“Cecilia Mangini – Visioni e passioni. Fotografie 1952 – 1965” è la mostra (al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari all’Eur, Roma, fino al 10 settembre 2017) dedicata agli scatti della grande regista, protagonista di quel cinema italiano che si è nutrito di sguardi anticonformisti e coraggiosi, prima che arrivasse l’era, la nostra, dei “film un tanto al chilo”. Ritratti di celebri “bastian contrari” (Pasolini, Montanelli, Malaparte, Flaiano, Zavattini) ma anche di volti “ignoti” segnati dalla fatica del lavoro e del vivere. Da non perdere assolutamente, come raccomanda Enzo Lavagnini in una recensione che qui, con il suo consenso, pubblichiamo.
Il bianco e nero determinante di Cecilia Mangini
di Enzo Lavagnini
www.bookciakmagazine.it – 6 giugno 2017
Il cinema italiano si è nutrito di “sguardi”: i più curiosi, i più originali, i più coraggiosi, i più anticonformisti, i più caustici, i più dissacratori. Finché l’ha fatto, è stato un grande cinema, in grado di sfuggire al packaging del film un tanto al chilo. Ossia “cose” da imballare, più che opere.
Tra i protagonisti di questo cinema non “in cassetta”, orgoglioso e non replicabile, artigianato seriale più che industria, divenuto spesso poetica ed esempio, ecco Cecilia Mangini, regista, documentarista, saggista, organizzatrice di cinecircoli, fotografa e, più di ogni cosa, combattiva testimone del nostro ieri e del nostro oggi, che, con metodo e selezione, ci ha dato nel tempo opere vere e punti di vista sempre necessari, sociali, spesso “militanti”.
Nell’ avvincente mostra delle sue fotografie, molte delle quali inedite, allestita al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari all’Eur, e a cura di Paolo Pisanelli e Claudio Domini, l’occasione è opportuna per scoprire lati ancora poco conosciuti del talento di una delle protagoniste del nostro cinema.
A cominciare dai ritratti dei tanti “bastian contrari”, colleghi della Mangini, cui di certo non difettava la “personalità”. Gente di carattere, o di “caratteraccio”, come si dice. A cominciare da Pier Paolo Pasolini (che per Cecilia Mangini ha scritto i testi di Ignoti alla città, La canta delle marane, d’argomento romano, e di Stendalì), e poi ancora Carlo Levi (ispiratore dell’attenzione della Mangini per il Sud), Indro Montanelli, Vasco Pratolini, Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Curzio Malaparte, Cesare Zavattini, Elsa Morante, tanto per fare dei nomi: nomi di chi, in gruppo, ha alimentato polemiche ed osservazioni graffianti, da punti di vista anche opposti, e spesso conflittuali, che la cultura e il cinema italiano hanno saputo ospitare.
Eccoci ancora al cinema allora. Al cinema che guarda se stesso e i suoi personaggi: nella mostra alcuni bei servizi fotografici della Mangini, uno sul set del maestro del noir Jules Dassin per il film La legge, girato a Carpino, Foggia; altri per La diga sul Pacifico di René Clément e per Le fatiche di Ercole di Pietro Francisci, quest’ultimo con il muscoloso Steve Reeves e Sylva Koscina.
Occasioni nelle quali, in trasparenza, attraverso gli occhi attenti, ed anche molto ironici, della Mangini vediamo quella cosa composita, difforme che era il cinema italiano, espresso anche attraverso la estesa campionatura del “genere” cinematografico, con tutto quello che ha rappresentato.
Tra le parti più emozionanti, e assolutamente vibranti, di una mostra irrinunciabile, i reportage sulle cave di Lipari, del 1952, quello sul Sud del nostro paese, datato 1956, e quello sul Vietnam, realizzato nel 1965 e base per un film purtroppo mai messo in lavorazione.
Sembrano queste le tessere di uno stesso puzzle: un grande viaggio verso il sud del mondo, attraverso facce “ignote”, per citare sempre la Mangini e un suo lavoro, facce ancora “impreparate” a mostrarsi al mondo, segnate dalla fatica del lavoro e del vivere, spaesate, talvolta quasi impaurite: sezioni nelle quali affiora alla memoria un verso di una bella poesia di Rocco Scotellaro: «Oggi ancora e duemila anni / porteremo gli stessi panni».
La fotografia, come dice la Mangini, racconta: «… non della verità, la verità non esiste… È andare in cerca di qualcosa di molto più profondo della verità, qualcosa di assolutamente nascosto». Un privato che qui emerge, col pudore di chi mostra, e con il pudore di chi fotografa. Un privato, un’essenza, che racconta degli ultimi del mondo: uguali ieri ed oggi.
Nata con la lettura di Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, proseguita con l’attenzione all’opera di Ernesto De Martino, gran parte dell’opera di Cecilia Mangini è infatti dedicata alle riflessioni etno-antropologiche, alla memoria e alle diseguaglianze, includendo il già citato Stendalì- Suonano ancora, 1960, un documentario con i testi di Pasolini girato a Martano, piccolo paese del Salento, nel quale si immortala un pianto funebre oramai scomparso. Un’attenzione alla quale, sia prima che dopo, si sovrappone quella al mondo operaio, alla sua vita e alla sua storia, passione coltivata con il fare di una “sindacalista del sociale”, spesso assieme al marito, il regista, mai troppo ricordato, Lino Del Fra.
Includendo questa fruttuosa ed ispiratrice giustapposizione, tante insomma le ragioni per vedere “Cecilia Mangini. Visioni e passioni -fotografie 1952 – 1965”, al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari fino al 10 settembre 2017. Bianco e neri brillanti e determinati, come e quanto Cecilia Mangini.
[info_box title=”Enzo Lavagnini” image=”” animate=””]regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico. Suoi i documentari: Un uomo fioriva su Pasolini e Film/Intervista a Paolo Volponi. Ha collaborato con Istituto Luce, Rai Cultura e Premio Libero Bizzarri. Tra i suoi libri, Il giovane Fellini , La prima Roma di Pasolini. Attualmente dirige l’Archivio Pasolini di Ciampino.[/info_box]