Rara intervista a Pier Paolo Pasolini, nel 98° anniversario della sua nascita

Il 5 marzo del 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini. Oggi avrebbe compiuto 98 anni e per celebrare questa ricorrenza condividiamo l'intervista rilasciata da Pasolini a Elio Filippo Accrocca nel 1957, pubblicata su La Fiera Letteraria. Si ringrazia per la segnalazione Silvia Martín Gutiérrez, curatrice del sito Città Pasolini.

Che cosa fanno gli scrittori italiani? Dieci domande a Pier Paolo Pasolini

Di Elio Filippo Accrocca

[La Fiera Letteraria, domenica 30 giugno 1957 pp.1-2]

Due sono i posti più «pasoliniani» di Roma (così come ad altri appartengono Portonaccio o Trastevere, San Lorenzo o Tormarancio), entrati nella letteratura attraverso la via diretta del documento, della passione umana che da essi deriva per motivi diversi e per diverse suggestioni: Rebibbia, la zona cioè del carcere modello che sorge al di là dell’Aniene sulla Tiburtina, oltre Ponte Mammolo; e il Ciriola, il galleggiante sul Tevere sotto Ponte di Sant’Angelo, dove i «ragazzi di vita» si bagnano per intere stagioni, fino a quando cioè – divenuti adulti quel tanto da apparire «poveri ma belli» – prenderanno altre strade.

Sono anche i due posti che più fanno da cornice al nome e alla figura di Pasolini scrittore e quasi ne indicano gli estremi di un segmento entro cui si articola lo sviluppo letterario di questo giovane che sa egregiamente dividere il proprio tempo (il proprio temperamento) tra un salotto e un galleggiante, e non sai a quale dei due finiscano coll’andare le sue preferenze.

Sulle tavole del Ciriola, cariche di giovani bagnanti con gli occhi acchittati di acerba malizia, è avvenuta appunto la conversazione con Pasolini, di cui è uscita freschissima da Garzanti, l’attesa raccolta dei poemetti: Le ceneri di Gramsci.

Piazza di Spagna e Testaccio, Monteverde e il moderno penitenziario sono le zone urbane e preurbane (centro e periferia hanno perduto i propri confini) più ricorrenti e direi più emozionali nel nuovo libro di Pasolini, dove confessioni e contrasti, ricordi e sentimenti rispecchiano la lucida tematica storico-lirica che trova sfogo e compimento nella «stupenda e misera città» che ci avvolge con l’aria dei suoi quartieri e col peso delle sue tradizioni.

Per cui spontanea è sorta la prima domanda: Quale importanza ha avuto Roma nella tua esperienza personale e letteraria.

«Escluderei l’esperienza letteraria. Roma ha dato risultati letterari: Ragazzi di vita e Le ceneri di Gramsci. Ma non credo si possa parlare di esperienza letteraria. Roma è piuttosto eclettica e quindi una esperienza direttamente letteraria posso dire di averla vissuta in questa città così come avrei potuto viverla a Bologna, a Firenze, a Milano. Soprattutto a Bologna che è, come sai, la sede di Officina. Invece a Roma è stata fondamentale l’esperienza chiamata personale. E in quale senso lo sia stata lo esprimo nella seconda parte del Pianto della scavatrice».

Qui infatti (il poemetto è del ’56) – più che in altri parti del libro – Pasolini scava nel ricordo del suo Penitenziario, della sua borgata «tutta calce e polverone, lontano dalla città e dalla campagna», dove, «povero come un gatto del Colosseo» è vissuto per più di due anni tra lunghe camminate nella calda caligine e lunghi crepuscoli trascorsi davanti alle carte ammucchiate sul tavolo («era il centro del mondo, com’era – al centro della storia il mio amore – per esso»). Ma soprattutto, è questo – mi pare – il punto d’incontro e di contatto tra le pagine del romanzo e quelle di poesia.

E allora gli ho chiesto nel tentativo di allargare i termini della prima domanda: Quale importanza ha avuto tuttora Roma per la tua narrativa e per la tua poesia?

«Roma nella mia narrativa ha quella fondamentale importanza di cui parlavo prima, in quanto violento trauma e violenta carica di vitalità, cioè esperienza di un mondo e quindi in un certo senso del mondo. Nella narrativa Roma è stata la protagonista diretta non solo come oggetto di descrizione o di analisi ma proprio come spinta, come dinamica, come necessità testimoniale.

Anche quasi tutte le poesie delle Ceneri di Gramsci hanno come ambiente e paesaggio Roma. Però questo motivo è meno centrale. Forse avrei potuto scriverle anche in altre città, con dei cambiamenti puramente esterni».

Passiamo allora a considerare il rapporto tra «periferia» e «centro», cioè tra «vita» e «letteratura». Naturalmente per periferia e centro devi intendere il loro particolare e intimo sentimento.

«Questa diversa importanza fisica e immediata di Roma nella mia narrativa e nella mia poesia corrisponde proprio a questa antitesi tra periferia e centro. Il romanzo ha come ambiente determinante la periferia e richiede uno sforzo stilistico immediato, violento e vitale, in un certo modo irriflesso e mimetico. Quindi l’importanza del dialetto, del gergo: della vita.

La poesia ha come ambiente determinante, almeno idealmente se non sempre letteralmente, il centro di Roma e Roma in quanto centro. Il che implica un atto riflessivo, ordinante, non mimetico e linguisticamente selettivo».

Poiché a motivare questa intervista, anzi più che intervista dovremmo chiamarla «conversazione» amichevole conversazione nella suggestiva cornice dei «fiumaroli» col ponte alle spalle e quest’aria che tarda a rinfrescare, è stata proprio la pubblicazione di Le ceneri di Gramsci, vorrei chiederti: come consideri inserita nel Novecento la tua poesia?

Penso che la mia poesia s’inserisca nel Novecento secondo un atto di opposizione, in cui naturalmente sopravvive moltissimo della mia formazione novecentesca.

Vorrei riferirmi a un passo di Montale che diceva presso a poco che forse per molti anni la poesia tacerà e si scriverà prosa prosa prosa. Forse c’è in Montale un eccesso di tecnicismo nell’affermare questo, ad ogni modo resta confermato del Novecento un eccesso di poeticità ai danni del razionale, del logico, dello storico: cioè della prosa.

Il mio atto idealmente antecedente è stato appunto per quanto appassionato e indeciso un atto ideologico e non aprioristicamente estetico.

Questo implica un abbandono della pura poeticità tipica del Novecento e della sua lingua ridotta a una funzione, appunto, meramente estetica, e una riassunzione di stilemi apparentemente tradizionali ma in realtà preadottati in quanto meglio capaci di esprimere un pensiero o una passione ideologica.

Sul prossimo numero di Officina apparirà un mio breve scritto intitolato La libertà stilistica che tratta molto più ampiamente e chiaramente tutto questo».

Veniamo ora al problema della «giovane poesia»: quali ne sono secondo te gli sviluppi?

«Anche su questo argomento vorrei rimandarti a qualche mio scritto un po’ più esauriente, per esempio sempre Officina Il neoesperimentalismo. In genere i giovani mi sembrano o epigoni (pieni talvolta di rinnovata energia e anche di qualità) dell’ermetismo; o impegnati in un rinnovamento (neorealismo) che in questo momento mi sembra la fine della sua funzione. Esso è ancora carico di elementi irrazionali, passionali, lirico-religiosi, e quindi di sopravvivenze stilistiche ermetizzanti che potevano andar bene nel ’45 o subito dopo, non più ora. Ora va ricostruito un pensiero, una problematica, un discorso logico, in breve una nuova cultura».

Con Le ceneri di Gramsci quali risultati letterati ti sei proposto di raggiungere?

«Non mi ero proposto nessun risultato letterario. Ho espresso, spero abbastanza sinceramente, la problematica all’interno di un’anima, della crisi di una cultura, o di una cultura che cerca di rinnovarsi».

Qual è, secondo te, il rapporto tra poesia (o letteratura) e il sentimento politico attuale?

«Rapporti necessari non esistono se, secondo l’abitudine del critico novecentesco, si carica di valori assoluti e di una sua moralità ontologica la poesia; e si svaluta la politica ad atto puramente pratico.

Le cose invece non mi sembra stiano così, e io vorrei piuttosto ridurre la poesia entro limiti più umili e umani, e dare la sentimento politico una pienezza che investe l’intero modo di essere e di pensare. In tale senso la poesia non può essere  che una concrezione di questo modo di essere e di pensare».

Quali sono state le influenze più notevoli sulla tua formazione?

«La mia formazione è stata estremamente disordinata. Ho fatto l’Università durante la guerra, un’università mediocre e fascista. Devo eccettuare la figura di Longhi che è stata in quegli anni a Bologna di grande importanza per me e per molti miei coetanei o più anziani di me, come Bertolucci e Bassani.

Sono vissuto, poi, sprofondato nel dopoguerra nella solitudine del Friuli campagnolo, in una tremenda monotonia interiore. Poi sono venuto a Roma nel ’49 e ho avuto ben altro da fare che curare la mia formazione.

Considero (io praticamente non crociano), due i miei maestri: Gianfranco Contini e Gramsci. Spiegare questo apparentemente assurdo accostamento sarebbe troppo lungo, complicato e sottile. ti rimando ancora al citato articolo di Officina che uscirà sul prossimo numero».

Puoi dirmi qualcosa sui tuoi amici e sull’ambiente letterario che frequenti?

«Trovo che a Roma, dal punto di vista dell’ambiente letterario, si sta benissimo. Basta citare il salotto Bellonci e gli Amici della domenica. Gli amici con cui ceno più spesso nelle simpatiche trattorie di Trastevere sono Gadda, Bertolucci, Bassani, Moravia, la Morante (è contentissima per come le vanno le cose allo Strega), Citati, Penna. Ma naturalmente di amici ne ho molti altri. Pare che abbia anche dei nemici ma non so chi siano. Ogni tanto mi dicono che qualcuno parla male di me».

Gli ho risposto a mia volta, che molto spesso sono proprio quelli che gli vanno a riferire certe cose, naturalmente in maniera artefatta.

Non sono l’amicizia o l’inamicizia che contano, alla fine, per la poesia, semmai una certa rivalità (ma il termine non è esatto) che consente di far meglio, a chi ne è capace, il mestiere del poeta, di andare avanti, di continuare nella ricerca e nell’affinamento dei mezzi e dei modi per far della poesia.

L’ultima domanda: quali lavori stai preparando?

«Sto finendo un altro poemetto molto più lungo di quelli pubblicati nelle Ceneri, che si chiamerà La ricchezza. Sto terminando un lavoro critico che forse raccoglierò entro l’anno: un volume Dal Pascoli ai neoesperimentali. Per vivere sto lavorando come sceneggiatore, ma il lavoro che mi sta più a cuore in questo momento è il nuovo romanzo, di cui sono a metà, Una vita violenta».

Sul Tevere passa ancora, per la quarta o quinta volta, un motoscafo che fa traballare le tavole del galleggiante. Il sole pomeridiano si va spegnendo sulle cabine del Ciriola. Pasolini, in compagnia, risale a Monteverde per prendere lezioni di guida. Vuole andare a Viareggio con la 600.