Anna Bonaiuto, attrice di raro temperamento cara ai maestri Mario Martone e Carlo Cecchi, ha dato voce il 26 febbraio 2016 al Teatro Verdi di Muggia (Trieste) alla sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal, il visionario film di cui la morte dell’autore Pasolini impedì la realizzazione. L’occasione le ha dato modo di riflettere su quest’opera solo sognata, sulla forza della tradizione napoletana, da cui proviene per parte paterna, e sulla propria carriera di grande interprete teatrale. Riprendiamo le sue parole da un’intervista uscita per “Il Piccolo”di Trieste il 25 febbraio 2016.
Rivive nella mia voce il sogno di Pasolini scritto per Eduardo
di Maria Cristina Vilardo
http://ilpiccolo.gelocal.it – 25 febbraio 2016
«Mi piace leggere in pubblico, perché non mi è mai capitato di avere ascoltatori distratti. La gente ama sentire una voce umana che racconta con chiarezza le cose. A me piace che si capiscano le cose e che abbiano vita». A prendere corpo dal leggio di Anna Bonaiuto saranno le parole di Pier Paolo Pasolini, al Teatro Verdi di Muggia. Le parole che il poeta, scrittore e regista friulano addensò nella sua ultima sceneggiatura cinematografica, Porno-Teo-Kolossal, riproposta da Teatri Uniti con la regia di Francesco Saponaro.
«Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il “tu” del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale», scrisse Pasolini in una lettera a Eduardo De Filippo, che voleva quale protagonista del suo film. Non riuscì a realizzarlo perché si frappose la sua morte violenta il 2 novembre 1975.
«Era il film – spiega Anna Bonaiuto – che Pasolini voleva fare dopo Salò o le 120 giornate di Sodoma. Un film ancora più terribile, più disperato, dal punto di vista della violenza, della ferocia e del pessimismo finale. La nostra lettura cosiddetta mise en espace comincia con la voce registrata di Pasolini che racconta le prime frasi della sceneggiatura, e poi continuo io. C’è anche la voce di Eduardo, e dalle sue parole sulla morte di Pasolini si capisce la stima e l’amore che aveva per quest’uomo, a differenza di molti in Italia. È chiaro che Eduardo era un uomo molto evoluto, non aveva pregiudizi, nonostante l’età».
Qual è il soggetto?
Al centro ci sono due figure, Eduardo e Ninetto Davoli, che da un certo punto di vista sono come la coppia Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini, però il tono non è così delicato. Ninetto è la parte popolare, innocente e maliziosa insieme, la furbizia ma anche la bellezza, la purezza. Eduardo è un Re Magio povero e semplice che segue una stella Cometa perché significa che Gesù è rinato, e la speranza è che da qualche parte del mondo Gesù nasca. Invece alla fine si capirà che non è così, cioè che Dio è proprio morto. Nel finale Eduardo dice all’incirca così: “Ho seguito la Cometa ed è stata una stronzata, però quanto ho potuto conoscere, quanto ho potuto capire degli esseri umani”. L’uomo ha comunque il dovere di guardare dentro l’essere umano, di conoscerlo e di comprenderlo, perché la vita in realtà sarebbe anche bella.
Perché il viaggio di Epifanio parte da Napoli?
Napoli è città della cultura, questo si sa, è stata la più grande in Europa, l’unica capitale d’Italia per secoli. Ma io penso che Pasolini avesse visto nell’animo napoletano il residuo di qualche barlume di umanità ancora non corrotto. Credo che quel che gli interessasse fosse proprio quel germe particolare di umanità e di relazioni umane che Napoli misteriosamente ha dentro di sé, e che lui non vedeva da altre parti.
E rende diversi gli artisti napoletani?
Chi riesce a fare delle cose a Napoli è perché ha alle spalle una tradizione che è nella lingua, ed è una potenza in sé. Solo Napoli ce l’ha. L’attore napoletano porta dentro di sé già nella lingua l’espressione del corpo, un po’ come gli attori shakespeariani inglesi nella cui lingua c’è il loro corpo. Questo non succede con l’italiano. Napoli ha una tradizione enorme di cultura riportata al presente, ed è questa la sua forza. Penso che ci sarà sempre, se i napoletani riusciranno a coglierla.
Oltre che in teatro, è impegnata anche sul set?
In questo momento no, anche perché il cinema è molto giovanilista nell’ultimo periodo, in Italia, vuole storie di ventenni, di trentenni, di quarantenni sempre in crisi. Sto provando la ripresa di uno spettacolo teatrale con la regia di Vincenzo Pirrotta, Clitennestra, che debutterà il primo marzo al Teatro Carignano di Torino. Tutta la parte dei cori è in siciliano, molto ritmato, molto forte, non le capisco neanch’io le parole, però le musiche sono così carnali, così potenti che diventano una grande forza nello spettacolo.
Per raccontare quale storia?
C’è di nuovo il tema dell’assenza di Dio, nel senso di assenza di spiritualità. Clitennestra ritorna dopo tremila anni sulla Terra per spiegare le sue azioni criminose, per difendersi, e trova un mondo senza più altari, senza più preghiere, in mano al delirio di onnipotenza dei figli Elettra ed Oreste, che sono come due fantocci, due dittatori, due che si sono definiti dei sulla Terra. Dunque anche qui è la fine di tutto, la fine di qualsiasi sentimento spirituale tra gli uomini. E Clitennestra è costretta a vendicarsi un’altra volta.
Cristina Trivulzio principessa di Belgioioso, che ha interpretato per Mario Martone nel film Noi credevamo, ma anche nella messinscena La belle joyeuse…
È uno spettacolo per me importante. Quando posso lo rifaccio. Cristina di Belgioioso era una donna che conosceva tante lingue, traduceva Gian Battista Vico e aveva dedicato la sua vita all’unità d’Italia. I suoi scritti sono di una modernità e di una bellezza incredibili. Ovviamente mi piaceva tutta la parte teatrale di lei, le sue follie parigine, le bizzarrie. È diventata un personaggio che sembra quasi inventato. Il monologo è rivolto al presente, alla forza che le donne potrebbero avere. Ce l’hanno e in più, rispetto agli uomini, hanno anche un senso di compassione e di accoglienza che le rende ancora più grandi.
Lei ha lasciato ventenne Latisana [provincia di Udine,ndr.] per frequentare a Roma l’Accademia d’arte drammatica. Quale ricordo le è rimasto?
Da quando me ne sono andata, l’ho frequentata molto meno di altre terre d’Italia. Ovviamente ho sempre avuto il legame con i miei genitori. Mio padre amava molto Trieste, credo per via del mare, essendo lui napoletano. La trovava bellissima, luminosa, elegante, europea. Credo che la forza della provincia sia enorme per uno che fa questo lavoro. Perché a quei tempi si stava molto più insieme, ci si conosceva tutti. Ricordo di aver vissuto sulle strade, nei cortili. Si aveva molto forte il senso della comunità, gli spazi erano più ristretti e si potevano studiare le tipologie umane da vicino.
Suo padre la portava anche a Napoli, al Teatro San Carlo. Quindi a vedere l’opera?
Ricordo Il barbiere di Siviglia. La festa del teatro, i sipari, il palcoscenico. E di aver avuto lì la folgorazione dell’esistenza di un’altra realtà, che non era quella del quotidiano. Era la vita reinventata, l’unica cosa per cui esiste l’arte.