Heiner Müller e Pasolini: un incontro a distanza, di Paolo Scotini

Il germanista Paolo Scotini recupera le tracce dell’insospettabile incontro tra la sensibilità mortuaria del grande drammaturgo tedesco  Heiner Müller, anti-Brecht per antonomasia, e Pasolini, valorizzato negli anni Novanta, a più di vent’anni dalla morte. Terreno comune a entrambi è la visione tragica della fine di ogni ipotesi rivoluzionaria o, almeno, ipotizzabile come alternativa all’ordine borghese. Accostiamo a questo interessante contributo un profilo di Müller, tracciato con acume interpretativo  da Anna Ruchat.

“Alì ohne Augen”: Heiner Müller legge Pier Paolo Pasolini
di Paolo Scotini

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C’è una scena nel teatro di Heiner Müller che colpisce per un’insolita partecipazione, un  accento patetico inusuale per l’autore tedesco. Nel finale di Germania. Tod in Berlin (1978) il “muratore errante” Hilse, der ewige Maurer, vicario dell’intera classe operaia, muore di cancro al termine della sua ultima opera, la costruzione del muro tra le due Germanie. Ormai sul punto di morire Hilse si rivolge a una prostituta che crede essere Rosa Luxemburg, risorta dal canale berlinese dove fu trovata morta – e quindi senza occhi («ohne Augen»):

[…] Und jetzt
Hab ich die Kapitalisten eingemauert
Ein Stein ein Kalk. Wenn du noch Augen hättest
Könntst du durch meine Hände scheinen sehn
Die roten Fahnen über Rhein und Ruhr.

La prostituta risponde:

Ich kann sie ohne Augen sehen – Genosse.
Die roten Fahnen – Über Rhein und Ruhr. (1)

Ma dove l’affermazione della prostituta dovrebbe valere come una conferma consolatrice essa rappresenta in realtà una negazione senza appello: solamente senza occhi è infatti possibile vedere la rivoluzione. La classe operaia – o meglio lo stato che avrebbe dovuto rappresentarla, la DDR – decide attraverso la costruzione del muro la propria simbolica quanto concreta sconfitta. Müller dichiara quindi definitivamente irrealizzabile la vittoria rivoluzionaria nel momento in cui la mostra in sogno. Analogamente, anche Pier Paolo Pasolini aveva registrato il fallimento dell’idea rivoluzionaria evocandola in extremis nella visione della poesia Vittoria (2) da Poesia in forma di rosa (1964), nonché nel sogno di Rosaura, protagonista del dramma Calderón, pubblicato nel 1973:

ROSAURA:
[…] cantando entrano gli operai. Hanno bandiere rosse
strette nei pugni, con le falci e i martelli;
hanno i mitra imbracciati […]
«Siete liberi» ci ripetono
come se noi non fossimo più in grado
di capire queste parole – «Siete liberi»

BASILIO:
Un bellissimo sogno, Rosaura, davvero
un bellissimo sogno. Ma io penso
[…] che proprio
in questo momento comincia la tragedia.
Perché di tutti i sogni che hai fatto o farai
si può dire che potrebbero essere anche realtà.
Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio:
esso è un sogno, nient’altro che un sogno. (3)

La trasposizione nell’ambito onirico – ovvero della proiezione del desiderio – dell’azione rivoluzionaria ne manifesta da un lato l’extrastoricità, ovvero il fallimento, salvandone però, in tal modo e dall’altro lato, il valore di necessità. La registrazione della definitiva sconfitta della prospettiva rivoluzionaria, o meglio della possibilità di una alternativa alla società borghese, è in effetti l’esperienza centrale che segna e collega – nonostante le distanze – i percorsi artistici di Pasolini e Müller, testimoni e parti in causa di un passaggio epocale irreversibile, vissuto e letto da entrambi in termini tragici. È da questo nucleo problematico che occorre partire per comprendere l’interesse di Heiner Müller per l’opera pasoliniana, interesse che ha segnato gli ultimi anni di vita del drammaturgo e che ha trovato espressione pubblica nella serata Pasolini al Berliner Ensemble, il 9 gennaio 1994, giorno del 65° compleanno di Müller, in cui, dopo la proiezione del film La ricotta, Laura Betti e Müller lessero in italiano e in tedesco alcune poesie di Pasolini. La serata, anche per il significativo intervento personale del drammaturgo, ha sancito l’importanza di un confronto con il poeta italiano che porterà Müller a progettare un dramma sulla figura di Pasolini, anche se questo progetto non avrà modo di arrivare in porto: il drammaturgo tedesco morirà due anni più tardi il 30 dicembre 1995. (4)

"Calderòn " (1981), film,  di Giorgio Pressburger
“Calderòn ” (1981),  film  di Giorgio Pressburger

L’omaggio al poeta italiano da parte di Müller ha portato in ogni caso alla luce una vicinanza che, osservata a ritroso, appare come una delle linee culturali più notevoli e complesse degli ultimi quarant’anni, una linea su cui si incontrano due intellettuali eterodossi e in particolare due Zivilisationskritiker che pongono in modo radicale la questione dell’esistenza sociale in una modernità che sembra non conoscere più conflitti o alternative.
Analogien allerorten (“Analogie ovunque”) titolava significativamente il suo articolo un recensore della serata Pasolini al Berliner Ensemble (5), registrando quindi – pur senza affrontare poi la questione – una profonda affinità tra il poeta italiano e il drammaturgo tedesco. Anche il regista Stanislas Nordey, nella prefazione al volume sul teatro delle opere complete di Pasolini, insiste su questo legame tra i due scrittori: «È notevole che ci siano degli autori che devono molto al teatro di Pasolini: Heiner Müller per esempio, si vede e lui stesso lo riconosce […]» (6). È evidente che questa ipotesi solleva però dubbi di carattere filologico, se consideriamo la scarsa ricezione in generale del teatro di Pasolini prima della sua morte – senza contare i drammi pubblicati postumi –, e che nel momento in cui esso viene “riscoperto” Müller aveva già scritto molte delle sue opere più importanti.
Resta comunque il fatto che, a causa di una serie di tangenze artistiche e intellettuali, una vicinanza tra il poeta italiano e il drammaturgo tedesco sembra presentarsi immediatamente come “naturale”, ovvia, sebbene questa relazione non si fondi, d’altro canto, né su un rapporto personale né su una tempestiva ricezione. Stupisce ad esempio il fatto che fino agli anni ’90 il poeta italiano fosse quasi completamente assente nei lavori e nelle numerose interviste di Müller, autore che non ha mai nascosto i propri debiti culturali. Eclatante in tal senso appare l’assenza di Pasolini nell’intervista autobiografica del 1992 Krieg ohne Schlacht, in cui Müller, parlando del suo rapporto con il cinema, cita solamente i registi Godard, Kazan e il Visconti di Rocco e i suoi fratelli. E sempre qui, in relazione al dramma Verkommenes Ufer Medeamaterial Landschaft mit Argonauten, del 1982, egli indica tra i propri punti di riferimento le Medee di Euripide, Seneca e Jahn, tralasciando un’opera centrale per la ricezione contemporanea del mito di Medea quale l’omonimo film di Pasolini.
In realtà non c’è dubbio che Müller abbia letto o “visto” tardi Pasolini, e che il ritardo abbia ragioni culturali interne e esterne. Fattore determinante di tale ritardo – se così vogliamo chiamarlo – è stato naturalmente il fenomeno di una ricezione di Pasolini che si svilupperà in Germania solo dopo la sua morte. Soltanto con la pubblicazione dei Freibeuterschriften, ossia dell’edizione ridotta degli Scritti corsari nel 1978, ben tre anni dopo la sua morte, Pasolini comincia ad essere intensamente tradotto e letto in Germania (occidentale), diventando ben presto un caso critico e un eccezionale fenomeno editoriale. (7)
Prima della pubblicazione dei Freibeuterschriften il Pasolini scrittore era stato quasi completamente ignorato nelle due Germanie, e non solamente dai lettori: poche le traduzioni [Vita violenta nel ’63, Teorema, 1969, e Affabulazione, 1971, ad Ovest; Il sogno di una cosa, 1968, ad Est(8)]), e scarsi erano stati anche i contributi critici. A ciò occorre aggiungere il fatto che il successo di Pasolini nella Bundesrepublik, dovuto soprattutto al particolare contesto sociopolitico alla fine degli anni ’70, non ha avuto un pendant nella DDR, dove comunque ricordiamo che, oltre al Sogno di una cosa nel 1968, erano apparse nel 1971 alcune poesie tradotte – circostanza piuttosto curiosa – da Günter Kunert. (9)
Ma, se consideriamo che tale scarto tra la ricezione a Ovest e ad Est era piuttosto irrilevante per un autore come Müller, che già a partire dal 1966 comincia a frequentare più o meno indisturbato l’Occidente (10), appare ancora più evidente che il ritardo nella lettura di Pasolini da parte di Müller vada cercato soprattutto in ragioni interne, tanto più che l’interesse del drammaturgo tedesco per il poeta italiano comincia a manifestarsi agli inizi degli anni ’90, come si è detto, quando anche il “fenomeno Pasolini” era nella Bundesrepublik già in una relativa fase di declino.
È in realtà indubbio che la ricezione di Pasolini da parte di Müller sia strettamente legata al passaggio segnato dal 1989. La scomparsa della DDR e l’occidentalizzazione del blocco sovietico rappresentano infatti per Müller una sorta di “fine della storia” che si ripercuote anche produttivamente nell’impossibilità di scrivere drammi. In un’intervista del 1991 Müller afferma:

Ich glaube, daß die Probleme und Konflikte der Mehrheit der Bevölkerung hier Gegenstand für Prosa sind, für Film und Fernsehen, was immer, aber nicht für Dramen. Das hängt natürlich damit zusammen, daß es keine Politik mehr gibt, weil es kein Feindbild mehr gibt. (11)

Non è quindi un caso che nel momento della scomparsa del blocco socialista, ovvero nell’ottica mülleriana di un’irreversibile reductio ad unum sociopolitica, Pasolini si presenti per il drammaturgo tedesco come punto di riferimento e identificazione, nel comune e radicale rifiuto di una realtà sociale di cui essi sono costretti a riconoscere la definitività.
Il concreto avvicinamento all’opera poetica pasoliniana da parte di Müller avviene probabilmente nel 1991, in occasione di un congresso romano su Walter Benjamin, al quale il drammaturgo era stato chiamato a partecipare. È in questa circostanza che Peter Kammerer, studioso e amico di Müller, gli fa conoscere la poesia Profezia, che affascinerà Müller a tal punto che il suo intervento al congresso si “limiterà” alla lettura di questa opera (12) e delle sue due poesie – dall’evidente richiamo benjaminiano – Der Glücklose Engel I II. Come è noto, Profezia è un ciclo di componimenti “in forma di croce” in cui viene evocata l’invasione dell’Italia e della conseguente rivoluzione da parte di giovani africani, guidati dal loro capo, Alì dagli occhi azzurri, «uno dei tanti figli dei figli» (13), simbolo di una umanità ancora non toccata dalla civiltà borghese. Considerato anche il contesto benjaminiano della lettura di Profezia da parte di Müller, tale lettura appare come l’indice di un approccio a Pasolini di segno utopico-escatologico che investe anche il concetto di “redenzione del passato” comune sia alla filosofia della storia benjaminiana che all’opera di Müller e Pasolini. Accanto a questa prospettiva, la poesia Profezia, con la presenza del “Terzo Mondo” quale unica alternativa a una borghesizzazione che coinvolgeva per l’autore anche le classi subalterne, si inseriva perfettamente nell’orizzonte intellettuale di Müller, che aveva trattato nei suoi lavori degli anni ’80 – si pensi al dramma Der Auftrag o al discorso Die Wunde Woyzeck per il conseguimento del premio Büchner – la rivolta del Terzo Mondo in termini non dissimili da quelli pasoliniani. La centralità di Profezia nell’orizzonte di interessi di Müller è confermata dal fatto che egli la farà tradurre e pubblicare nel 1993 sulla rivista «Sinn und Form»(14), che tornerà a leggerla nella serata Pasolini del 9 gennaio 1994 e che la farà infine stampare, nella traduzione di Kammerer, nel n. 11 della rivista del Berliner Ensemble da lui diretta, «Drucksache», in un numero dedicato appunto a Pasolini.
Per meglio comprendere senso e valenza dell’avvicinamento di Müller al poeta italiano è interessante osservare la struttura della serata Pasolini al Berliner Ensemble, costruita su un contrasto già anticipato dalla scelta del film tragicomico La ricotta proiettato la sera stessa. Come tutti i recensori hanno sottolineato, la serata presentava un doppio approccio a Pasolini: alla lettura appassionata e teatrale della Betti faceva da controcanto la dizione distaccata, a bassa voce, quasi piatta di Müller (15), il quale aveva anche ritoccato in questo senso alcune traduzioni delle poesie di Pasolini utilizzate per la lettura e tratte da edizioni già esistenti. Se si osservano le correzioni apportate da Müller alla versione di Toni e Sabine Kienlechner della poesia Fragment an den Tod, pubblicate nella rivista «Drucksache», vediamo che esse vanno nella direzione di una maggiore stringatezza e laconicità rispetto a una traduzione che sembra perfino accentuare alcuni eccessi retorici pasoliniani (16). Così «ich bin im Licht der Geschichte geschritten» diventa nella correzione mülleriana: «Ich ging im Licht der Geschichte», «Ich bin heil, wie du mich willst, / die Neurose verzweigt sich mir zur Seite» diventa «Ich bin gesund wie du mich willst, / die Neurose treibt ihre Zweige aus mir»; infine «sie [die Erschöpfung] wird meiner nicht habhaft» viene semplificata in «sie hat mich nicht» (17). E gli esempi potrebbero continuare.

Africa
Africa

Lo slancio utopico di Profezia, amplificato dalla lettura empatica e passionale della Betti, viene quindi a collidere con una laconicità che sottende, come vedremo, una componente funebre. Significativo è il fatto che Müller riprenda questo schema oppositivo nel numero di «Drucksache » dedicato a Pasolini. La rivista comprende poesie di Pasolini in traduzione tedesca, tra cui Profezia, e un saggio di Kammerer sulla valenza escatologica dell’opera del poeta italiano. Tale accento utopico-escatologico è contrastato da una evidente insistenza sul tema mortuario, tema che per Müller acquista in questo particolare momento un’accezione privata, in quanto la redazione del numero avviene nel periodo in cui Müller scopre di avere un cancro all’esofago. Il tema funebre è presente nel Frammento alla morte di Pasolini, pubblicato in traduzione tedesca con interventi a margine di Müller, nella poesia Traumwald dello stesso Müller, in cui l’autore sogna di essere ucciso da un suo doppio, e in particolare nell’apparato fotografico della rivista, che mostra su due foto affiancate il corpo e il volto di Pasolini dopo il brutale omicidio al campetto di Ostia. Interessante è il fatto, nella doppia prospettiva di cui si è detto, che le foto di Pasolini siano poste simmetricamente a contrasto, in altre due pagine della stessa rivista, con le foto di un bronzo di Riace (anche in questo caso una figura intera e un primo piano del volto). Nei due primi piani spicca la mancanza di occhi: praticamente assenti nel deturpato volto di Pasolini, mentre al bronzo di Riace manca un occhio solo. L’evidente simbolo mortuario – l’assenza di occhi – assume però una valenza particolare se consideriamo il fatto che la poesia Profezia stampata nel volume narra appunto la storia di “Alì dagli occhi azzurri”: il contrasto che si viene a creare implicitamente – e che può ricordare tra l’altro la nota caratterizzazione di Alessandro Magno – tra l’occhio azzurro e l’occhio nero, ovvero assente, si inserisce così nella serie delle mülleriane simbologie dello sguardo, venendo a coincidere con l’opposizione tra palingenesi rivoluzionaria evocata dall’opera di Pasolini e il suo controcanto mortuario.
Se la scrittura drammatica fondata sul conflitto era legata per Müller alla possibilità di un movimento storico, nel «tempo vuoto» [Leerzeit (18)] del post-Muro si dà solamente il sogno di una rivoluzione, di una prospettiva che si sa perduta per sempre. E il segno concreto di questa definitiva perdita è la morte del poeta o dell’intellettuale, paradigmaticamente raffigurata dall’omicidio di Pasolini (19) e presentata iconograficamente, come si è visto, nel numero della «Drucksache». È in questo contesto che Müller rilegge e rielabora anche letterariamente gli eventi dell’assassinio di Pasolini nella poesia Notiz 409, scritta nell’ottobre 1995, due mesi prima della morte e pubblicata postuma, un’opera nera, nervosa, composta da un susseguirsi di citazioni e dominata dallo spettro della morte imminente.
La poesia riprende uno dei luoghi centrali e insistentemente ricorrenti dell’opera mülleriana, ovvero la figura di Amleto, che il drammaturgo aveva già messo in relazione con Pasolini in un’intervista del 1981 a proposito del “caso” Althusser:

Mich interessiert der Fall Althusser als Stoff, nicht das Phänomen. Althusser interessiert mich, wie mich Pasolini interessiert, der Fall Pasolini, oder, das klingt zunächst gewiß merkwürdig, der Fall Gründgens – das Versagen von Intellektuellen in bestimmten historischen Phasen, das vielleicht notwendige Versagen von Intellektuellen. […] Für mich ist das immer wieder Hamlet, die Figur, die mich seit langem am meisten interessiert hat (20).

Dopo la caduta del Muro, per le ragioni a cui abbiamo accennato, lo Hamlet-Komplex torna ad assumere per Müller una nuova attualità, e viene a incrociare il crescente interesse per Pasolini. Nella poesia Notiz 409, che termina con l’evocazione dello sdoppiamento/morte dell’autore, l’impietosa indagine sul fallimento dell’intellettuale è svolta su una serie di casi sintomatici presentati in rassegna: Gründgens, Althusser, Heidegger e Pasolini, del quale viene descritto appunto l’omicidio:

Oder Pasolini

GIB MIR DEINEN ARSCH PELOSI ICH
WILL DEINEN DRECKIGEN
ARSCH SOHN ITALIENS
HURE VON MALBORO UND COCA COLA
GIB MIR DEINEN DRECKIGEN
Blutige Hochzeit
Mit der Klasse die die Zukunft trägt
Auf Schultern tätowiert vom Kapital
Die Morgenröte einer Nacht Die Nacht
Der Morgenröte
Dann legt Pelosi den Gang ein
Und fährt das Auto über den Besitzer
JETZT BIS DU VEREINT PAOLO MIT DEINEM ITALIEN. (21)

Il brutale assassinio del poeta proprio per mano della “sua Italia”, ovvero di uno dei tanti ragazzi di vita che popolano i suoi lavori – e verso il quale lo stesso Pasolini ha un atteggiamento estremamente violento –, diventa simbolo materiale della contraddizione in cui è costretta l’azione dell’intellettuale. Segno dell’identificazione seppur parziale con il poeta italiano è nei versi finali l’anticipazione della morte dello stesso Müller:

Das letzte Abenteuer ist der Tod
Ich werde wiederkommen außer mir
Ein Tag im Oktober im Regensturz. (22)

Ma oltre a questa corrispondenza appare interessante la definizione di Pelosi come «figlio d’Italia» [Sohn Italiens]: la figura del figlio, già presente in Profezia, dove Alì dagli occhi azzurri veniva appunto definito «uno dei tanti figli dei figli», ritorna qui nel contesto dell’omicidio di Pasolini. Si compone quindi un mosaico del rapporto tra Müller e Pasolini in cui la dialettica morte/utopia si intreccia con quella, in un certo senso analoga, tra padri e figli.  (23)
Questo complesso nucleo tematico si presenta ancora una volta, e in termini forse più espliciti, in Traumtext. Die Nacht der Regisseure, uno di quei “testi-sogno” in prosa poetica che caratterizzano la produzione dell’ultimo Müller. Il “sogno”, che richiama nel titolo i conflitti tra i cinque direttori artistici del Berliner Ensemble negli anni ’90, comincia in un caffè in cui il protagonista, Müller stesso, osserva il comportamento di alcuni registi. Con un brusco cambio di scena improvvisamente il protagonista viene a trovarsi in una periferia degradata: «Dann holt eine andere Wirklichkeit mich ein. Ich stehe auf einem schmalen Schlammweg zwischen Müll- und Schrotthalden» (24). In questo paesaggio è presente anche un giovane, il quale senza ragioni apparenti, si scaglia contro Müller. I due ingaggiano una lotta la cui descrizione sembra fondere un’icona ricorrente del teatro mülleriano, il Duello di Goya, una delle pitture della Quinta del Sordo (25), con la dinamica dell’omicidio di Pasolini: il giovane del testo utilizza come arma proprio un abgebrochenes Brett, un’asse rotta, quella “tavola” (26) con cui Pelosi avrebbe colpito Pasolini:

Er hebt ein abgebrochenes Brett vom Boden auf, es kann eine Zaunlatte sein, und schwingt es über seinem Kopf. Dabei führter in dem aufspritzenden Schlamm einen wilden Tanz auf. Dann erstarrt er für Sekunden […] holt weit aus und schlägt plötzlich zu. Ich kann den Schlag abwehren, aber ein Nagel, der aus dem Brett heraussteht, reißt mir die Handfläche auf . (27)

Nel testo Müller uccide il giovane, il quale, da morto, continua a seguirlo: «Ich drehe mich um und sehe meinen Toten auf Händen und Knien hinter mir herkriechen, sein Gesicht eine Maske aus Blut und Schlamm» (28). Nonostante questa immagine ricordi esplicitamente la foto di Pasolini morto, stampata come visto anche nella «Drucksache», l’identificazione del giovane del testo con il poeta italiano appare poco plausibile. Al contrario, sembra possibile ipotizzare che, sebbene con esito opposto (qui è il giovane a essere ucciso), lo scontro tra Müller e il giovane venga a coincidere proprio con quello tra Pasolini e Pelosi, sia quindi da leggere quale schema del particolare nodo tematico a cui abbiamo accennato, in cui l’ “identificazione” tra Müller e Pasolini si situa nel contesto della questione del fallimento dell’intellettuale e del rapporto conflittuale tra padri e figli. Aggiunge infatti Müller:

In meinen Kopf setzt sich ein wirrer Gedanke fest und geht als Schmerz durch meine Adern: sein Haß war der Haß eines Sohnes, der in dieser Welt den Vätern zusteht, gekreuzigt werden deine Söhne. (29)

Sia che si tratti di Alì dagli occhi azzurri, proiezione delle speranze rivoluzionarie in un futuro da cui i padri sanno di dover essere esclusi, che del figlio di Traumtext, in entrambi i casi i due giovani sono il simbolo di una rottura generazionale con il mondo dei padri che coincide con una precisa cesura storica. È su questa doppia opposizione – padri/figli e morte/utopia – che si costituisce, nelle sue diverse varianti, il rapporto tra Müller e Pasolini che segna l’ultima produzione del drammaturgo tedesco, in una continua tensione tra la registrazione di una “fine” (personale e politica) e una proiezione utopico-palingenetica trasferita nel mondo dei figli, dal quale egli è però irrevocabilmente escluso. (30)
Nella poesia Notiz 409, come abbiamo già visto, Müller mette in relazione l’omicidio di Pasolini con la propria morte imminente, in un nero finis che pare non lasciare spazio a uscite di sicurezza. Ma anche in questo caso sembra introdursi nella poesia un elemento escatologico che fa balenare una diversa prospettiva. Kammerer ricorda (31) che il numero 409 corrisponde a quello della camera d’ospedale in cui si trovava Müller all’epoca della stesura del testo. Ma per il discorso sviluppato fino a questo punto ci sembra interessante evidenziare un’altra realtà che filtra, verosimilmente in modo del tutto casuale, dal titolo della poesia: il numero 409 potrebbe infatti ricordare un autobus di Roma citato da Pasolini proprio nell’avvertenza posta ad epigrafe di Alì dagli occhi azzurri del 1965, tradotta in parte nella «Drucksache», quindi nota a Müller. Il 409 diventa così il “veicolo”, nel senso concreto del termine, di un’ultima visione:

I Persiani si ammassano alle frontiere. Ma milioni di essi sono già pacificamente immigrati, sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409, dei tranvetti della Stefer.
Che bei Persiani! Dio li ha appena sbozzati in gioventù, come i mussulmani o gli indù: hanno i lineamenti corti degli animali, gli zigomi duri, i nasetti schiacciati o all’insù, le ciglia lunghe lunghe, i capelli riccetti.
Il loro capo si chiama: Alì dagli Occhi Azzurri. (32)

Note
(1) Heiner Müller, Germania Tod in Berlin, in: H. M., Die Stücke 2, Frankfurt am Main 2001. ([…] E adesso / ho murato i capitalisti / un mattone un po’ di cemento. Se tu avessi ancora gli occhi / potresti vedere attraverso le mie mani sfolgorare / le bandiere rosse sopra il Reno e la Ruhr. […] posso vederle senza occhi – Compagno / le bandiere rosse – sopra il Reno e la Ruhr»)
(2 ) «Dove sono le armi? Non ritornano / i vecchi giorni, lo so, ogni aprile / rosso, di gioventù, è passato. / Solo un sogno, di gioia, può aprire / una stagione di dolore armato.» Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Milano 1976, p. 211.
(3) Pier Paolo Pasolini, Teatro, Milano, 2001, p. 758. E si veda anche il sogno di Julian in Porcile: «Alle volte, tutti questi contadini li sogno. Ma per una buffa illogicità della coscienza, / anziché vederli inoffensivi ed elegiaci, / stupidi e infidi, come sono, li vedo come eroi. / In testa c’è il Maracchione, divenuto rivoluzionario. / E dietro tutti gli altri, assiepati, con cartelli e bandiere rosse sventolanti. […] Si è levato un vento, dal profondo della Germania, / come da una terra di morti: così che bandiere e stracci / palpitano schioccando come vele. Vengono avanti / e niente potrebbe arrestarli», ivi, p. 625.
(4) Le tappe della ricezione di Pier Paolo Pasolini da parte di Müller, che intendiamo ripercorrere in questo intervento al fine di proporre alcuni spunti interpretativi, sono state ricordate da Peter Kammerer, in particolare nel volume Heiner Müller, L’invenzione del silenzio. Poesie, testi, materiali dopo l’Ottantanove, progetto a cura di P. Kammerer, Milano, 1996.
(5) Roland H. Wiegenstein, Analogien allerorten. Eine Séance zum 65. Geburstag von Heiner Müller, in «Frankfurter Rundschau», 11 gennaio 1994.
(6) Il corpo del testo. Intervista a Stanislas Nordey, in P. P. Pasolini, Teatro, Milano 2001, p. XLI.
(7) Sulle ragioni di questo successo cfr. Patrizio Collini, Il consumo di Pasolini in Germania, in «Belfagor», anno XXXVIII, 1983, pp. 231-238.
(8) Rimandiamo alla bibliografia di Thomas Blume, Pier Paolo Pasolini. Bibliographie. 1963-1994, Essen, 1994.
(9) All’interno dell’antologia Italienische Lyrik des 20. Jahrhundert, a cura di Christine Wolter, Berlino-Weimar, 1971.
(10) Cfr. Heiner Müller, Gesammelte Irrtümer 3, Frankfurt am Main, 1994, p. 77.
(11) Heiner Müller, Gesammelte Irrtümer 3, Frankfurt am Mai,n 1994, p. 131 («Credo che i problemi e i conflitti della maggioranza della popolazione qui possano essere oggetto interessante per la prosa, per il cinema, la televisione, o cose del genere, ma non per il teatro. Ciò dipende naturalmente dal fatto che non esiste più la politica perché non esiste più un nemico»).
(12) La traduzione di Profezia è quella – improvvisata per l‘occasione – di Peter Kammerer (il convegno è stato registrato su nastro: Walter Benjamin e il Moderno; convegno internazionale, Roma 13- 15 novembre 1991, Roma, Goethe Institut, 7 bobine).
(13) Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, cit., p. 97.
(14) Profezia, trad. di Thomas Martin, in «Sinn und Form», 2, 1993, pp. 230-236.
(15) L’evidente contrasto tra le due dizioni è stato rilevato da tutti i recensori come fatto saliente della serata. Si veda ad esempio la recensione di Arno Widmann sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» (11 gennaio 1994): «Appena [Laura Betti] ha cominciato a leggere le poesie è stato chiaro a tutti che qui stava parlando l’ “anti-Müller”».
(16) Il testo del Fragment an den Tod (Frammento alla morte, da La religione del mio tempo, 1961) era tratto dall’antologia Pier Paolo Pasolini, Unter freiem Himmel, traduzione di Toni e Sabine Kienlechner, Berlin 1982. Cfr. su questa edizione il giudizio di Karsten Witte che parla criticamente di una «traduzione spesso eccessivamente poetizzata » («oft überhöht poetisierten Übertragung») (K.W., Die Körper des Ketzers, Berlin 1998, p. 47).
(17) Pier Paolo Pasolini, Fragment an den Tod, in «Drucksache», 11, 1995, pp. 470-471. I passi citati corrispondono rispettivamente ai seguenti versi di Pasolini: «ho camminato alla luce della storia» e «l’esaurimento mi inaridisce, ma / non mi ha» (Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, 1976, p. 157 e p. 158).
(18) Heiner Müller, Die Gedichte, Frankfurt am Main, 1998, p. 319.
(19) La scena dell’omicidio di Pasolini è stata assunta anche da altri autori di lingua tedesca a nodo di riflessione artistica e rielaborazione poetica. Ricordiamo qui in particolare la versione della morte di Pasolini – con altre valenze rispetto a quelle mülleriane – di Peter Waterhouse nel poema Blumen del 1993 (cfr. l’edizione italiana: Fiori, a cura di Camilla Miglio, Roma 1998, pp. 21-22).
(20) «Mich interessiert der Fall Althusser…». Gesprächsprotokoll, in Heiner Müller Material, p. 25. («Il caso Althusser mi interessa come materiale, non come fenomeno. Althusser mi interessa come mi interessa Pasolini, il caso Pasolini, oppure, e questo potrebbe a prima vista apparire strano, il caso Gründgens – il fallimento di intellettuali in determinate fasi storiche, il fallimento forse necessario degli intellettuali […] Per me si tratta sempre di Amleto, la figura che ormai da molto tempo mi interessa maggiormente»)
(21) Heiner Müller, Die Gedichte, Frankfurt am Main, 1998, p. 320 («Oppure Pasolini / DAMMI IL TUO CULO PELOSI / VOGLIO IL TUO SPORCO CULO FIGLIO D’ITALIA / PUTTANA DELLA MALBORO E DELLA COCA COLA / DAMMI IL TUO SPORCO / Nozze di sangue / con la classe che porta il futuro / tatuato dal capitale sulle spalle / l’aurora di una notte la notte / dell’aurora / Poi Pelosi mette la marcia / e guida la macchina sopra il proprietario / ORA SEI UNITO PAOLO ALLA TUA ITALIA»).
(22) Ibidem («La morte è l’ultima avventura / Ritornerò fuori di me / un giorno d’ottobre sotto la pioggia violenta»).
(23) Superfluo ricordare il ruolo fondamentale che la tematica del rapporto tra padri e figli occupa nell’opera teatrale di Pasolini.
(24) «Poi un’altra realtà mi cattura. Mi trovo in uno stretto sentiero tra discariche di rifiuti e rottami». Le citazioni da Traumtext. Die Nacht der Regisseure sono tratte da Heiner Müller, Die Prosa, Frankfurt am Main 1999, pp. 136-140.
(25) «Der Schlamm saugt an meinen Schuhn» («Il fango risucchia le mie scarpe»): il particolare dell’affondare nel fango, nella descrizione di una lotta violenta tra due persone, rimanda immediatamente al quadro goyesco che Müller aveva utilizzato per una sua messa in scena del dramma Lohndrücker e che rappresenta una sorta di immagine archetipica del suo teatro. Cfr. Heiner Müller, Gesammelte Irrtümer 2, Frankfurt am Main 1990, p. 143.
(26) Cfr. Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Firenze, 1995, p. 22.
(27) «Solleva dal terreno un’asse rotta, potrebbe essere l’asse di uno steccato, e la rotea sopra la testa, facendo una danza selvaggia nel fango che schizza. Poi per alcuni secondi resta immobile […], solleva il braccio e improvvisamente colpisce. Riesco a parare il colpo, ma un chiodo che fuoriesce dall’asse mi lacera il palmo della mano».
(28) «Mi volto e vedo il mio morto strisciare dietro a me su mani e ginocchia, il suo viso una maschera di sangue e fango».
(29) «Nella mia testa si introduce un pensiero confuso e passa come un dolore attraverso le mie vene: il suo odio era l’odio di un figlio, l’odio che in questo mondo spetta ai padri, crocifissi saranno i tuoi figli».
(30) Anche il tema dei “figli” è legato per Müller a un avvenimento personale: nel 1992 il drammaturgo diventa infatti padre. La figlia, nata dal rapporto con Brigitte Maria Mayer, si chiama Anna.
(31) Heiner Müller, L’invenzione del silenzio, cit. p. 124.
(32) Pier Paolo Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, Milano,  1989, p. 515.

Heiner Müller
Heiner Müller

Heiner Müller: l’immagine del nemico
di Anna Ruchat

www.germanistica.net – 1°  agosto  2011

Nell’uomo esiliato
è nascosto un bambino
che vuole morire.

Heiner Müller, nato a Eppendorf, in Sassonia 19 gennaio 1929 e morto nella Berlino unificata il 30 dicembre 1995, Heiner Müller, discendente eretico di Brecht, multiforme interprete di quello “stato breve” che fu la DDR, è stato definito in un necrologio – con Samuel Beckett e Thomas Bernhard –“uno dei tre drammaturghi della morte”.
L’esperienza del tradimento e della colpa, l’umiliazione che genera la vendetta, sono il fondamento della vita e dell’opera di Heiner Müller, che è teatrale sempre, anche quando si tratta di poesia, di interviste o testi in prosa autobiografici. Solo così, distribuendo le macerie del proprio vissuto e del vissuto della Germania sui volti, nelle bocche e negli occhi dei suoi spettrali personaggi, Müller può procedere tra gli scenari devastati e spogli del lungo dopoguerra tedesco. Dando voce ai suoi sciagurati fantasmi, attraversando in sempre nuove declinazioni quella storia universale che è, nella sua visione ultima, un unico massacro senza fine, mettendo e togliendo le sue maschere, riesce infatti a dare forma a quel “sovraccarico di esperienza”, storica e personale, che ostruisce e nello stesso tempo alimenta il funzionamento della sua macchina artistica:

Il 31 gennaio del 1933 alle 4 del mattino, mio padre, funzionario del partito socialdemocratico tedesco, fu tirato giù letto e arrestato. Mi svegliai, oltre la finestra un cielo nero, rumore di voci e di passi. Nella stanza accanto, furono scaraventati a terra dei libri. Sentii la voce di mio padre, più chiara rispetto alle voci sconosciute. Mi alzai dal letto e andai alla porta. Attraverso la porta socchiusa vidi un uomo che colpiva mio padre in volto. Infreddolito, con la coperta tirata fin sul mento, ero di nuovo a letto quando la porta della mia stanza si aprì. Sulla porta c’era mio padre, dietro di lui degli sconosciuti, alti, con le uniformi marroni. Erano in tre. Uno di loro teneva la porta aperta con la mano. Mio padre aveva la luce alle spalle, non vedevo il suo volto. Lo sentii chiamare piano il mio nome. Non risposi e rimasi immobile. Poi mio padre disse: dorme.

L’episodio qui narrato risale al 1933,  Heiner Müller ha quattro anni e questa è per lui la prima esperienza del tradimento. Suo padre verrà rilasciato un anno dopo e arrestato nuovamente, anche se per breve tempo, nel 1940 per cospirazione contro il popolo. Subito dopo la guerra il padre di Müller riprende la militanza nel partito socialdemocratico diventa sindaco di Frankenberg (in Sassonia) ma, contrario alla fusione dei partiti socialdemocratico e comunista, nonché all’esproprio delle terre, ha seri problemi con le autorità russe e nel 1951 decide di trasferirsi in Occidente. Il tema del tradimento continua dunque a essere fondante per il ragazzo che, alla partenza del padre, sceglie di rimanere nella DDR per «settarismo e desiderio di vendetta a causa delle umiliazioni subite» ma anche perché nella DDR c’è la letteratura migliore: «Brecht, Seghers, Šolochov, Majakovskij. Non ho mai pensato di andare via», scrive Heiner Müller nell’autobiografia pubblicata in Germania nel 1992 con il titolo Guerra senza battaglia. Una vita in due dittature – un testo che uscirà in italiano presso l’editore Zandonai e che più di ogni altro illumina la sua esistenza, raccontando, in una sorta di tragicomica farsa, le ragioni dell’arte e delle scelte politiche, nonché l’appartenenza al destino della DDR: non drammatica, non passionale, semplicemente imprescindibile. Così Müller perde quasi completamente il contatto con i genitori, e quando nel 1961, poco prima della costruzione del Muro, li rivede a Tubinga, prova «solo estraneità». Un’estraneità che ha radici antiche: «E in effetti è così, dopo la prima separazione, mio padre, quando poi è tornato dal KZ [1934], in un certo senso è diventato per me un morto vivente», scrive Müller sempre nell’autobiografia.
Il padre diventa l’archetipo di quell’esercito di ombre che popola il suo teatro, dove la colpa intollerabile del tradimento viene reinterpretata all’infinito e trasfigurata in innumerevoli parabole della crudeltà che ricordano più Antonin Artaud che non il Santo patrono della DDR, Bertolt Brecht.
Eppure il faticoso inizio sulla scena è proprio nel segno di Brecht e dell’utopia socialista: nel 1951 Müller si trasferisce dalla Sassonia a Berlino, dove vive per diversi anni senza fissa dimora. Lì spera invano di essere preso nel Berliner Ensemble, la compagnia di Brecht, e scrive i drammi didascalici dal mondo della produzione, Lo stakanovista (1956) La correzione I e II (1957 e 1958, sulla costruzione del Kombinat Schwarze Pumpe).
Ma Müller non è un epigono di Brecht e la dinamite che avrebbe fatto saltare l’ordine disciplinato del realismo socialista era già presente in quei primi drammi: la tipica figura mülleriana del morto vivente che si solleva dai campi di battaglia per aggirarsi con una «cicatrice al posto del cervello» nella terra desolata dell’Europa postbellica è lo stesso «ordinario paranoide» che troviamo nei romanzi del primo Böll o nelle più recenti analisi di Sebald.
Subito dopo la prima e unica rappresentazione di Die Umsiedlerin (1961, da un racconto di Anna Seghers, che tra le altre cose riportava alla luce il tabù delle donne violentate dai russi nell’immediato dopoguerra), viene sottoposto a una sorta di tribunale degli scrittori; costretto a fare autocritica viene espulso dall’Associazione degli Scrittori, e per qualche anno non potrà più pubblicare. Müller, che nel frattempo ha sposato la scrittrice e giornalista Ingeborg Schwenkner (i cui genitori sono morti negli attacchi aerei su Berlino mentre lei stessa è rimasta per giorni e giorni sotto le macerie), si trova di nuovo a dover vivere nella precarietà, ai margini della comunità intellettuale, relegato, con la moglie, a scrivere sotto pseudonimo. Se per lui questa situazione è più o meno naturale, non lo è invece per Inge che cerca rifugio in innumerevoli relazioni extraconiugali e ripetuti tentativi di suicidio. «Nella stanza accanto tua moglie sogna il suo primo amore. / Ieri ha cercato di impiccarsi. Domani / Si taglierà le vene dei polsi o chissà cosa / Se non altro ha un obbiettivo davanti a sé», scrive Müller nella poesia Autoritratto alle due di notte il 20 agosto 1959. Inge Müller si uccide nel giugno del 1966.
«Abbasso la gioia della sottomissione» Dice Ofelia in Hamletmaschine. «Viva l’odio, il disprezzo, la rivolta, la morte»: una forma di realismo che sconfina nel surreale. Tradimento e colpa diventano una cifra di sopravvivenza.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, dopo la svolta verso il teatro classico e la rielaborazione dei miti in chiave contemporanea (con il Filottete 1964-65 e il Prometeo, 1967-68), il nome di Heiner Müller comincia a circolare sempre di più all’estero, anche fuori dai confini della Germania Federale. Così il volto ufficiale del drammaturgo, che è diventato emblema di un’insolubile contraddizione della storia, che si erge provocatoriamente a interprete del fallimento dell’utopia, riemerge tra mille incompatibilità anche nella DDR: nel 1970 Müller viene assunto al Berliner Ensemble, nel 1977 passa alla Volksbühne, nel 1986 riceve il Premio Nazionale di I Classe della DDR, nel 1988 viene riaccolto nell’Associazione degli Scrittori.
Dopo i miti è la volta di Shakespeare e del capolavoro, la Hamletmaschine (1977), un requiem per la DDR e per l’Occidente: «Io non sono più Amleto. Non recito più alcuna parte. Le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano il sangue alle immagini. […] Pietrificazione di una speranza».
Ma in realtà niente si fossilizza, niente rimane fermo in Müller, straordinario riciclatore di materiali, genio dell’assemblaggio: i suoi scritti sono in costante movimento – sia le pièce teatrali che le poesie vengono riprese e rimaneggiate sull’arco di tutta l’esistenza –, persino le interviste (in parte pubblicate anche in italiano nel bel volume della Ubulibri Tutti gli errori) non sono testi statici, seppure allineati su una «cronologia brutale». In qualunque punto la si colga, la sua produzione ci mostra l’inestricabile groviglio tematico e il gioco contrappuntistico tra i testi che si adatta a qualunque forma. Indagare i rapporti tra storia, mito e biografia permette di scoprire il gioco delle trasfigurazioni tra la temerarietà di Medea e quella della brechtiana Anna Flint, tra la purezza dell’angelo senza fortuna e quella della bambina, alla quale il padre vorrebbe augurare «per amore, una morte precoce», o ancora tra la moglie morta suicida e i pensieri di Ofelia o di Seneca, mentre troppo lentamente «il sangue abbandonava il suo vecchio corpo».
La fine della DDR nel 1989 significa per Müller una profonda crisi artistica. Il suo lavoro da quel momento in poi sarà segnato dalle regie e dal ruolo direttivo al Berliner Ensemble e alla Volksbühne. Sempre nel 1992 pubblica l’autobiografia: immediatamente attaccato per non aver detto di essere stato un informatore della Stasi, Müller risponde pochi anni dopo pubblicando, nella seconda edizione, i documenti che riguardano i suoi rapporti con la Stasi nonché un’intervista dal titolo C’è un diritto dell’uomo alla codardia. Il giornalista gli chiede degli incontri con un uomo dell’apparato, Müller racconta che si vedevano tre o quattro volte l’anno e parlavano di politica internazionale, racconta di aver chiesto una volta al funzionario: «Perché Lei parla con me?» e che il funzionario gli aveva risposto «Perché Lei rimanga qui». Poi il giornalista approfondisce e Müller racconta che su richiesta del funzionario aveva espresso il suo parere sulle misure da prendere nei confronti di un certo scrittore. «Carcere o estradizione». Müller aveva votato per l’estradizione. Allora il giornalista gli chiede: «E questa non era collaborazione?» «Cosa significa collaborazione?» risponde Müller «Io non ero dell’idea di rinunciare alla DDR, non ero per la riunificazione. Non mi sarebbe mai venuto in mente. Sapevo che non sarebbe durata a lungo, ma c’era questa illusione di Gorbaciov, la speranza che il sistema si potesse ancora riformare». Müller ha sempre potuto viaggiare molto, anche negli Stati Uniti, anche in Italia e il grande ciclo della sua produzione artistica, è un percorso a zig-zag, a cavallo di quello che lui stesso ha definito il «muro del tempo», il muro metaforico che ancora oggi nessuno ha abbattuto.
Negli ultimi anni, che sono anche quelli dell’affermazione pubblica e di un’insperata gioia domestica (la relazione con la fotografa Brigitte Maria Mayer e la nascita della figlia Anna) Müller si trova a fare i conti con un «teatro senza dittatura» che non si sa più a cosa possa servire. Nella nuova Germania unita il teatro è “mercato” come tutto il resto, come lo stesso accanimento dei giornali sulla sua “collaborazione” con gli apparati della DDR. Nel 1995 scrive l’ultimo dramma Germania 3. Spettri sull’uomo morto, «una pièce testamento», un collage di citazioni e autocitazioni, come scrive Jean Jourdheuil nell’introduzione all’edizione italiana del libro, «una pièce che non ha più destinatari».
Del resto già nel 1979 Müller aveva registrato così la propria fulminante parabola:

Sono l’angelo della disperazione. Con le mie mani distribuisco l’euforia, lo stordimento, la dimenticanza, piacere e dolore dei corpi. Le mie parole sono il tacere, il mio canto il grido. All’ombra delle mie ali abita lo spavento. La mia speranza è l’ultimo respiro. La mia speranza è la prima battaglia. Sono il coltello con cui il morto spalanca la sua bara. Sono colui che sarà. Il mio volo è la rivolta, il mio cielo l’abisso di domani.

Testi tradotti in italiano: Teatro I (Filottete, L’Orazio, Mauser, La missione, Quartetto), Ubulibri 1984 (rist. 1991, volume esaurito); Teatro II (Hamletmaschine, Vita di Gundling, Germania morte a Berlino, Riva abbandonata Materiale per Medea Paesaggio con Argonauti, La strada dei panzer), Ubulibri 1991; Teatro III (Lo stakanovista, Cemento, La battaglia. Scene dalla Germania, Pezzo di cuore, Descrizione di un quadro) Ubulibri 1998; Teatro IV (Germania 3 Spettri sull’uomo morto) Ubulibri 2001; L’invenzione del silenzio. Poesie, testi, materiali dopo l’Ottantanove, Ubulibri 1996 (fuori catalogo); Tutti gli errori. Interviste e conversazioni 1974-1989, Ubulubri 1994; Non scriverai più a mano, Libri Scheiwiller 2006.
[da Pulp Libri, novembre-dicembre 2009]

[info_box title=”Paolo Scotini” image=”” animate=””]nato a Cortona nel 1966, ha studiato Germanistica a Firenze e Colonia. È stato lettore di italiano all’Università di Bonn e si è occupato in particolare di poesia e letteratura tedesca del Novecento, con articoli, traduzioni e recensioni.  Attualmente collabora con diverse case editrici in qualità di germanista, traduttore e lessicografo.
Per la Tararà ha curato la pubblicazione de Le Alpi (1999) di Albrecht Von Haller e ha tradotto Senzaluogo Interlaken (2005) di Hans Ulrich Bänziger, La valanga e altri racconti (2009) di Meinrad Inglin nella collana “di monte in monte”.[/info_box]