Sul nostro sito abbiamo già dato conto del libro Pier Paolo Pasolini, il deserto e il grido (40due edizioni, 2016), in cui il critico cinematografico Sebastiano Gesù ricostruisce il rapporto tra l’Etna e Pasolini, che ne utilizzò il nudo paesaggio desertico come metafora spaziale per alcune emblematiche sequenze di quattro film. Nel volume sono pubblicate anche le foto di Salvatore Tomarchio, scattate quando nel 1968, in occasione del Premio Brancati, il regista effettuò dei sopralluoghi nel territorio dantesco del vulcano, come racconta Alessandro Puglia sul “manifesto” del 14 gennaio 2016.
Pasolini risale sull’Etna
di Alessandro Puglia
http://ilmanifesto.info – 14 gennaio 2017
Il regista allunga il passo ai piedi del vulcano, ha iniziato il suo primo sopralluogo a bassa quota, si fa strada tra faggi e ginestre, risale sul primo cratere, ora è stanco seduto su una roccia: si toglie le scarpe piene di lapilli e riprende il cammino alla ricerca di un paesaggio lunare. È la passeggiata di Pier Paolo Pasolini sull’Etna. È qui il luogo dell’anima dove i suoi personaggi possono liberarsi dalla civiltà borghese che li opprime. Finalmente l’uomo è nudo con se stesso, ha davanti a sé il deserto e può gridare. Un urlo destinato a durare oltre ogni possibile fine.
Sul vulcano più grande d’Europa Pasolini ha girato quattro dei più importanti film della sua carriera cinematografica: l’episodio delle tentazioni ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), Teorema (1968), Porcile (1969), I racconti di Canterbury (1972), suo terzultimo film, e ha ambientato i Dialoghetti su cinema e teatro, una lunga intervista agli attori che lo hanno accompagnato nella lunga passeggiata sul vulcano: Ninetto Davoli, Pierre Clementi e Franco Citti. I dialoghetti, che sono una riflessione sul significato primordiale del cinema come espressione di vita, furono pubblicati nella rubrica “Il Caos” sul settimanale “Tempo”.
Un rapporto duraturo quello del polemista corsaro con l’Etna che si fa più intenso nel 1968 in occasione del Premio Brancati, nel paese di Zafferana, dove Pasolini sarà giurato, accompagnato da autori come Alberto Moravia, Ezra Pound, Elsa Morante, Lucio Piccolo, Dacia Maraini. Era in quelle occasioni che Pasolini risaliva a “muntagna”, come è chiamato l’Etna dalla gente del luogo. A guidarlo tra sentieri rocciosi e paesaggi danteschi era Turi Magliocco, leggendaria guida dell’Etna, che per via della sua statura ancora oggi viene ricordato con il soprannome di “Turi u nano” e che di professione faceva il calzolaio e il funciaro, in dialetto siciliano venditore di funghi.
A immortalare le lunghe passeggiate sull’Etna fu il fotografo ufficiale del premio Brancati, Salvatore Tomarchio, padre del giornalista e operatore Rai Giovanni Tomarchio, conosciuto in tutto il mondo per le sue riprese del vulcano in eruzione: «Ero ragazzino. Pasolini era appena entrato nel negozio di fotografia di famiglia per visionare le sequenze dei suoi sopralluoghi sull’Etna. In quell’occasione disse che avevo un volto da indigeno, voleva assoldarmi per qualche film, ma ho scelto un’altra strada e vivo l’Etna in una mia dimensione». Quelle foto con il regista friulano che si avventura tra i crateri o in posa davanti alla chiesa madre di Zafferana, in occasione del premio Brancati, sono oggi pubblicate per la prima volta su “Alias” dal libro Pier Paolo Pasolini, il deserto e il grido (40due edizioni, 2016) di Sebastiano Gesù.
Della sterminata letteratura sull’Etna Pasolini riprende la stagione del mito, storie di giganti e ciclopi, di venti imprigionati nelle caverne, evoca il Tartaro, il mondo dei morti che per gli scrittori ellenici da Esiodo a Eschilo era situato sotto l’Etna. Dopo Jean Epstein che qui aveva girato il mediometraggio La montagne infidèle (1923) e in seguito a Luis Buñuel e Jean Marie Straub, spetta a Pasolini il primato di aver raccontato il vulcano nelle sue sfaccettature.
Il primo viaggio in Sicilia di Pasolini, partito da Ventimiglia a bordo di una Fiat 1100, risale al maggio del 1959 per realizzare un reportage per conto della rivista “Successo” sulle condizioni di vita degli abitanti di Chiafura, un piccolo quartiere del Ragusano. Dopo aver ammirato le imponenti cattedrali tra Siracusa e Catania Pasolini dirà: «Non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, come Lawrence a Ravello, ma di gioia».
Pasolini inizia così a fare della Sicilia il suo set con Comizi d’amore (1963) girato tra Camporeale, Cefalù e Palermo. L’intento del regista, in quell’occasione è però un altro: deve trovare il paesaggio o come lui stesso lo definisce «lo sfondo» per Il Vangelo secondo Matteo (1964), film che solo anni dopo sarà riconosciuto dal mondo ecclesiastico come il più bel film su Gesù.
In quel Sud fatto di ruderi Pasolini trova la sua Terra Santa e preferisce quel paesaggio alla Palestina dov’era stato «tanto per mettersi la coscienza a posto» e da cui poi nacque il documentario Sopralluoghi in Palestina.
Da Matera Pasolini scende fino all’Etna trovando così l’agognato e ricercato deserto per l’episodio delle tentazioni: «uno dei pochissimi paesaggi che abbia in sé la grandiosità di un paesaggio lunare». Dopo aver pregato e digiunato per quaranta giorni, Cristo è ora inginocchiato in un deserto lavico. Sull’Etna resiste alle tentazioni del pane, del prestigio e del potere. Il paesaggio è più che mai desolato. È qui che l’uomo si purifica. Qui si interroga se la vita delle città, della famiglia, della chiesa, rappresenta il vero benessere.
Il deserto lavico dell’Etna domina, quattro anni dopo, in Teorema (1964) che si apre con una citazione dal libro dell’Esodo: «Dio fece quindi piegare il popolo per la via del deserto» e un’ampia panoramica dell’Etna con il cono fumante del cratere centrale. L’Etna è in assoluto il luogo della spiritualità, l’altrove in cui liberarsi dall’opprimente peso della civiltà borghese.
Si giunge così al finale epico di Teorema, dove Paolo, industriale del Nord, interpretato magistralmente da Massimo Girotti, urla la sua disperazione, nudo, ai piedi del vulcano: «Un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo. È un urlo che vuol far sapere, in questo luogo disabitato, che io esisto, oppure, che non soltanto esisto, ma che so. È un urlo in cui in fondo all’ansia si sente qualche vile accento di speranza; oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda, dentro a cui risuona, pura, la disperazione. Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa questo mio urlo voglia significare, esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine».
Il deserto e il grido rappresentano i due mondi pasoliniani dell’Etna. Ora non c’è più spazio per la purezza, che con Porcile (1968) diventa qualcosa di primitivo e arcaico. Pasolini celebra sull’Etna il cannibalismo considerato come stadio che precede la civiltà. Teste di uomini vengono sacrificate al dio vulcano. Il film fu girato in breve tempo, con neve, vento, nebbia e pioggia:«Credo che nessuno abbia mai patito tanto freddo come noi sull’Etna, con vento, neve, nebbia e pioggia».
Per quel candore bianco del vulcano non c’è più spazio. Con I racconti di Canterbury (1972) il vulcano diventerà luogo di pena e di morte, l’inferno popolato da demoni che sputano fuoco e zolfo, dannati che vagano nel vuoto tra pianti e lamenti, mostri che defecano e compiono atti di sodomia. La montagna sacra è ora abitata da Satana, ma questo la gente del luogo, quando ricorda Pasolini a spasso tra le vie di Zafferana, continua a non accettarlo. Per i siciliani l’Etna è sempre stata “fimmina”, una madre che Pier Paolo Pasolini ha abbracciato con i suoi film raccontandone la sua nuda e unica essenza.