A Roma “L’indecenza e la forma”: Pasolini segreto nella ”stanza della tortura”

Una feroce discesa teatrale nel sottosuolo dei rapporti tra il figlio Pasolini e i suoi genitori. Un affondo nel dramma segreto di legami familiari viscerali determinanti per il destino biografico del poeta tormentato. È questa l’audace prospettiva scelta dal drammaturgo Giuseppe Manfridi per lo spettacolo L’indecenza e la  forma, che, per la regia di Marco Carniti e  l’interpretazione di Francesca Benedetti, sarà in scena al Teatro Argentina il 13 febbraio 2017. Un modo lancinante per entrare nella “stanza della tortura” in cui Pasolini fu condannato a diventare eretico, come spiega il comunicato che qui di seguito pubblichiamo.    

All’Argentina di Roma “L’indecenza e la forma” sul Pasolini segreto
redazionale

www.adnkronos.com – 6 febbraio 2017

Ancora un viaggio nei gironi pasoliniani con L’indecenza e la forma (Pasolini nella stanza della tortura), nuovo testo scritto da Giuseppe Manfridi, per la regia di Marco Carniti, con protagonista Francesca Benedetti, in prima nazionale il 13 febbraio (ore 21) al Teatro Argentina, una produzione Teatro di Roma. Un melologo dove la scrittura si fa musica e la musica si trasforma in grido di rabbia. Un fiume inarrestabile di parole e di immagini a comporre un affresco pasoliniano feroce e disperato sul rapporto distorto tra madre-padre-figlio. Il testo si presenta con una struttura poetica dal ritmo densissimo che traccia un viaggio vorticoso nelle zone più infernali della vita di Pasolini, e che senza pudore entra nelle carni di quello che è stato il dato centrale della sua biografia.

"L'indecenza e la forma". Foto di Srdja Mirkovic
“L’indecenza e la forma”. Foto di Srdja Mirkovic

Il rapporto con la madre e con il padre. Un triangolo familiare che dal momento stesso della creazione, il parto materno, delinea un destino di ostacoli emotivi capaci di scardinare la psicologia, frantumandone la personalità e generando vuoto, solitudine e disperazione. L’indecenza e la forma è dunque un oratorio dissacrante che esplora i rapporti genitoriali. Un’elegia spietata sul potere all’interno della famiglia che si trasforma in un incubo feroce in cui Pasolini è vittima. Non un poema, come potrebbe apparire, ma un atto teatrale su carta per infiammarsi nelle carni dell’interprete e nell’incandescenza della scena. «Si sa, nella vita e nell’opera di Pasolini l’indecenza e la forma coabitano, confliggono e si mischiano per virtù alchemica in perpetuo, condannando il loro Prospero a quella stanza della tortura da sempre assegnata ai grandi eretici di ogni epoca. – dichiara Giuseppe Manfridi – In più, è come se a Pasolini fosse stato imposto di tirare su da sé le mura della sua cella, e di mettere punto con le proprie stesse mani gli strumenti destinati a seviziarlo».
«E lui lo ha fatto con uno scrupolo che a molti è parso masochistico, e non piuttosto l’atto sacro che fu.- aggiunge- Nel profluvio dei versi che compongono il copione, nei lacci delle rime e delle assonanze, nel rap dissennato che traversa facce, gole, miti e nervature, l’osceno ambisce a purificarsi, mostrandosi ansioso di una spietatezza che lo giustifichi, fomentando dialoghi estremi, fatali. Parla il poeta bambino e parla il poeta adulto, – prosegue nel suo racconto Giuseppe Manfridi -parla il padre delittuoso e la madre onnivora, parla il fratello caro agli Dei e parla Saturno divoratore dei propri figli. Parla la plebe e parlano gli amanti. E il loro parlare si traduce in lotta, la lotta si traduce in dramma, e il dramma tende alla sua catarsi. Il compimento di un’esistenza che, per paradosso, ha saputo domare il proprio fato accettando un’assoluta e definitiva sottomissione ad esso».
Un testo polifonico a più voci, dunque, tutte affidate a Francesca Benedetti, per un viaggio dal reale autobiografico a quel “romanzo mai scritto”  in cui Pasolini rivive i suoi rapporti con la madre e il padre in una sorta di incubo feroce, un “caos” involontario che lo porta all’autodistruzione.
«Una drammaturgia ipertrofica scomoda e respingente. – racconta il regista Marco Carniti – Un Pasolini capovolto che esce allo scoperto mostrando la parte più fragile di se stesso. Un vero e proprio sacrificio umano che si svolge davanti agli occhi del mondo fuori da ogni tipo di giudizio o giustificazione. Ho cercato di rappresentare ciò che è stato creato per essere solo ascoltato. Unendo sacralità e perversione in un laccio inestricabile. Un cordone ombelicale che strangola senza pietà un figlio-vittima, lasciando senza respiro sia l’attore che lo spettatore. Ho dato corpo e azione teatrale a un personaggio inesistente nel testo originale che rappresenta in senso fisico e metafisico il rapporto vittima-carnefice che si instaura tra madre-figlio e padre-figlio. Un testo che vuole superare tutti i limiti della decenza verbale e fisica, scompigliando le carte del nostro destino e generando il caos che ci coinvolge tutti».