Fortunati coloro che sanno riconoscere la buona eredità dell’Antropologo Sciamano e del Maestro Corsaro, seguendo le piste dei cercastelle.

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A 50 anni della scomparsa  di Ernesto de Martino, ricordiamo l’antropologo che volle restituire al mondo le “dimenticate Istorie degli ultimi”, quella umanità di scarto che abitava fra il deserto e la magia. Pubblicando nel 1959  La terra del rimorso,  De Martino faceva nascere l’antropologia italiana, proponendo  una revisione complessiva della cosiddetta “quistione meridionale”,  schivando ogni cedimento alla classificazione oggettivante e razzista dell’accademismo. L’antropologo intendeva riabilitare il tarantismo come simbolo di  un Mezzogiorno dell’anima. Tutta l’avventura spirituale di De Martino si è svolta lungo confini perigliosi. Sin dalla adolescenza rimaneva fascinato dall’irrazionalismo magico-religioso della madre, del tutto laica, ma “appassionata di  spiritismo”. Ventenne “fascista mistico”, non avrebbe mai dimenticato i giorni in cui “Hitler sciamanizzava in Europa”.  Intrecciava un rapporto con il professore Raffaele Pettazzoni che lo indirizzava alla storia delle religioni,  laureandosi con Omodeo sugli scongiuri eleusini. Più coinvolgente il rapporto con Vittorio Macchioro: archeologo, parapsicologo, studioso dell’orfismo, di cartomanzia e onirologia. Nei primi anni ’40 De Martino entrava nel giro crociano, facendo infuriare il suocero Macchioro, che gli aveva dato tutto,  compreso la figlia: trattato da rinnegato, doveva dolorosamente separarsi dalla moglie nel ’44.
Intanto  giungevano dalla Germania sollecitazioni esistenzialistiche,  raccolte dai giovani Nicola Abbagnano ed Enzo Paci: l’antropologo veniva colpito dalle riflessioni sull’esserci e sulla incerta presenza. Aveva riflettuto sul  Dasein  e aveva anche letto Proust. “Il primo straniero in cui m’imbatto sono io!”  Come avrebbe scritto Apolito, l’antropologia è “un modo di pensare noi  stessi come altri”.  Si aveva a che fare con l’esplorazione dell’umano esserci, una incerta presenza che doveva essere orientata verso la prassi. La sconfitta operaia del ’48, con Cristo sempre fermo ad Eboli, spingeva sempre più l’antropologo ad assumere il punto di vista del suo “bracciante di Minervino”. S’imponeva la figura dell’Antropologo Democratico come contraltare dell’intellettuale alto-borghese, ma soprattutto del mediatore tradizionale: l’agenzia clericale. Etnologia contra  idealismo storicistico e spiritualismo cattolico. Nel 1948 Carlo Ginzburg avrebbe considerato  Il mondo magico un libro dell’anno zero: il problema dei poteri magici che sfidavano le  categorie giudicanti della ragione occidentale, che condizionavano lo stesso osservatore. In realtà De Martino rimaneva ancora  ai margini: non preso sul serio dagli esistenzialisti, considerato con sufficienza dai crociani e allontanato dagli esoteristi. Continuava i suoi studi di psichiatria, psicoanalisi e parapsicologia. Nel  1951 entrava con convinzione nel Partito Comunista,  magari coprendosi con l’autorevolezza degli studi di Gramsci sul Folklore. La chiave antropologica: “Il mondo popolare subalterno costituisce, per la società borghese, un mondo di cose più che di persone”.

Ernesto De Martino e Muzi Epifani in Lucania (1956)
Ernesto De Martino e Muzi Epifani in Lucania (1956)

Di recente lo studioso Giovanni Pizza ha argomentato in maniera molto persuasiva la robusta influenza del pensiero gramsciano su De Martino,  certamente riconosciuta dall’etnologo, che solo negli ultimi anni prese parzialmente le distanze. Veniva individuato nel campo religioso e politico il luogo privilegiato per comprendere le strategie di fabbricazione del consenso e l’approdo alla nozione di egemonia. Gramsci esortava allo studio antropologico degli intellettuali, anche della “cultura borghese”  (es. la jettatura). Sollecitava l’attenzione verso i modi di costruzione e distruzione della persona, attraverso “abitudini di ordine”: le strategie biopolitiche che avrebbe approfondito Foucault.  Giustamente il filosofo Esposito ha indicato  una triade molto plausibile: De Martino – Gramsci – Pasolini. Si delinea ancora una eredità preziosa per uscire da un cattivo presente con la costruzione di un progetto politico condiviso.
De  Martino, nel doppio ruolo di studioso e di funzionario di partito, aveva come referente  e vincolo il suo “popolo di sinistra”. Doveva muoversi su diversi piani di lavoro: l’emergente cultura di massa, ma anche il millenarismo di Davide Lazzaretti, il cui assassinio di Stato Gramsci definì “di una crudeltà feroce e freddamente premeditata”. Studiava anche il mito soreliano dello “sciopero generale”.  Bisognava svelare il piano ideologico e pratico-politico della grande cultura idealista, ma anche liberare gli studiosi non conformisti dalle gabbie della non creativa ortodossia comunista. Il filo conduttore rimaneva,  come ha indicato Carlo Ginzburg, il tema della corporeità occultata: una “quistione sessuale” potentemente sollecitata dallo stesso Gramsci.  Con Cesare Pavese, l’etnologo riabilitava il Mito,  secondo la formula  poi adottata  da Pasolini.  “E’ realista solo chi crede nel mito e viceversa. La realtà è intrisa di mito” (stranamente Pasolini ha avuto in uggia l’ultimo vero Mito dell’ultimo Novecento, quel ’68 di portata planetaria, dalla Germania al Giappone; di quella temperie, lui ha amato soltanto Allen Ginsberg). Con Pavese l’etnologo varava  la  “Collana viola” (che molti chiamavano “nera”, per una  vaga sensiblerie  stregonesca). Si mettevano in  circolazione testi antropologici considerati sospetti e  si subivano  le rampogne di Franco  Fortini : “Torbidume arcaicizzante.  Il diavolo si traveste da contadino”.
La collana si spegneva malinconicamente: lavorando con Einaudi si stringeva la cinghia. In un articolo su “Società”, Togliatti avrebbe definitivamente bollato l’etnologo come un “intellettuale decadente”. La frequentazione della zona oscura avrebbe reso l’antropologo un “diverso” rispetto alle  Accademie e allo  stesso Partito Comunista. Pavese, tormentato dai suoi demoni, lasciava la partita in  una cameretta torinese, con una overdose  di barbiturici.  Accompagnato dalla sua “nigredo”,  il malinconico antropologo giocava a scacchi con i  fantasmi.  Carlo Muscetta, che gli era amico, giurava di averlo visto sollevare una persona con la sola forza di concentrazione (Antonio Gnoli). Un allievo gli  aveva dedicato una canzone:  La ballata del marxista triste. Se Pasolini avrebbe mostrato tutto di sé,  De Martino viveva insegretito nelle sue ossessioni, scrutando i segni della “finis mundi”. Discutendo con lo storicista Antoni, l’antropologo si mostrava convinto che la crisi identitaria del popolo subalterno avrebbe riguardato anche le civiltà più evolute: non avrebbe mai abbandonato il tema della reificazione generale, della universale cosalizzazione delle persone.  La terra del rimorso non riguardava un isolamento locale, era la questione di tutti i sud del mondo o  almeno di  quella parte di esso  entrata “nel cono d’ombra del suo cattivo passato”.
Erano quelli i giorni delle lotte bracciantili, delle occupazioni delle terre.  De Martino si sforzava di entrare nelle case dei contadini pugliesi come un “compagno”,  un cercatore di uomini e di umane e dimenticate storie, che al tempo stesso spiava  e controllava  la sua propria umanità. Visitazioni probabilmente non molto fruttuose. Così Pasolini avrebbe percorso in lungo e in largo le pozzanghere delle borgate, cercando  in umbra lucis.  La terra del rimorso usciva nel 1961, in un centenario nel quale bisognava ancora fare i conti con i folkloristi “risorgimentali” che utilizzavano la nozione di popolo in quanto intellettuali organici alle agenzie dello Stato unitario. Come e più di Pasolini,  De Martino aveva colto la portata di una crisi epocale. La   riduzione della persona a oggetto materiale,  come utilizzo produttivo o rifiuto,  scarto sociale.

Fenomeno di tarantismo.
Fenomeno di tarantismo.

A partire dalla fatidica  spedizione in Lucania, studiando la gestualità performativa dei rituali curativi,  veniva alla luce il rituale simbolico del tarantismo: una   forma fluens che richiedeva la decifrazione del passaggio dal sintomo al simbolo. Una struttura “molecolare”, avrebbe detto Gramsci, con  le sue modalità terapeutiche, l’oscillazione esistenziale del primitivo, la figura dello sciamano,  capace di ricostituire l’equilibrio personale e il vincolo sociale, anche attraverso la figurazione del capro espiatorio, che doveva essere lo stigma di Pasolini
Mentre lo scrittore Longanesi si chiedeva: “ma i meridionali sono italiani?”, la trilogia demartiniana metteva in moto una nuova dimensione etica del meridionalismo e faceva del tarantismo il simbolo di una cultura  altra,  stretta fra emigrazione e possessione. L’antropologo lavorava sullo stato  alterato di coscienza,  sul complesso mitico-rituale che produceva  la moltiplicazione dei ruoli  e la decantazione della malinconia. Il mondo, egli diceva, ha più che mai fame di simboli per dire i suoi mali,  per lenire i suoi dolori.
De Martino era tormentato dalla distanza inquietante di quel corpo così vicino e così lontano, quanto una creatura aborigena. Una scheggia di un’altra storia,  non più nostra, avrebbe detto Pasolini. Lo scandalo di una faglia che impediva a due viventi  nella stessa terra di comprendersi,  e quindi la necessità, per lo studioso,  di autointerrogarsi su quella memoria remota di un binario morto del “progresso”.
Un passato arcaico che restava impresso nei corpi sofferenti del popolo contadino, nei gesti e nelle ossessioni di una umanità lontana dalle grandi direttrici dello sviluppo industriale. Con timore e tremore De Martino si misurava con la fattucchiera di Colobraro,  Maddalena La Rocca, dallo sguardo spaventoso: donna-uomo-animale, con le rugose braccia di rettile.  Renè Girard più di tutti ha studiato  lo scatenamento della violenza nel sacro e il dispositivo immunitario del capro espiatorio. L’antropologo trafficava  con l’irrazionale,  esplorava i misteri,  ma senza perdere la testa. Controllava la sua stessa ambiguità.  Manteneva  un’attitudine scettica nel suo essere aperto al possibile.  Il mito permetteva  ad un povero contadino, dal misero destino,  di trasformarsi nel grande dio delle messi, che moriva nella caccia sacra tra l’oro del grano e che nel grano era  destinato a rinascere.  Il fotografo Pinna immortalava la danza misteriosa di un mondo di ombre senza nome,  visioni di gironi danteschi e stregoni volanti, un Ade  perduto, popolato da divinità ambigue e terribili, fra l’ordine della tamburdera  e il disordine dei sonagli.
Una perturbante archeologia sociale fatta di sopravvivenze e di relitti culturali, come la  trance e il tarantismo: un fenomeno isterico compulsivo, un delirio organizzato, una sacra rappresentazione. Incominciava proprio nella terra di Puglia, spaccata dal sole e dalla solitudine, come diceva Salvatore Quasimodo,  la discesa di De Martino negli inferi di un Mezzogiorno che diventava per lui un labirinto mentale,  che si snodava fra il razionalismo e la nenia funebre delle lamentatrici scarmigliate: le “chiangiamuerte” che tanto avrebbero colpito Pasolini. Corpi di donne che nel nome portavano inciso il proprio destino: Annunziata, Crocifissa, Salvatora,  Gesuina.  Solo Pasolini sarebbe riuscito a filmare la propria madre ai piedi della croce.
L’antropologo viveva la crisi del proprio ruolo, in uno specchio che si fratturava in una differenza abissale,  nello scenario sorprendente di una danza magica delle donne dall’eros precluso, dal corpo mortificato. Donne che attendevano il proibito ritorno di Rocco e dei suoi fratelli , in viaggio da un lontano Nord, con le loro valigie di cartone. Donne che danzavano da sole, menadi disoccupate. Nel suo finire, De Martino si autoconfessava: “Senza che questo mi tolga la più piccola responsabilità, è da osservare che nei grandi periodi di crisi e di rinnovamento delle civiltà,  quando vecchi rapporti si dissolvono e se ne annunziano di nuovi, senza tuttavia poter dire che un nuovo ordine sia sorto,  sono frequenti uomini atipici, che violano tutte le norme. Io credo di essere uno di questi uomini”.
Eppure, senza saperlo, lo studioso che fino ai suoi giorni ultimi avrebbe anticipato l’incubo della “finis mundi””, della guerra globale permanente, doveva invece lasciare in eredità, a quelle ombre senza nome, un mondo altro, un tesoro danzante, un ritmo meridiano che, a distanza di anni, avrebbe arricchito quelle terre. Nel 1982 Gianfranco Mingozzi, a Galatina,  certificava l’estinzione delle tarantate. De Martino si è tormentato attorno a quella eredità culturale, assunta da un forte sentimento del tragico e destinata a ineluttabile scomparsa, che non doveva estinguersi per inerzia,  ma attraverso il “vivo lume della coscienza”. Quei  “relitti” dovevano affrontare la cosciente transformatio socio-culturale,  senza farsi travolgere dagli automatismi della modernizzazione. Rimaneva  uno straordinario Teatro della Memoria, depositario di simboli forti e rituali immaginosi, capaci di riattivare una storia inceppata e una mobilità sociale negata. Da terra del Rimorso a terra di Rinascita. Nelle stagioni delle radiose utopie sessantottesche, il Mito ultimo del ‘900, ritornava alla luce il reincantamento dionisiaco. Rina Durante avrebbe scritto: “Vado cercando musiche e musicanti per le terre dei padri… nel paese dell’eco che mi hanno detto risuonare di suoni,  canti notturni di suonatori erranti,  fra risentimento e sfinimento”.
Tamburi lontani e notti pizzicate.

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Ciò che è emerso può affondare e ciò che è affondato può riemergere. Nel Grand Hotel della Storia si sono incrociati i destini di due Maestri di Verità del ‘900 Italiano. Ambedue civilmente impegnati dalla parte dell’umanità minore, di quegli ultimi che sono sempre ultimi: il mondo a parte dei senza classe, dei senza storia, dei reietti.  Non cercavano la felicità, bensì la Verità. Due miti eretici sfuggiti all’ortodossia, frugavano nelle antiche origini e nella tradizione. Cercavano nuove parole nelle lingue morenti, nei dialetti senza dizionari. Conoscevano la potenza dell’Eros e la sua distruttività. Quando parlavano del sacro sapevano che esso era violenza, era follia,  sia pure la divina manìa di cui parlavano i Greci . Quel caos che alimenta l’amore e la creatività, un entusiasmo al quale bisogna abbandonarsi  per vivere un momento aureo che possa illuminare tutta una vita. Fuori dal cono d’ombra di un cattivo presente. Bisogna immergersi nel fondo per raccogliere la perla, ma si deve  anche riemergere per reincontrare l’altro e la comunità. La Verità è rischio e qualcuno ne resta sommerso.  Come De Martino, Pasolini voleva attingere all’Origine, ma  l’antropologo non si era mai sognato di idoleggiare i “bei tempi”. Pasolini avrebbe fagocitato tutto ciò che sapeva di corpo-natura:  da Rousseau a Rimbaud, da Foscolo alla tesi sul Pascoli delle Myricae,  fino al finto odiato D’Annunzio.  Amava il Mito e quell’uomo  greco che aveva avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore. Gli antichi sapevano bene che la Verità era nascosta nelle viscere degli Inferi. Questo Pasolini diceva a Furio Colombo, poche ore prima di sparire nella notte: “Si può essere grandi scrittori senza dover vivere tutto fisicamente, è vero, ma si fa molto più fatica a comprendere la società senza conoscere i corpi… Con questa vita io pago un prezzo. E’ come uno che scende all’Inferno. Ma quando torno, se torno, ho visto altre cose, più cose di voi. Come il signor Hyde, io ho un’altra vita”.  Il corpo rimane la misura di tutte le cose.

Pasolinisul set de "La ricotta". Foto di Mario Dondero
Pasolinisul set de “La ricotta”. Foto di Mario Dondero

Il mondo è un tessuto illusorio di contrari: padre e figlio, vittima e carnefice, ma anche violenza e mitezza. Pasolini aveva iniziato presto a scrivere della sua morte per prenderci confidenza: Il dì de la me muart. Aveva da scontare una pesante eredità. Il fratello partigiano ucciso da partigiani e lui, il sopravvissuto, l’uomo che doveva portare la croce: il profeta corsaro, martire, artista rinascimentale, bulimico e proteiforme, moralista e star, in una società dominata dalla omogeneizzazione e dal pensiero unico. Chi mai ebbe un reale e disinteressato amore per l’eresia? Ognuno proponeva la “vera” ortodossia.
Si allenava da ragazzo alla mimesi della Croce, si aggrappava con le braccia ad un cancello, sognava di essere appeso e guardato dalla folla. Partner sessuale di Cristo, fantasma di san Sebastiano, nello scambio con il fratello Guido,  da sempre preparato all’ultimo appuntamento. Vagheggiava l’arcadia ma in realtà compulsava i classici. Il suo essere visionario era capacità di produrre visioni davanti alla sua macchina da scrivere. Prendeva attori dalla strada, ma in realtà affollava il set con comparsate di intellettuali. Era uomo di libri e pedagogo. Riusciva a immedesimarsi  nella umanità rifiutata, nei luoghi del sottovivere.  La poesia era per lui quel  “qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita”. Come William Blake in Il matrimonio del cielo e dell’inferno, Pasolini scrutava un “abisso infinito”, rosseggiante nel fumo della città.  La sua eresia era lo scandalo della mitezza. Era l’uomo che non dormiva mai.
Diventa quello che sei,  era il comandamento di Nietzsche, ma anche di Giordano Bruno, il martire del libero pensiero. L’ultimo comizio d’amore per Pasolini doveva necessariamente svolgersi a Campo de’ Fiori, là dove il rogo arse.