Attesa per la prima nazionale della spettacolo Ragazzi di vita, che debutta alle 21 di mercoledì 26 ottobre 2016 al Teatro Argentina di Roma. Una sfida importante per il regista-attore Massimo Popolizio, che guida una piccola tribù di 19 interpreti, per lo più giovani, sulla partitura del primo romanzo romano di Pasolini. Un impegno anche sul piano della resa linguistica e un confronto sottotraccia tra i malandrini picari di borgate ormai perdute e le giovani generazioni tecnologiche del presente, come il regista confida in un’intervista rilasciata a Emilia Costantini alla vigilia dell’importante appuntamento, che apre la stagione dello Stabile romano produttore dello spettacolo.
La vitalità infelice dei ragazzi di vita raccontati da Pier Paolo Pasolini
di Emilia Costantini
http://roma.corriere.it – 24 ottobre 2016
«Mettere in scena Ragazzi di vita presuppone incoscienza e dall’incoscienza si può trarre qualcosa di promettente. Non è una trasposizione del romanzo in fiction. La letteratura conferisce libertà e grazie alla libertà questo materiale diventa teatrale».
Massimo Popolizio, che ha già dato ottima prova da regista al Teatro Argentina l’anno scorso con Il prezzo di Arthur Miller, ora sullo stesso palcoscenico si mette di nuovo alla prova con Pier Paolo Pasolini. Lo spettacolo apre mercoledì 26 ottobre 2016 la stagione dello Stabile capitolino, che produce il lavoro.
Uno stuolo di 19 giovani (età media 27 anni), e meno giovani (anche quarantenni), attori. «Ma non è una messinscena genericamente giovanilistica – avverte il regista – anche perché i “ragazzi” di cui parlava Pasolini erano già vecchi, perché erano persone che lottavano con la quotidianità, non avevano neanche i soldi per pagarsi il tram! Una vitalità infelice, la loro, e la cosa più commovente in quest’opera è proprio la mancanza di felicità: non c’è nulla di più struggente che ricercare la felicità nel canto. I ragazzi, infatti, cantano strofe di canzoni di allora, di Claudio Villa o Wanda Osiris…».
Tra i non giovani attori, Lino Guanciale, che ha il ruolo di narratore nell’adattamento che Emanuele Trevi ha fatto del romanzo. «La lingua usata non è il romano che sentiamo – continua Popolizio – ma è un romano inventato. E devo dire che, fra gli attori, proprio quelli che non sono romani se la cavano meglio con il testo, perché quella di Pasolini è una lingua e non il dialetto».
Protagonista è la non-scena: «Uno spazio immenso e vuoto – dice Popolizio – che è il contenitore della situazione e non è facile da gestire. Lo spettacolo è diviso in capitoli e il narratore ha il compito di portare la materia poetica dell’opera. Abbiamo usato del libro tutta la “ciccia teatrale” e abbiamo svolto un lavoro in progress. Abbiamo anche tagliato tanto, è stata una spremitura per arrivare a un nocciolo dove c’è humour. Non è infatti un Pasolini torbido, non c’è rappresentazione della sofferenza… L’unica scena violenta che abbiamo mantenuto è quella che lo scrittore demanda a dei cani, delle bestie: è l’unico momento penoso, per il resto c’è ingenuità, stupore verso quello che succede e che assomiglia più a un varietà».
Il Riccetto, Agnolo, il Begalone, Alvaro, il Caciotta, lo Spudorato, Amerigo… sono alcuni dei personaggi che emergono dalle borgate romane di periferia e che trascorrono le loro giornate alla ricerca di un po’ di soldi e qualche passatempo. «Pasolini pubblicò nel 1955 questo romanzo, che quindi rappresenta un primo Pasolini – osserva Popolizio – e cioè un friulano che arriva a Roma dove ha un impatto incredibile con una grande città, dove impara a vedere il mondo in una maniera diversa». I ragazzi di vita dell’epoca pasoliniana sono molto diversi da quelli di oggi. «Io ho 55 anni, non mi sento vecchio ma, rispetto alla gioventù attuale, mi sento un giurassico, avverto una profonda frustrazione rispetto all’invasione aggressiva della tecnologia. Un’invasione che è comunque inevitabile e inarrestabile: sarebbe come voler fermare gli attuali flussi migratori. La visione dei ragazzi di oggi, però, mi fa riflettere sul narcisismo imperante, il trionfo su facebook del “guardatemi come sono bello e bravo”. Forse, i ragazzi di oggi sono ancora più infelici di quelli di ieri».