Due contributi dalla pagina del gruppo facebook “Pier Paolo Pasolini”

https://www.facebook.com/groups/pierpaolopasolini/

15 settembre 2013

 

Pasolini e Gramsci

di Fede Chicca Caggio

Pierpaolo Pasolini è stato fino in fondo un intellettuale anche nel senso più aristocratico del termine; è stato sempre disperatamente un intellettuale, per una cronica incapacità di innestare il fervore e le intemperanze della sua passione per gli stati sociali più diseredati, frutto di una scelta poetica ed estetica prima ancora che politica, nella prassi concreta della lotta di classe.
Egli però non ha mai vissuto in privato le ansie e le contraddizioni che da quella condizione gli derivavano, ma le ha sempre buttate all’esterno con un coraggio e una sincerità a volte disarmanti, che vincolano i suoi interlocutori a una presa di coscienza e e una risposta non evasiva ai problemi suscitati.
La sua forza maggiore consisteva nel non scendere mai a patti con l’opinione comune, e questo non certo per il vuoto anticonformismo di chi vuole andare a tutti i costi controcorrente, o per crearsi fama di originalità nell’asfittico panorama culturale del nostro paese. Infatti, sia nel furore polemico dei suoi articoli, dove spesso rivelava un gusto del paradosso spinto all’eccesso, sia nella continua provocazione dei suoi film, un tempo pietra dello scandalo della critica cattolica e ultimamente avversati anche da sinistra, come nell’autocommiserazione della sua poesia, così ricca di accenti universali da diventare immediatamente un’accusa alla società, Pasolini ha sempre dimostrato di avere le carte in regola: non gratuito spirito di contraddizione il suo, ma il risultato di una consapevolezza che era andata maturando dolorosamente in lui, di fronte al progressivo svuotamento degli ideali della Resistenza e al contemporaneo abbandono di quel disegno di politica culturale che Gramsci aveva delineato.
La ricostruzione del paese ben diversa da come se l’era immaginata il leader comunista, con l’avanzata di un processo capitalistico che unificava sì le varie parti della penisola, ma col risultato di imporre ovunque gli stessi modelli di comportamento consumistici, supporto alla nascente industria nazionale, e di ottenere il graduale annientamento di qualsiasi tradizione culturale locale, lasciò un segno tangibile nella personalità di Pasolini.
Egli infatti avvicinatosi assai presto alla realtà popolare attraverso una ricerca serrata e linguisticamente molto approfondita sui dialetti, aveva partecipato alle vicende di quel particolare tipo di cultura dal di dentro, vivendo a contatto quotidiano con i braccianti friulani, nella giovinezza trascorsa a Casarsa, e con i ragazzi delle borgate, dopo essersi trasferito a Roma.
La sua produzione artistica divenne sempre più difesa rabbiosa di quei valori incontaminati, perché esclusi dal dominio della storia, che egli aveva individuato nel vitalismo sottoproletario e nella primitività del Terzo Mondo.
Troppo poeta per accorgersi che, così facendo, finiva per giustificare in nome di un ideale estetico quella stessa esclusione dei ceti subalterni dallo sviluppo storico, che ha costituito da sempre il punto di forza delle classi al potere, lo scrittore-regista era approdato negli ultimi anni al vagheggiamento di una società precapitalistica, dove la Chiesa fosse restituita al suo ruolo tradizionale di guida politico-culturale del popolo italiano e magari, con la chiusura della scuola media e l’abolizione della televisione, si facilitasse il ritorno a una perduta semplicità di vita.
Pasolini io l’ho conosciuto guardando i suoi film ed è stato attraverso i suoi messaggi disperati, la sua voglia di vivere, la sua rabbia e il suo amore, che ho sentito la necessità di approfondirne il pensiero!

© Fede Chicca Gaggio

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Pier Paolo Pasolini: «Un mondo pieno di futuro»

di Alessandro Barbato

«Il futuro di un popolo è nella sua ansia di futuro
E la sua ansia è una grande pazienza»

Pier Paolo Pasolini, Appunti per un’Orestiade Africana

Il 25 Agosto del 1960, Roma e l’Italia si apprestavano a mostrarsi, per la prima volta in assoluto anche attraverso la mondovisione, in occasione della cerimonia di apertura dei XVII Giochi Olimpici dell’era moderna. Un evento che aveva avuto una lunga gestazione, una complessa fase di organizzazione che verrebbe da dire stranamente, pensando alla realizzazione di analoghi eventi odierni, fu quasi del tutto priva di scandali e polemiche. Un appuntamento che sarebbe entrato nella storia del Paese che in quegli anni conosceva uno sviluppo vorticoso che in breve tempo ne avrebbe mutato radicalmente i costumi.
Più di ogni altro intellettuale italiano attento ai cambiamenti e agli stravolgimenti che coinvolgevano l’Italia, Pier Paolo Pasolini, in quel periodo, era alle prese con la realizzazione del suo primo film, il suo primo capolavoro, Accattone; e, da qualche tempo, in qualità di scrittore e intellettuale, teneva una rubrica, in cui dialogava appassionatamente con i lettori dei più disparati temi, sul settimanale “Vie Nuove”, fondato nel 1946 da Luigi Longo che in tal modo cercava uno strumento per avvicinare le masse alle politiche della sinistra italiana. Pasolini che, com’è noto, era anche un grande appassionato di sport, pertanto non si fatica a crederlo entusiasta quando la direttrice di allora di “Vie Nuove”, Maria Antonietta Macciocchi, gli propose di fare da inviato all’evento. In tale veste lo scrittore partecipò alla quasi totalità delle gare, scrivendo dei gustosi resoconti che, come suo solito, trascendono la cronaca per assumere i contorni di vivide, e anche un po’ provocatorie, analisi sociologiche.

Così, quel 25 agosto di tanti anni fa, eccolo presente alla Cerimonia di apertura dei Giochi, al cospetto di un mondo che sfila, «pieno di futuro», tra gli applausi del pubblico giunto nel nuovissimo Stadio Olimpico da ogni parte del pianeta. E Un mondo pieno di futuro sarà proprio il titolo di quel primo resoconto, pubblicato il 3 settembre del 1960. (Ora in P.P. Pasolini, Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, «I meridiani», Mondadori 1998, vol. I, pp. 1527-1531. *) In esso Pasolini guida il lettore, con un movimento che sembra quasi quello della macchina da presa, già a partire dal viale che conduce allo stadio, notando subito come l’idea di trovarsi in mezzo all’allegra e scanzonata folla che ogni domenica si raduna per assistere a un incontro di calcio, di cui tanto era appassionato, non corrisponda affatto alla realtà di quello che osserva:

“Intorno a me camminava con calma, e quasi in silenzio, una folla del tutto nuova: i vestiti insieme più vivaci e modesti dei nostri, le facce e i corpi meno belli ma più sani, i sorrisi senza ironia e senza volgarità, ma anche un po’ senza vita. Erano quasi tutti stranieri: tra loro galleggiava la testa di qualche romano, sperduto, col sorriso un po’ spento tra le labbra, come appunto deve essere un romano all’estero, con il suo estro come fossilizzato e fatto cosciente, e perciò falso, vecchio. I gelatari gridavano Ice-cream!”. (P.P. Pasolini, Un mondo pieno di futuro, op. cit., p. 1527.)

Anche dentro lo stadio Pasolini nota subito la strano ordine, così diverso dal clima di una partita di calcio, che regna nella moderna struttura. La stragrande maggioranza del pubblico è composta da stranieri, così accanto a lui, «punticino sperduto nel babelico ovale», non si sentono che parole straniere, «le più inafferrabili», simili a stridi di rondini, quasi come doveva apparire a un greco dell’antichità un qualsiasi idioma barbaro. Pasolini parla anche di facce anonime, facce simili a quelle «dei deportati a Buchenwald o a Dachau: per questo mi sono simpatici, […] non ho mai assistito a uno spettacolo in così rassicurante e fraterna compagnia.»

Maratona_Olimpiade_Roma_1960

Ma eccoci alla cerimonia, l’Inno di Mameli, l’arrivo del Presidente Gronchi. Pasolini racconta che la cerimonia si divide in due parti, molto diverse tra loro, la prima bella e anche commovente, per certi versi. La seconda brutta, «spiacevole». Sotto il sole che cala ecco cominciare la lunga sfilata delle nazioni partecipanti, sfilata che non somiglia affatto a un rituale macchinoso e arido, contrariamente alle previsioni. Apre la Grecia e chiude l’Italia, uniche, anche un po’ retoriche e fastidiose, eccezioni a quell’«istituzione meravigliosa» rappresentata dall’ordine alfabetico. Pasolini racconta degli applausi composti del pubblico, delle piccole trovate che ogni delegazione ha studiato per catturare l’attenzione della folla composta. Entusiasmo per tutti, solo la delegazione della Spagna franchista «spanderà intorno un certo disagio», con lo scrittore che non nasconde di provare una calorosa simpatia per quelle nazioni come il Ghana, la Liberia e, ancora di più, per le nazioni che si presentavano alla sfilata con delegazioni poco nutrite:

“Quelle piccole rappresentative, con la loro bandiera in testa, e per la maggior parte, incapaci di andare a passo di marcia, e con davanti i dirigenti, spesso pancioni e ansimanti, tutti sudati, man mano che si presentavano e passavano, diventavano qualcosa di enorme e imprevisto. Erano, veramente, tutta la loro nazione. Bastava il nome del cartello che li precedeva, e le loro facce quasi sempre umili, di gente modesta, spesso povera, perché l’intero loro mondo fosse evocato. Ed erano brani di storia contemporanea, vivi, come brandelli di carne, sorprendenti o strazianti. Il Giappone, Cuba, parevano portare dentro lo stadio, così puro, così anonimo, la concretezza vivente delle recenti battaglie, delle recenti morti, delle recenti passioni: ma tutto come purificato, diventato esperienza e dolore di ognuno di noi, e, come tale, superato, vinto dall’incalzare del tempo e della storia. Erano come improvvise ventate, una dopo l’altra: il distaccato, tranquillo riassunto, a passo di marcia, sotto lo sventolare delle bandiere, di tutta la nostra ultima storia. Che deve ancora farsi: e si farà, e richiederà nuove battaglie, nuovi morti, nuove passioni.” (Ivi, p.1529.)

Il racconto pasoliniano si fa accorato, l’apertura delle Olimpiadi sembra la metafora dell’inaugurazione di un nuovo corso nella storia della civiltà umana. Una parata in cui è presente, a così pochi anni di distanza da un conflitto mondiale che come non mai aveva stravolto il senso stesso dell’essere uomo, l’intero mondo. Un mondo «incandescente» e pieno di futuro, descritto con toni che ricordano quelli che successivamente il regista avrebbe utilizzato negli straordinari Appunti per un’Orestiade africana. «Un mondo che sarà così diverso da quello che ci siamo abituati a considerare nostro: perché gli uomini di colore sono liberi, perché gli stati più poveri cominciano una loro vita civile»; ma anche perché Usa e Urss sono a una svolta decisiva che li porterà a possedere il cosmo, «a riordinare in un’altra organizzazione questa terra».
L’entusiasmo di Pasolini si spegne rapidamente, quando la sfilata lascia il posto alla seconda parte della cerimonia, quella durante la quale il ministro Andreotti pronuncia il discorso di benvenuto:

“E credo sia difficile immaginare un discorso più retorico e provinciale del suo. E interminabile, poi: tanto da finire miseramente tra gli zittii generali. Non parliamo dei rari romani, che cominciavano a fare «Uuuuuh!», «E piantala!», ma degli stranieri stessi, che, benché educatamente, davano segni di impazienza: veramente non riuscivano a concepire il filo conduttore di tanto municipalismo, di tanta povera retorica, di tanto ovvio orgoglio per l’opera svolta, che riduceva Roma (che noi, lo so, abbiamo visto prepararsi con tanto affanno) a un capoluogo di provincia.” (Ivi, p.1530.)

Un discorso che deve aver davvero devastato il cronista Pasolini, tanto che da lì in avanti il tono muta decisamente, con il racconto che prosegue con il resoconto delle fasi più insopportabilmente “retoriche” della manifestazione: l’esecuzione dell’Inno olimpico, l’ingresso della bandiera olimpica, le tre salve di artiglieria, il volo dei piccioni e il suono di tutte le campane dell’Urbe. «Tutto ciarpame decadente e estetizzante, merce del peggior neo-classicismo e del peggior romanticismo», a cui viene assimilata anche l’accensione del sacro fuoco olimpico. Tuttavia la parte più sgradevole e pesante della manifestazione viene presto dimenticata, messa in un angolo come qualcosa che si deve stoicamente sopportare. Del resto:

“Ingoiare e digerire cose del genere è una nostra vecchia abitudine. Resterà la parte più bella: questa giovanile, colorita visione del mondo riunito in una pacifica sfida, questa evocazione dei momenti storici, come staccati dal male e dal bene, quasi pronti a far parte di una coscienza più alta e serena, quella che li giudicherà domani.” (Ivi, p. 1531.)

© Alessandro Barbato