Anche PPP nella cover “Bella ciao” degli americani Barbèz

di Pierfrancesco Pacoda
www.affaritaliani.it – 31 gennaio 2014

C’è una vivacissima scena creativa  newyorchese che da sempre subisce il fascino della cultura italiana, dal cinema alla letteratura, e in particolare di quella dei grandi scrittori che hanno segnato la nostra storia recente. Come è per Pier Paolo Pasolini, il poeta che ha ispirato il nuovo lavoro di Barbèz, la  band di Brooklyn guidata dal musicista Dan Kaufman, che tra l’altro è anche un giornalista del “New York Times”.
Il disco Bella Ciao (questo il titolo dell’album)  è stato pubblicato dalla prestigiosa etichetta Tzadik di John Zorn, uno dei padri  dell’avanguardia  sonora americana, che ha ammirato il lavoro di ricerca, in buona parte effettuato sul campo, sulla tradizione della musica della comunità ebraica italiana, una delle più antiche del mondo.
L’album suona così da un lato come omaggio a un patrimonio musicale che affonda le sue radici nel passato, dall’altro è ricco di citazioni dalle liriche di Pasolini (in particolare La Resistenza e la sua Luce)  e di Alfonso Gatto (Anniversario), altro grande poeta italiano. Il disco è così un racconto sulla Resistenza e sulla vita di ogni giorno per le vie di Roma, con una serie di canzoni dal fascino molto intenso, grazie alla partecipazione di eccellenti musicisti, tutti provenienti dall’avant garde jazz e dal nuovo folk americano, come è il caso della cantante Dawn McCarthy.

La band Barbéz
La band Barbéz

Una recensione alla cover Bella ciao
di Marco Biasio
www.storiadellamusica.it

Sem­bre­rà un con­tro­sen­so, e per certi versi (me­glio, per certe in­ter­pre­ta­zio­ni…) lo è, il fatto che un col­let­ti­vo di mu­si­ci­sti d’e­stra­zio­ne che più ebrai­ca non si può (con­trat­to sotto Tza­dik, se­zio­ne Ra­di­cal Jewish Cul­tu­re: quel che si dice lo ste­reo­ti­po del­l’e­stre­mi­smo) omag­gi, a modo suo, il canto sim­bo­lo della Re­si­sten­za rossa ita­lia­na, il gon­fa­lo­ne di trop­pi morti e trop­pe sof­fe­ren­ze  vi­li­pe­so a più ri­pre­se dal­l’u­na e dal­l’al­tra parte – come se l’in­no di chi do­ve­va spa­ra­re per spe­ra­re nuo­va­men­te in una li­ber­tà ru­ba­ta po­tes­se tra­sfor­mar­si ma­gi­ca­men­te in una danza al­co­li­ca.
Sem­bre­rà, per l’ap­pun­to, per­ché la sto­ria e la bio­gra­fia della dia­spo­ra sono on­to­lo­gi­ca­men­te molto più a si­ni­stra che a de­stra, se si ac­cet­ta un mi­ni­mo di scre­ma­tu­ra se­co­la­riz­za­ta da ap­pli­ca­re su un ter­re­no al­tre­sì im­pre­gna­to di mes­sia­ne­si­mo e mi­sti­ci­smo.  Im­pos­si­bi­le met­te­re in di­scus­sio­ne l’im­pe­gno cul­tu­ra­le dei Bar­bèz, crea­tu­ra mul­ti­for­me di Dan Kau­f­man che, per quan­to gra­vi­tan­ti at­tor­no ad una per­so­na­li­tà di­chia­ra­ta­men­te fi­lo­sio­ni­sta come John Zorn, sono cosa tan­gi­bil­men­te altra dal ge­nia­le sas­so­fo­ni­sta new­yor­che­se.
Prova lam­pan­te è Bella ciao, il se­gui­to del­l’e­sta­sian­te Force Of Light, ar­ri­va­to dopo un lungo pro­ces­so di stasi ed ela­bo­ra­zio­ne du­ra­to in de­fi­ni­ti­va sei anni.
Ispi­ra­to da al­cu­ni versi gio­va­ni­li di Pier Paolo Pa­so­li­ni e dalle li­ri­che di Al­fon­so Gatto, Bella Ciao è, alla resa dei conti, un con­cept album ma­ni­fe­sta­men­te po­li­ti­co, sin­te­tiz­za­to con ef­fi­ca­cia nella de­scri­zio­ne il­lu­stra­ti­va del­l’e­ti­chet­ta: “a po­wer­ful and tou­ching ho­ma­ge to the Ita­lian Re­si­stan­ce du­ring the pe­riod of Nazi oc­cu­pa­tion after the fall of Mus­so­li­ni” (buon com­plean­no al­l’in­fer­no, Eric Prie­b­ke). Temi fon­da­men­ta­li che l’I­ta­lia che suona, spe­cial­men­te negli ul­ti­mi de­cen­ni, non è stata in grado di tra­man­da­re e vei­co­la­re, e sui quali è riu­sci­ta solo a rie­vo­ca­re muffa sto­ri­ci­sti­ca e me­las­sa re­to­ri­ca della peg­gior spe­cie. Ol­treo­cea­no la si vede di­ver­sa­men­te – e per for­tu­na che le teste pen­san­ti, date con re­go­la­ri­tà in via d’e­stin­zio­ne, così estin­te forse non sono (an­co­ra). La cover di Bella Ciao, li­ri­ciz­za­ta con pa­thos d’al­tri tempi in una ruota di ar­peg­gi elet­tri­ci, vio­lon­cel­li tre­mo­lan­ti e stra­ti di the­re­min, non è  pe­ral­tro  nem­me­no lon­ta­na­men­te il mi­glior esem­pio della loro com­po­si­zio­ne, smar­ri­ta da qual­che parte, in pro­ie­zio­ne spa­zio/tem­po­ra­le, tra i bal­ca­ni­smi dei DAAU, il kle­z­mer, l’acid rock ed il jazz si­len­zia­to.
Force Of Light aveva ri­sve­glia­to su­per­la­ti­vi da tempo so­pi­ti. Bella Ciao non ar­ri­va a quel­le al­tez­ze, ma è in­ne­ga­bi­le che i Bar­bèz siano un’ec­ce­zio­na­le sin­go­la­ri­tà, in Tza­dik e – a mag­gior ra­gio­ne – nel pa­no­ra­ma mu­si­ca­le con­tem­po­ra­neo.
Par­la­va­mo pro­prio dei DAAU (Die Anar­chi­sti­sche Aben­dun­te­rhal­tung) come im­me­dia­ta pie­tra di pa­ra­go­ne sulla quale in­ci­de­re le pe­cu­lia­ri­tà sti­li­sti­che del­l’ot­tet­to ame­ri­ca­no. Qui l’ac­co­sta­men­to perde di forza e va­li­di­tà di­nan­zi al­l’in­de­fi­ni­bi­le ge­re­mia­de di “Shema Koli”, ar­ran­gia­ta con pi­glio da big band e di­sar­ti­co­la­ta da una straor­di­na­ria epo­pea free form; la dol­cez­za sa­cra­le di “Et Shaa­re Ra­tzon” dove il chi­tar­ri­smo sco­mo­da da vi­ci­no John­ny Gree­n­wood (si ri­sen­te pure il so­len­ne spo­ken word di Fiona Tem­ple­ton); lo stor­nel­lo di “Yedid Ne­fesh” in­to­na­to da Dawn Mc­Car­thy; una “Kamti Beash­mo­ret” che si lan­cia a ca­po­fit­to su tra­iet­to­rie surf, rim­piaz­zan­do i ri­ver­be­ri con cla­ri­net­ti e vio­li­ni; gli archi mi­ni­ma­li­sti del lan­gui­do con­ge­do “Chan­nun Kerov Ra­cha­mav”.
A sten­to si può par­la­re di tra­de­mark, visto come e quan­to le si­cu­rez­ze sti­li­sti­che ven­go­no ri­mes­se in di­scus­sio­ne: per­si­no un fram­men­to più ca­no­ni­co come “Umevi Goel” pren­de tutta un’al­tra di­re­zio­ne, non ap­pe­na il vi­bra­fo­no di Danny Tu­nick sfug­ge al con­trol­lo del gran capo e si in­vo­la, so­li­ta­rio, in un cre­scen­do pa­ros­si­sti­co.
Unico nel suo ge­ne­re (che ge­ne­re?) e con­cet­tual­men­te spes­sis­si­mo. Per quan­to non tutte le ciam­bel­le rie­sca­no col buco – è il caso di “Mi­z­mor Lea­saf”, la psi­che­de­lia for­ma­to si­na­go­ga con un re­ci­ta­to che, pur­trop­po, non scor­re age­vol­men­te –, di Bella Ciao ne sen­ti­re­te uno ogni cin­que anni. Jahvé ci salvi dalla mo­no­to­nia e dal re­vi­sio­ni­smo sto­ri­co.