Ancora una recensione alla trascrizione teatrale di Ragazzi vita curata per Teatro di Roma da Massimo Popolizio, con la complicità drammaturgica di Emanuele Trevi. Il fortunato spettacolo, in scena fino al 20 novembre 2016, suscita una qualche perplessità nel critico Michele Ortore che nel lavoro, pur pregevolissimo sul piano della resa spettacolare, intravvede il limite del calligrafismo indolore.
I ragazzi di vita di PPP nella contraddizione di Popolizio
di Michele Ortore
www.klpteatro.it – 18 novembre 2016
Sempre quegli occhiali da sole addosso. Nelle foto in bianco e nero, quando non sono nascoste nel cappotto, le mani stringono un taccuino. Lo sguardo attento, le partite a pallone tra cemento e fango.
Il corpo di Pasolini accanto ai bambini delle borgate romane resiste all’appiattimento dell’iconografia, alla monumentalizzazione. Pasolini andava lì a respirare la spontaneità che l’acculturazione stava spazzando via dal resto di Roma. Quando scrive Ragazzi di vita mette in prosa il frutto di quelle sue fughe, che qualcuno insisté nel ridurre a mera curiosità filologica e dialettale.
Massimo Popolizio, attore che ancora una volta sceglie di dedicarsi alla regia, scava – grazie alla drammaturgia di Emanuele Trevi – nel primo romanzo pasoliniano, per elaborare l’omonima resa teatrale e dare seguito a un percorso che l’ha visto negli ultimi tempi leggere Una vita violenta per la trasmissione “Ad alta voce” di RadioTre.
Per questa nuova produzione di Teatro di Roma Popolizio ha riunito un gruppo di giovani attori che, nessuno escluso, unendo la tecnica all’entusiasmo, sono sicuramente tra i punti di forza del lavoro. Si presentano sul palco seminudi, in larghe mutande bianche. Un candore puerile e pronto a deflagrare nelle ampie coreografie narrative attraverso cui il regista articola gli episodi dello spettacolo, ripresi e adattati dai capitoli del libro.
Gli attori recitano in un romanesco pregnante non solo nel lessico, ma soprattutto nella sua tipica sonorità raspata, che i giovani interpreti nelle prime battute esaltano fin quasi all’urlo, per poi trovare una più equa misura.
Popolizio riprende dal suo maestro Ronconi e dai suoi adattamenti di opere letterarie (ad esempio il Pasticciaccio da Gadda, ma anche Pornografia, uno dei suoi ultimissimi lavori) lo stilema del parlato in terza persona: non solo il narratore, ma anche i singoli attori accompagnano l’azione scenica con la sua descrizione o narrazione, estratte dal testo originale. L’effetto di “libro agito” non è mai didascalico, perché l’allievo ha ben imparato dal maestro a diluire con saggezza le variazioni sul tema.
Popolizio ha un approccio registico diametralmente opposto a quello che domina nelle messe in scena (non così rare) delle vere e proprie opere teatrali di Pasolini, come Porcile o Pilade: tanto in quelle si tende a divaricare la distanza quasi ascetica dei testi dagli automatismi drammaturgici, tanto qui Popolizio si aggrappa ai fili delle vicende del romanzo e li tira più che può, trovando una narratività molto più fluida e fruibile rispetto a quella, un po’ contratta, delle prose pasoliniane.
Un punto a favore, se guardiamo alla capacità di parlare a un pubblico vasto, è di “agire” sulla creazione di partenza, trasformando gli originali di Pasolini come si fa con qualsiasi altro grande autore, invece di continuare soltanto a iterare gli omaggi dovuti al santuario delle sue profezie. Ma è anche un’operazione estremamente rischiosa, perché a fare le spese dell’esplosività corale di questo spettacolo è proprio lo sguardo pasoliniano, quel pathos capace di oscillare tra eros e marxismo: la figura del narratore, seppur affidata alle grandi capacità di un attore come Lino Guanciale, rimane incastrata nella distanza degli abiti borghesi in cui il regista sceglie di presentarlo, più grillo parlante che presenza esposta agli eventi.
Dalle borgate messe in scena da Popolizio e dai suoi attori emergono sì il candore primitivo e l’ingenuità violenta, divampanti nelle sonorità grevi del romanesco e nella sua creatività linguistica, ma tutto ciò non crea conflitto nello spettatore, che anzi è tentato (in virtù di quello che Pasolini chiamerebbe spirito piccolo-borghese) di godersi le vicende con uno sguardo quasi folkloristico, senza avvertire quella tensione tra il proprio ruolo sociale, i propri privilegi, e l’anarchia della vita. Non si tratta di dover essere sempre seri e tragici, perché – come abbiamo detto – la volontà di reinterpretare Pasolini è senz’altro positiva. Per questo non si deve, però, nemmeno perderne l’essenza e cadere in ciò che PPP più osteggiava: il teatro come rito di conferma sociale.
Durante l’episodio del furto sul tram, i due ladruncoli mimano sul proscenio la corsa della loro fuga; il narratore si mette fra i due e, dopo aver dato un’occhiata rapida a entrambi, comincia anche lui a saltellare sul posto: un lazzo da manuale – molto ben riuscito – che ammicca con ironia all’incrocio tra i due piani drammaturgici; ma non è, appunto, soltanto un ammiccamento?
Un sintomo simile è sembrata, anche se su tutt’altro piano, la scelta di far recitare il sonetto Er cane di Belli al narratore, a mo’ di commento all’episodio appena concluso, che raccontava dei combattimenti clandestini tra gli animali: un inserto così evidente e sottolineato evoca una sorta di romanità affettiva, ma acuisce quel confine tra passato e presente che spesso lo spettacolo non riesce a valicare. Citiamo due particolari, ma forse sarebbe bastato dire dei vari brani di Claudio Villa cantati in assolo da alcuni attori, con il puntuale saluto degli applausi degli spettatori. Forse nelle borgate si cantava davvero Zoccoletti, ma qui i siparietti canori non sono certo motivati dal realismo.
Siamo di fronte alla contraddizione, insomma, per cui i Ragazzi di vita di Popolizio sono allo stesso tempo estremamente vivi e capaci di coinvolgere lo spettatore nella loro quotidiana e cinica lotta per tirare a campare, ma anche paradossalmente calligrafici, immobili nei formicai incarogniti delle borgate di un tempo, e incapaci di scuoterci verso chi, oggi, sono senz’altro i nuovi ragazzi di vita.
Sarebbe facile mettersi ora a moraleggiare, solo per dirne una, sui migranti e su come il disinteresse dei romani-per-bene verso i centri d’accoglienza sparsi per la Capitale sia lo stesso di sessant’anni fa verso il Tiburtino o il Prenestino. Ma è anche troppo facile e banale, per un lavoro così riuscito sul piano dell’efficacia spettacolare, limitare in una cornice evocativa e rivolta al passato la rappresentazione dei reietti e degli ultimi: da cui, se non ci si lascia toccare realmente ed emotivamente, si avranno sempre prima o poi delle brusche sveglie. Nelle borgate della Capitale come nelle miniere trumpiane degli Stati Uniti.