L’odore dell’India e Appunti per un film sull’India sono due opere di Pasolini che corrono su un binario parallelo. Per il loro tramite l’autore ha mostrato ai suoi contemporanei – e ancora oggi racconta a noi – le molteplici sfaccettature di un Paese, allora sottosviluppato, in cui regnava una povertà inimmaginabile. Ma nella raccolta di articoli e nel mediometraggio c’è qualcosa di più dell’intento cronachistico: anche in queste terre d’Oriente i volti e i luoghi sono il riflesso autobiografico di Pasolini stesso, e accanto all’immagine e alla parola concrete occhieggia sempre, sacra e vitale, la poesia.
L’odore dell’India, Longanesi, Milano, 1962
L’odore dell’India è il resoconto di un viaggio in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante a Bombay, New Delhi, Benares, Gwalior, Kajurao, Malabar, Calcutta. Pasolini e Moravia erano partiti nel dicembre del ’60, prima di Natale. La Morante li aveva raggiunti il 16 gennaio e non li aveva seguiti nella tappa successiva, il Kenya.
Al rientro a Roma Pasolini aveva cominciato a pubblicare sul «Giorno» una serie di articoli, confluiti poi nel volume apparso nel 1962 da Longanesi. Anche Moravia aveva ricavato dall’esperienza un libro, con titolo opposto e speculare a quello di Pasolini: Un’idea dell’india (Bompiani, Milano 1961). Un editore svedese aveva pensato di pubblicare i due libri insieme, ma il progetto era rimasto senza seguito.
Sul «Giorno» gli articoli di Pasolini erano apparsi tra febbraio e marzo: Uomini vestiti di asciugamani (26 febbraio 1961), Non conoscono l’allegria (4 marzo 1961), Il santone sembrava un capoufficio (9 marzo1961), È un mondo, un oceano o un inferno? (11 marzo 1961), Un popolo che esce da ombre atroci (16 marzo 1961), Il rogo di morti sul fiume sacro (23 marzo 1961).
Ne L’Odore dell’India Pasolini traccia una sorta di panorama geografico e sociologico del grande paese che visita. Il suo interesse, infatti, si incentra su tutti gli aspetti dell’India. Ad esempio, circa le condizioni di vita degli indiani, scrive: “La vita in India, ha i caratteri dell’insopportabilità: non si sa come si faccia a resistere mangiando un pugno di riso sporco, bevendo acqua immonda, sotto la minaccia continua del colera, del tifo, del vaiolo, addirittura della peste, dormendo per terra, o in abitazioni atroci”. E circa la loro religiosità: “Ho osservato tra gli indiani una religiosità generica e diffusa: un prodotto medio della religione. La non violenza, insomma, la mitezza, la bontà degli indù.”
Ciò che, comunque, nei vari testi, risulta letterariamente più vivo è il susseguirsi dei ritratti umani. Così il borghese indiano è “massiccio, corpulento, coi capelli che sarebbero bellissimi come quelli di quasi tutti gli indiani, se un barbiere benpensante non glieli avesse resi simili a due ali di corvo spezzate sulla nuca spelacchiata”. Sua moglie è “Grassa… con un po’ di peluria sul labbro superiore” e la figlia è “vestita all’europea, stranamente bruttina, che ride con la voce di un cattivo grammofono”. Il ritratto più intenso, e tragico, visto nel contesto del suo operare, è però quello di Madre Teresa di Calcutta, la suora che aiuta i lebbrosi: “Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili e l’occhio dolce, che, dove guarda, “vede”. Assomiglia in modo impressionante a una famosa Sant’Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica”.
Per il lirismo che la anima, le pagine de L’Odore dell’India sembrano più un frammento autobiografico che un semplice diario di viaggio. L’impressione che riportò di fronte a ciò che vide, del resto, fu tale che in seguito Pasolini girerà un documentario dal titolo Appunti per un film sull’India e coltiverà a lungo l’idea di un film sul terzo mondo che avrebbe dovuto intitolarsi Appunti per un film sul Terzo Mondo.
Appunti per un film sull’India, 1968
Alla Mostra del cinema di Venezia del 1968, insieme a Teorema, Pasolini presentò anche il mediometraggio Appunti per un film sull’India, girato nel dicembre 1967. Naldini spiega nella sua biografia pasoliniana (Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989) che tali “appunti” si riferivano sostanzialmente a un film da farsi “sulla storia di un maragià il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell’India); e, dopo la liberazione dell’India, sempre idealmente, la famiglia di questo maragià scompare perché i suoi membri muoiono di fame ad uno ad uno durante una carestia”. “Questa era l’idea del film”, spiegò Pasolini nel corso di una intervista. “Così sono andato in India a fare una specie di inchiesta per verificare se questa idea era attendibile o no.”
Pasolini aveva in un primo tempo progettato di realizzare un film sullo svilupparsi di una coscienza politica in alcune nazioni del Terzo Mondo, alcune delle quali si erano affrancate dal colonialismo e stavano avviando forme di gestione democratica. Per rappresentare poeticamente tutto ciò, il regista prevedeva di utilizzare racconti che avessero le loro radici nella cultura locale e che risultassero omogenei grazie a ciò che egli stesso definiva un “sentimento violentemente e magari anche velleitariamente, rivoluzionario: così da fare del film stesso un’azione rivoluzionaria (non partitica, naturalmente, e assolutamente libera fin quasi all’anarchia)”. Pasolini presentò diversi progetti ad alcuni produttori: l’unica possibilità di realizzazione gli si prospettò però grazie alla Rai, che gli propose di fare uno “speciale” per TV7: il titolo era Appunti per un film sull’India.
“Se vedessi due tigrotti affamati saresti disposto a offrire il tuo corpo per sfamarli?” Siamo nel 1968 e Pasolini, ispirandosi ad un’antica leggenda, pone questa domanda a dei monaci e a dei santoni. Il suo intento è quello di verificare fino a che punto si spingono le contraddizioni di un paese dominato dalla religione e dalla fame, che sta cambiando per effetto dell’industrializzazione/occidentalizzazione.
E subito appare il contrasto tra il mondo rurale e la città, tra un sistema sociale basato sulle caste e il tentativo di una democrazia formale che si sviluppa nei centri urbani più sviluppati.
Iniziato come un progetto che doveva essere un tassello che sarebbe andato a comporre un film – poema sul Terzo Mondo – finisce per divenire un’indagine, ancora una volta, dell’animo umano. Ricerca volti, facendosi affascinare dalla loro bellezza primitiva , lontana da quella corruzione spirituale in cui ormai il nostro mondo è sprofondato.
Questo suo medio-metraggio è una sorta di diario emotivo e un reportage socio-storico, quasi antropologico. Non è certo un documentario, perché la realtà al cinema per Pasolini non è la cronaca; anche quando utilizza l’inchiesta filmata emerge sempre un ‘essenza realista che esula dal fatto stesso di cronaca e si spinge a mostrare l’umanità, cogliendo emozioni.
E per questo i suoi film non hanno tempo, non appartengono al passato, sono presente e futuro. Appartengono ad un cinema poetico e ad un cinema del pensiero.
Nel finale dice che un occidentale che va in India trova tutto, ma non dà niente. Mentre l’India, invece, che non ha nulla, in realtà dà tutto. Ma cosa? La risposta è nelle immagini che accompagnano le sue parole: un corpo viene solennemente cremato. Che la risposta sia la vita? La vita nelle sue molteplici forme e individualità che sottoposta ad un processo di industrializzazione, omologazione, muore?
C’era già arrivato nel 1968 …
Pasolini aveva lo sguardo acuto, capace di penetrare in profondità nell’animo umano senza farsi distrarre da apparenze, inganni, lusinghe. Le sue immagini, come le parole, sono scarne, essenziali, francescane per la povertà. Non gli servono effetti speciali, apparenze sbalorditive; gli basta il rigore della sua intelligenza, la consapevolezza della sua partecipazione alla vita…sua, degli altri, non c’è differenza. Non era avanti di x anni, era fuori dal tempo. Quanto più si scende nell’abisso tenebroso dell’animo umano, tanto più gli aspetti contingenti legati al luogo, ai tempi, divengono orpelli ininfluenti; l’uomo è sempre uguale, le molle che lo spingono all’azione, le speranze che nutrono le sue aspettative non variano pur cambiando abitudini, costumi, rapporti sociali, epoche.
Non c’è mai la ragione fredda nelle sue immagini come nei suoi scritti, ma il rigore: dall’analisi, dell’osservazione, della testimonianza dei sentimenti, è sempre estremamente, assolutamente lirico senza mai concedere nulla al compiacimento. Credo proprio che lui pensasse col cuore e provasse sentimenti ed emozioni con la mente.