Pop Art italiana in mostra a Pordenone con un occhio a Pasolini

La Pop Art, corrente artistica nata oltre oceano, ha toccato anche la ricerca italiana della seconda metà del Novecento. Tutto questo viene dimostrato dalla curatrice Silvia Pegoraro nella mostra IL MITO DEL POP. Percorsi Italiani  in programma fino all’8 ottobre 2017 nella Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Armando Pizzinato di Pordenone. L’esposizione, promossa e organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Pordenone, in collaborazione con l’Ente Regionale Patrimonio Culturale della Regione Friuli Venezia Giulia, con il contributo di Fondazione Friuli e il sostegno di CrèditAgricole-Friuladria e Itas Mutua, è un viaggio attraverso i creativi e vitali anni Sessanta grazie alla scelta di settanta opere di oltre venti artisti, alcune delle quali parti di collezioni private, mai esposte fino ad ora.
Con questa occasione espositiva si vuole dimostrare che non corrispondesse al vero quanto la critica in quegli anni andò affermando, cioè che gli artisti italiani non avessero fatto altro che “copiare” dagli artisti americani, dato che alcuni di essi erano stati in America prima del ’64, anno in cui la Pop Art americana approdò per la prima volta in Italia alla Biennale di Venezia.
Lo sviluppo della Pop Art in Italia si sviluppò in due centri, a Roma e a Milano. Roma diventò un luogo di incontri e dibattiti a livello internazionale, con il passaggio di molti artisti europei e americani. Le gallerie di riferimento erano “La Tartaruga” di Plinio De Martiis e “La Salita” di Gian Tommaso Liverani, che valorizzarono presto lavori di artisti che fecero tendenza: da Mimmo Rotella a Franco Angeli, Tano Festa e Mario Schifano. A questi si aggiunsero Cesare Tacchi, Sergio Lombardo, Renato Mambor, il pordenonese Ettore Innocente e Mario Ceroli con le celebri sculture in legno grezzo riproducenti immagini e oggetti della quotidianità. L’altro centro propulsivo della Pop Art Italiana fu lo “Studio Marconi” di Milano, dove nel 1965  si esposero lavori di Schifano, Valerio Adami, Emilio Tadini, Lucio Del Pezzo e in genere di artisti che però guardavano più all’Europa che all’America.
Nel saggio di Silvia Pegoraro (catalogo edito da Poligrafiche San Marco con testi italiano e inglese e la riproduzione di tutte le opere presenti in mostra) è riportata anche l’intervista che il giornalista Alfredo Barberis fece il 2 dicembre 1964 a Pier Paolo Pasolini per il quotidiano ”Il Giorno”, in occasione del trionfo della Pop Art alla Biennale di Venezia. In questa intervista, non presente nei “Meridiani” Mondadori, compare un Pasolini vitale, lucido, pieno di progetti e appunto attento anche all’arte contemporanea, come la Pop Art, che è guardata dal poeta con vivo interesse e analizzata secondo categorie di tipo linguistico. Un interesse che del resto continuò se
nel 1975 Pasolini scrisse un testo  per la presentazione di Ladies and Gentlemen di Andy Warhol a Ferrara, ribadendo la straordinarietà con cui l’artista statunitense testimoniava l’humus culturale e il modello mentale e iconografico del suo Paese. (angela felice)

"Kennedy", smalto su tela di Sergio Lombardo (1964), collezione privata
“Kennedy”, smalto su tela di Sergio Lombardo (1964), collezione privata

«Mi è tornata la fantasia del narratore»: Pasolini cinquant’anni fa
“Il Giorno”, 2 dicembre 1964
a cura di Clotilde Bertoni
Between, vol. IV, n. 7 (Maggio/ May 2017)
http://www.Between-journal.it/

Per quanto sia ossessivamente evocato, santificato, servito in tutte le salse, legato a tutte le bandiere, tirato in ballo a ogni proposito e pure a sproposito, si sa che con Pasolini non si finisce mai. Anche per la banale ragione che è stato un autore abituato a non risparmiarsi, sempre generoso di sé, sempre sulla breccia: tra l’altro, presente sui giornali nei modi più vari, attraverso articoli, tavole rotonde, interventi polemici, note occasionali, e interviste del tipo più dinamico, in cui le risposte all’intervistatore disegnavano un autentico ragionamento in fieri.
Ripresentiamo qui una delle più interessanti: rilasciata a un brillante giornalista di lungo corso, Alfredo Barberis, comparsa alla fine del 1964 sul supplemento culturale del «Giorno», e ripubblicata una sola volta, in un volume a cura di Oronzo Parlangèli ormai fuori catalogo [Oronzo Parlangèli, a cura di, La nuova questione della lingua, Paideia, Brescia, 1971]. Si tratta, intanto, di un godibile scorcio sul momento in corso: non tanto per l’istantanea iniziale di alcuni noti scrittori alle prese con la vita quotidiana; ma soprattutto perché si aggancia alle discussioni sulla crisi del romanzo accese dal Gruppo 63, presto divenute incandescenti (sebbene – come Pasolini non tralascia di ricordare – in effetti tutt’altro che nuove); e contribuisce a mettere in luce i rapporti fin dal principio tesissimi dell’intervistato con la neoavanguardia, e la sua posizione sulla pop art.
Il pezzo, però, oltrepassa ampiamente i limiti del documento d’epoca, toccando punti strettamente legati all’argomento di questo numero (e anche alla discussione sul libro di Pierpaolo Antonello compresa in quello precedente), che già tracciano alcune linee dominanti del successivo percorso di Pasolini: la riflessione sul ruolo avuto dalla classe dirigente nella formazione di una nuova lingua nazionale; l’urgenza persistente dell’impegno, per niente accantonata, ma svincolata da ogni classica militanza; l’attenzione al linguaggio teatrale, mista alla consapevolezza della sua difficoltà, che (oltre a occasionare un omaggio in più all’arte di Eduardo) anticipa indirettamente sia il debutto di drammaturgo dell’autore, sia i problemi che le sue pièces avrebbero sempre posto alla messinscena; la preparazione di una nuova opera narrativa, magmatico affresco della contemporaneità ispirato però a una logica centripeta di impronta dantesca (a conferma di una tensione sperimentale personalissima, sospesa tra la ricerca di modelli nuovi e la suggestione costante di quelli classici), in cui si ravvisa l’embrione della Divina Mimesis ma in parte anche di Petrolio. Spicca infine (nel passaggio in cui l’intervista si accosta un po’ alla tipologia “questionario di Proust”), l’individuazione del personaggio letterario con cui immedesimarsi nell’eroe omerico per eccellenza grande e sconfitto: scelta che conferma quella problematica vocazione dell’intervistato al martirio, talvolta rimproveratagli dai contemporanei (da Fortini in particolare), e poi troppo enfatizzata dalla posterità, trasformata in un’aureola che ha offuscato e offusca spesso la complessità della sua fisionomia.

«Sì, il romanzo è possibile»
intervista a Pasolini di Alfredo Barberis

“ Il Giorno”, 2 dicembre 1964

«Credevo che fosse finito – dice l’autore dei Ragazzi di vita. – Adesso mi sono accorto che proprio in questi anni è nato l’italiano come vera lingua nazionale. Scriverò un “Inferno” contemporaneo». Pier Paolo Pasolini ha appena finito di far colazione con Erode II Antipa, cioè con Francesco Leonetti (che nel Vangelo secondo Matteo impersona il tetrarca della Galilea) e con altri amici di Milano. Escono insieme dalla trattoria; ma il gruppetto si scioglie presto: chi deve prendere il treno, come Volponi, chi correre al lavoro. Vittorini, poi, ha avvistato un vigile, col taccuino delle multe in mano. Pasolini sale accanto a me in automobile e, mormorando con la sua voce tranquilla ed educata, “a destra”, “vada dritto”, “giri”, mi suggerisce il percorso più breve per raggiungere il suo albergo. Sul tavolino della sua camera, una portatile e una risma di carta bianca («poesie ne scrivo in continuazione, e sempre direttamente a macchina…»); in un angolo, due valigie: una di tela, e una di pelle nera, con le sigle P.P.P. in oro.

Crisi superata

«Mi avesse chiesto qualche mese fa se è ancora possibile il romanzo – esordisce accomodandosi in poltrona – avrei avuto dei dubbi. Stavo attraversando una crisi personale. Credevo che il romanzo, come genere, fosse finito, in quanto che io avevo esaurito certi argomenti miei, e tendevo a dar ragione a quelli che parlavano di crisi del romanzo (del resto se ne parla da quando son nato). Adesso, dopo una lunga meditazione sui problemi linguistici, le rispondo che sì, è possibile, quanto mai possibile, anzi, mai come ora è stato possibile!
Vede, ho fatto una scoperta, che è un po’ l’uovo di Colombo: mi sono accorto che proprio in questi anni, è nato l’italiano come vera lingua nazionale. Prima l’italiano era pseudonazionale, perché copriva non una società intera, ma una società frammentaria. C’era un distacco totale tra la “koiné”, cioè tra la lingua parlata, e la lingua letteraria. In fondo tutta la storia della nostra letteratura del Novecento si pone come storia dei rapporti degli scrittori con la lingua media che, ripeto, non è, in realtà, nazionale. Ora ho notato che c’è un elemento di omologazione nell’italiano: il linguaggio tecnologico…
Come ci sono arrivato? Semplicissimo: ho studiato i vari tipi di linguaggio: del giornalismo, della televisione, della stessa critica letteraria, della politica… Guardi come parla Moro. Il suo ha qualche attinenza con il modo di parlare classico dei politici nei loro discorsi pubblici? L’enfasi è completamente sostituita da una specie di monotonia diagrammatica delle frasi, e il fondo unificatore non è più il latino. Non ci sono più riferimenti al latino, tranne qualche verbo, come ‘auspicare’; ma ci sono invece infiniti riferimenti tecnologici…
Il fenomeno è agli inizi, è un fenomeno albeggiante; più un’ipotesi che una realtà; però un’ipotesi che ha già dato frutti. Per la prima volta – parlo schematizzando molto – c’è una classe al potere che ha la forza di identificarsi con l’intera società italiana, ed è quella formata nelle industrie del Nord; essa fa quello che hanno fatto le monarchie in Francia e in Inghilterra: cioè compie un’unificazione linguistica. Il Sud è ormai unito al Nord dal ciclo produzione-consumo. La grossa borghesia milanese e torinese ha col Sud un rapporto nuovo, simile a quello delle borghesia inglese o belga con le sue ex-colonie. L’asse linguistico Roma-Firenze, con l’aggiunta di Napoli, s’è spostato violentemente al Nord. Adesso i centri irradiatori di lingua sono Torino e Milano; città che non danno i loro dialetti, ma questo nuovo loro linguaggio tecnologico. Dunque è quanto mai invitante scrivere un romanzo attraverso questa nuova angolazione linguistica.

Sta già lavorando in tale direzione?
Sì. In seguito a queste meditazioni linguistiche mi si è rimessa in moto la fantasia del narratore, e mi è tornata in mente un’idea vecchissima. Scrivere un “Inferno” contemporaneo. Prima doveva essere una donna del mio vecchio “mondo”, “la mortaccia”, che scendeva all’Inferno e lo vedeva dal suo punto di vista. Ora sono io stesso a fare il viaggio. Il mio è un Inferno classico, come quello di Dante: a imbuto, con tanti gironi, e qualche girone nuovo per i nuovi peccati. Un Inferno degli anni Sessanta, popolato di miei contemporanei: amici, personaggi, eroi della cronaca rosa o criminale, capi di governo o di partito, con tanto di nomi e cognomi: una summa eroica e pantagruelica dello spirito contemporaneo. Linguisticamente sarà molto interessante; ci sarà sempre una mescolanza di dialetti, che oggi ormai considero arcaici, e cercherò di inventare un linguaggio per i due “progetti” di Paradisi: uno neo-capitalistico e uno marxista, che descriverò con una lingua inventata, con una lingua del futuro. Si tratterà d’un romanzo apertissimo, di una cosa magmatica.

Qual è, oggi, per lei il rapporto dello scrittore con l’impegno politico?
L’impegno degli anni Cinquanta o dell’immediato dopoguerra, è superato, perché allora consisteva semplicemente in uno sforzo realistico, cioè in uno sforzo di conoscenza della realtà italiana uscita dal fascismo. Era una forma di denuncia sociale, di scoperta della realtà, vivificata da quella che i marxisti chiamano “prospettiva”, cioè la speranza … Oggi per me l’impegno è capire nel modo più scientifico e razionale possibile, e partendo dal massimo della propria esperienza culturale, anche sofferta come crisi, come delusione, cioè vissuta a rovescio, questa nuova realtà italiana, che produce questa nuova lingua e quindi questa nuova cultura.

Se le capitasse di scrivere, come Rilke, delle lettere a un giovane poeta, cosa gli consiglierebbe?
La domanda è difficile; vede, risponderei meglio scrivendo una poesia, perché la lettera a un giovane poeta è quasi una poesia … Forse gli direi per prima cosa di non temere nulla, di non omettere nulla, di non temere le contraddizioni, di non temere il ridicolo, di non avere mai paura del “troppo”: non si è mai abbastanza “troppo” qualsiasi cosa …

 Non è un atteggiamento neo-romantico?
Eh, sì, può anche essere, perché il fondo della mia psicologia è così. Gli direi queste cose, che sono neo-romantiche, ma che in me sono state confermate dalla mia esperienza dei rapporti con il mondo borghese in cui sono vissuto, in cui tutto è basato sul comportamento, sull’opportunità, sul saper tacere, sul saper fare … tutto ciò mi pare talmente ipocrita, talmente odioso.

"Campbell's Soup Can" di Andy Warhol
“Campbell’s Soup” di Andy Warhol

L’Ettore omerico

E se potesse essere un qualsiasi personaggio della letteratura, chi amerebbe incarnare?
Accidenti, qui come si fa a rispondere! Bisogna pensarci; passare in rassegna migliaia di nomi. Vediamo un po’: scegliamo nella letteratura italiana. No. Sarei tentato di dire Don Chisciotte. Però, forse no. Ecco, sinceramente vorrei essere Ettore nell’Iliade, perché mi piace la sua morte, il suo affetto familiare e, soprattutto, trovo meraviglioso quel “suo” verso: “da lungo tempo appresi ad esser forte …”.

Ha mai pensato di scrivere per il teatro?
No, fino ad ora. E sempre per ragioni linguistiche. Adesso può darsi che mi si apra qualche possibilità. La lingua del teatro l’ho sempre considerata artificiale, fasulla, piena di birignao. Soltanto quando ascolto Eduardo capisco cosa è il teatro; in tutti gli altri casi assisto a uno spettacolo per me tremendo, che dopo un po’ mi prende, perché è un gioco. Ma i primi dieci minuti rappresentano per me una vera sofferenza fisica, un martirio …

Lei viaggia molto. Cosa cerca nel “viaggio”?
Quello che poteva immaginare di trovare lei da ragazzo. Sì, le esperienze le utilizzo a un altro livello, le inserisco nei miei versi. Ma quando parto ho sempre quattordici anni …

 Che ne pensa dell’avanguardia?
L’avanguardia ha sempre ragione. Cioè chi dà addosso all’avanguardia ha sempre torto, finisce per dire delle banalità, perché gli attacchi sono mossi da una specie di impotenza critica. Ma è chiaro che l’avanguardia “non” ha ragione. Però questa assurda posizione è la spia d’una situazione molto critica nella nostra letteratura. Da lontano il fenomeno dell’avanguardia m’interessa; se divento lettore, cosa vuole, trovo delle cose insignificanti, brutte. Ecco, giudico più interessante la loro posizione ideologica, anche quando è a-ideologica, che quel che fanno.

E della pop-art?
Mi interessa moltissimo perché l’ho inserita nel problema linguistico, che m’è nato da lunghe meditazioni sul discorso libero indiretto. Nella pop-art l’elemento”‘pop”, cioè popolare, è una specie di discorso libero indiretto figurativo, cioè un pezzo di discorso altrui rivissuto entro un ambito proprio, e questo elemento “pop” ha una caratteristica stranissima;, anziché far rivivere il discorso di un personaggio che è “preistorico” rispetto a chi lo fa, tende ad essere un discorso ipotetico nel futuro, cioè l’oggetto del  “pop” è tecnologico. Per esempio, quando Burri mette i sacchi, i sacchi sono buoni oggetti dell’artigianato del mondo agricolo-contadino italiano; la pop-art invece ha un elemento tecnologico, che è sì presente, ma che acquista un maggior significato se proiettato in un possibile futuro, dove la cultura sia veramente di massa, dove tutto sia tecnicizzato. Sbagliano però coloro che asseriscono che la neo-avanguardia, compresa la pop-art, è un rifacimento di avanguardismi del primo Novecento. Allora si polemizzava contro la società rimanendo, in fondo, nella tradizione: quei quadri erano dipinti dipinti, non prescindevano dalla pittura; adesso invece ci sono nell’avanguardia elementi nuovissimi, per cui in letteratura si tende a prescindere dalla letteratura, a fare delle cose scritte che non sono letteratura e in pittura si prescinde dalla pittura, si fa “qualcosa d’altro”, come del resto nella musica concreta …