Danilo Dolci e PPP. I ricordi di Goffredo Fofi

È recente la notizia con cui, non senza amarezza e spirito polemico, Goffredo Fofi ha annunciato la chiusura della rivista “Lo straniero”, da lui fondata e diretta per 20 anni. Si spegne una voce libera e controcorrente della cultura italiana che è stata, per usare le parole dello stesso Fofi  (in una lettera del 4 luglio 2016 su www.ilpost.it), l’espressione «di una minoranza informale e decorosa – minoranza sempre, ma attiva, e coerente e avvertita, curiosa e amante del mondo e bensì indignata dalle sue ingiustizie».
“Lo straniero” chiuderà a fine 2016 con il numero doppio di fine anno e con un ultimo numero speciale sulla sua storia non breve. Un’avventura culturale di cui, tra ricordi e riflessioni sul presente, Fofi ha ricostruito la vicenda anche in una bella intervista rilasciata al giornalista Alessandro Mezzena Lona (per “Il Piccolo” del 20 aprile 2016) durante una visita in Friuli Venezia Giulia, terra di autori e intellettuali cari come Danilo Dolci e Pasolini. 

Tra Trieste e il Friuli cerco le nuove rotte della cultura europea
di Alessandro Mezzena Lona

http://ilpiccolo.gelocal.it  – 20 aprile 2016

A Trieste, a Gorizia, in Friuli, Goffredo Fofi non è venuto a cercare quello che già conosce. Cioè la cultura mitteleuropea, le poesie di Umberto Saba, i romanzi di Italo Svevo, le tracce di Pier Paolo Pasolini. No, lo scrittore, critico cinematografico, autentica icona della cultura italiana “contro”, sta preparando per fine giugno un numero doppio della rivista “Lo Straniero”, che ha fondato lui stesso nel 1997. Ascoltando voci originali, discordanti, creative, racconterà le culture di frontiera in questo scorcio di terzo millennio agitato da incertezze e speranze, illusioni e incubi.
Nato a Gubbio, classe 1937, Goffredo Fofi a diciott’anni era già al fianco di Danilo Dolci. Pronto a combattere insieme al poeta nato a Sesana, il Gandhi italiano che si era trasferito a vivere a Partinico in Sicilia, le sue battaglie insieme ai disoccupati, i pescatori, chi non si rassegnava alla mafia.
Da allora, Fofi ha continuato a lavorare per creare in Italia una cultura alternativa a quella del consumismo e dell’omologazione. Fondando, insieme ad altri intellettuali, riviste importanti come i “Quaderni Piacentini”, “Ombre Rosse”, “Linea d’Ombra”. E a Napoli ha contribuito a dare vita alla Mensa dei bambini proletari per aiutare l’infanzia sfortunata.
Gran lettore, autentico rabdomante della letteratura italiana che ha guardato con simpatia e attenzione ad autori emergenti, oggi ormai affermati (Stefano Benni e Alessandro Baricco, Raul Montanari e Sergio Atzeni, Maurizio Maggiani e Roberto Saviano), Fofi è il critico e studioso che ha saputo raccontare L’avventurosa storia del cinema italiano attraverso i suoi protagonisti. In coppia con Franca Faldini, l’attrice e scrittrice che per quindici anni è stata la compagna del grande Totò, a cui Fofi ha dedicato una biografia memorabile.
«Il mio interesse per Danilo Dolci era nato da una serie di letture, di informazioni. Così avevo deciso di scrivergli e lui mi aveva risposto, dandomi appuntamento a Roma – racconta Goffredo Fofi, che ieri è arrivato a Trieste salutato dalla bora -. Era il periodo tra Natale e Capodanno del 1955. Poi siamo scesi in Sicilia e un mese più tardi è iniziato lo sciopero della fame collettivo per protestare contro la pesca di frodo. Tollerata dallo Stato, toglieva lavoro e sussistenza ai pescatori siciliani. Un mese dopo, a febbraio, a Partinico c’è stato lo sciopero alla rovescia. Centinaia di disoccupati si erano dati da fare per riattivare una strada abbandonata». 

Danilo Dolci
Danilo Dolci

Non andò a finire bene.
Intervenne la polizia a bloccare i lavori. Dolci venne arrestato insieme ad alcuni suoi collaboratori. Solo il processo, in cui a difenderlo fu il grande Piero Calamandrei, riuscì a scagionarlo. C’ero anch’io tra gli accusati. Ma dal momento che avevo appena 19 anni, e allora si diventava maggiorenni a 21, me la sono cavata con un foglio di via.

Cosa c’era scritto sulla motivazione?
Non dimentichiamo che quelli erano gli anni di Mario Scelba capo del governo. Quindi la motivazione non poteva che essere bizzarra. Diceva che insegnavo alla gente senza percepire stipendio. In pratica, mi accusava di fare concorrenza ai maestri di Stato.

Dolci parlava della sua infanzia triestina?
Era molto concentrato sul presente, non parlava volentieri del passato. Però qualche storia su Sesana, su sua madre slovena, sul padre ferroviere, su Trieste, sono riuscito a strappargliela. La cosa curiosa è che Dolci ogni anno bruciava tutta la corrispondeva. Ricordo una lettera, andata perduta, di Pier Paolo Pasolini.

Lo invitava a scendere in Sicilia?
Avevano molto in comune. La poesia, le battaglie civili, le radici cattoliche. Così Dolci aveva invitato Pasolini ad andare in Sicilia a lavorare con lui. Lo scrittore di Casarsa rispose: «Sono un omosessuale, nella società siciliana finirei per crearti solo guai».

Con Pasolini lei ha avuto incontri e scontri…
Per noi giovani di allora era un fratello maggiore. Come Italo Calvino, Leonardo Sciascia, Franco Fortini e altri. Ma era anche un provocatore. Ti metteva in crisi, distruggeva i luoghi comuni sui quali avevi costruito le tue idee. Gli eravamo riconoscenti per il coraggio, però ci faceva arrabbiare.

Il contrasto più forte?
Quando feci a Torino un’inchiesta sull’immigrazione dal Sud dell’Italia a Torino, Pasolini pensava che la classe operaia fosse ormai finita. Io ero legato al concetto forte dell’operaismo ed ero convinto fosse ancora una grande risorsa per l’Italia.

Cosa vi divideva?
Pasolini sosteneva che il mondo operaio fosse condannato all’alienazione del mondo moderno. Che fosse strumento di un sistema pronto a eliminare la civiltà contadina, a cui lui era molto legato. Io mi arrabbiai perché avevo visto a Palermo i bambini morire di inedia, cosa che per fortuna non toccava ai figli degli immigrati a Torino. E dicevo che quei giovani erano destinati forse a diventare omologati, però almeno sarebbero riusciti a campare.

Aveva ragione lui?
Adesso posso dire di sì, allora non ero affatto convinto. Pasolini parlava di sviluppo senza progresso e aveva ragione.

"Lo straniero"
“Lo straniero”, numero 193, 2016

Trieste quando l’ha scoperta?
Quando aiutavo Paolo Gobetti a fare una piccola rivista. Si chiamava “Il nuovo spettatore cinematografico”. Lui mi spedì a seguire il Festival della fantascienza a Trieste. Era la prima edizione, quella del 1963. La città la conoscevo soprattutto attraverso i libri di Italo Svevo, di Umberto Saba.

Di Saba ha sentito parlare anche tramite un’amica importante?
Dalla fine degli anni Sessanta ho letteralmente divorato i ricordi che Elsa Morante aveva di Saba. Un’autentica venerazione per il poeta del Canzoniere. Ricordo una sua difesa appassionata del romanzo incompiuto di Saba, Ernesto, che uscì sulla rivista “Nuovi Argomenti”. La scrittrice sosteneva che quel libro era nato da uno stato di grazia umano e poetico. Ci voleva un coraggio da leoni solo a pensarlo nell’Italia di allora, che non tollerava che si parlasse apertamente di omosessualità.

Il Festival di fantascienza le ha spalancato davanti nuove frontiere?
Ho sempre amato la letteratura “pulp”: gialli, fumetti, fantascienza. E sono convinto che chi ha frequentato le opere di genere in quegli anni ha reagito meglio all’invasione della post-modernità nel mondo attuale. Perché Vonnegut, Dick, Ballard, Silverberg, prevedevano già il nostro futuro, in qualche modo, usando la fantasia. Gli intellettuali di allora si spingevano, al massimo, fino a Agatha Christie. Ma il Festival di Trieste era straordinario perché sfondava il muro che ci separava ancora dall’Europa dell’Est.

Più di vent’anni prima che cadesse il Muro di Berlino…
Ricordo ancora i film di fantascienza russi. Magari iper-ottimisti, però interessanti. A volte ottimi. E un ceco, Fine agosto all’Hotel Ozon di Jan Schmidt, che raccontava un futuro post-atomico dove sopravvivevano soltanto donne. Un piccolo capolavoro che nelle sale italiane non è mai arrivato. Ecco, potevo vedere film unici in un posto, come Trieste, che è uno snodo europeo dove si fa la Storia. Lo vediamo anche adesso con le tensioni nei Balcani, il flusso di disperati in fuga dalle guerre.

Come andrà a finire?
Non mi aspetto molto dal Potere politico ed economico. Dai signori delle banche. E nemmeno dall’Europa. Ha perso da tempo la capacità di essere centro di qualcosa. Credo che Schuman, De Gasperi, Adenauer credessero sinceramente alla possibilità di realizzare una casa comune. Avevano creato il Mercato comune sperando che facesse da battistrada a una vera unione politica e sociale. Quest’idea è andata perduta.

Cosa insegue l’Europa?
Un sogno di ricchezza. Che prevede lo sfruttamento massiccio degli immigrati. Come dire che li vediamo far parte del nostro mondo soltanto se li possiamo utilizzare, a nostro vantaggio. In Germania si ripete quello che è accaduto con l’industria italiana negli anni della grande emigrazione dal Meridione. Non dimentichiamo che la Torino di oggi, nonostante la crisi, è una città più libera e vivace grazie alla gente del Sud.

Virgilio racconta che è stato un immigrato a fondare l’Italia.
Enea, fondatore d’Italia, era secondo Virgilio un profugo politico sbarcato da Troia. Perché la cultura italiana non ha mai il coraggio di ricordarlo?