Pubblichiamo la recensione di Jacopo Gardelli di Come le lucciole di ErosAntEros e di Memorial Atarax di TeatrOnnivoro, gli ultimi spettacoli-performance di due giovani compagnie ravennati andati in scena l’11 dicembre 2015 in occasione della rassegna Rasponi Open Space di Ravenna. Come è evidente dal titolo, il primo lavoro si ispira direttamente a Pasolini, mediato da Georges Didi-Huberman e preso a spunto per un provocatorio corpo a corpo teatrale sull’indifferenza e sulla passività del presente, in cui il ruolo dell’artista e dell’arte pare scomparso, come nella metafora delle lucciole pasoliniane, e non avere più senso, necessità e futuro.
ErosAntEros e TeatrOnnivoro.
Lamenti e inquietudini di una generazione spaesata
di Jacopo Gardelli
www.ravennanotizie.it – 12 dicembre 2015
Gli spettacoli non potrebbero essere più diversi tra loro. In tutto, o quasi. Da una parte le atmosfere lynchiane e i contenuti ultra-intellettuali di ErosAntEros; dall’altra le narrazioni ucroniche e le verosimili assurdità tipiche dei lavori di TeatrOnnivoro.
Come le lucciole è l’ultima opera di ErosAntEros, compagnia fondata dall’unione creativa di Agata Tomsic (drammaturgia) e Davide Sacco (regia, music and light design). La riflessione politica, dunque sociale, pervade l’intero spettacolo, a cominciare dal titolo pasoliniano. Con una grande differenza però, dovuta al filtro teorico-estetico del filosofo Georges Didi-Huberman, autore di un saggio che dà il titolo alla performance dei ravennati. Il tema della “scomparsa delle lucciole” riveste all’interno del discorso dell’ultimo, luteranissimo Pasolini una funzione precisa: si tratta di una formidabile metafora per parlare del genocidio culturale che, a metà degli anni ’70, stava ormai cancellando un mondo. Quel mondo pre-industriale, cattolico e contadino che, per ragioni esistenziali ed estetiche, il friulano sentiva suo. Un altro mondo, terribile e dittatoriale, quello del capitalismo edonista, stava irresistibilmente soppiantando la vecchia ideologia con nuovi valori: falsa tolleranza, libertà sessuale, beni superflui e il nuovo, piatto, orrendo linguaggio della tecnica.
Ora, sia per Didi-Huberman che per gli ErosAntEros, è chiaro che non di queste lucciole stiamo parlando. Lo spettacolo non si rivolge nostalgicamente alla scomparsa di un mondo, ma alla scomparsa di un – come chiamarlo? – mestiere, ruolo sociale: quello dell’artista. Il mondo che scompare è quello dell’immaginazione artistica, il mondo che avanza è quello di una dittatura economicista che non tollera altro da sé, ovvero l’inutile dell’arte. Spazzata via la scena (il pubblico è sparso per la stanza, priva di un centro preciso), gli ErosAntEros decidono di iniziare con uno speaker frenetico ed entusiasta (un ubiquo Massimiliano Rassu) che invita i visitatori a sedersi e a non spegnere i cellulari: tutti potranno infatti interagire con lo spettacolo attraverso i meravigliosi social network”, come vengono ironicamente presentati. Investiti da domande incalzanti (Che cos’è il teatro? Che teatro ti aspetti?), le risposte degli spettatori verranno proiettate sui muri e interromperanno ogni volta il fluire dello spettacolo.
Mentre lo speaker continua a parlare e a intontire di domande il pubblico, Agata Tomsic si riscalda, come in preparazione di uno spettacolo – esercizi della voce, stretching – ma, quando sembra sul punto di iniziare la performance, slaccia il vestito-accappatoio da pugile e rimane in meraviglioso, provocante déshabillé. Inondata da una luce soffusa e languida, in pose erotiche e ammalianti, la Tomsic si rivolge al pubblico. “Va bene così? E così? Tu inventi la verità? Io non ho mai fatto altro nella vita…”, sussurra, prima di crollare per terra in una citazione da Mulholland Drive di Lynch.
C’è infine un terzo personaggio a interagire con gli spettatori , se non contiamo qualche frase pronunciata dal regista Sacco, dietro la consolle: si tratta di un’agitatrice, Greta Mini, che col suo megafono cercherà di svegliare la coscienze, di parlare negli occhi al pubblico, scandendo frasi che somigliano a slogan di piazza. Lancia invettive contro i tagli alla cultura, esorta all’immaginazione, consegna nelle nostre mani uno striscione da corteo con scritto “Sta a noi non far scomparire le lucciole”, distribuisce foglietti a tutti. Contengono domande: a me, fatalmente, è capitata questa: “Vai a teatro per degli esercizi intellettuali?” Lo spettacolo si chiude, ancora una volta, con una serie di interrogativi che allargano il respiro dei temi, dall’arte alla guerra, dall’economia alla possibilità di fratellanza.
Com’è evidente da questo incompleto riassunto, Come le lucciole è uno spettacolo che tenta in tutti i modi di stimolare un pubblico forse avvertito come sempre più passivo, incurante, assuefatto. Lo provoca con domande assillanti, con rebus formali (Chi sono questi personaggi? Cosa rappresentano?); propone allo spettatore temi avvertiti in primo luogo dalla compagnia stessa, tanto problematici quanto capitali: Come ritrovare una funzione per l’arte in una società che la reputa ormai superflua? Come rimanere artisti senza vendersi? Come rifondare una funzione sociale e politica dell’arte, in una comunità che non sa più essere tale?
Questa cascata di interrogativi, questo lamento sulla triste condizione dell’artista contemporaneo è senza dubbio un lavoro insolito, ben curato dal punto di vista tecnico (il lavoro di light e music design di Sacco è notevolissimo) e profondo da quello contenutistico (il testo della Tomsic emoziona senza rinunciare ad una cogenza teorica da provetta filosofa). Tuttavia, in alcuni momenti, si è avuta l’impressione di avere troppa carne al fuoco, troppi stimoli, troppe cose interessanti nello stesso momento. In altre parole, Come le lucciole è uno spettacolo che merita di crescere, e che non deve assolutamente cadere nell’errore del “troppo rumore, niente rumore”.
Al di là delle indubbie differenze stilistiche tra Come le lucciole e Memorial Atarax del TeatrOnnivoro, i due spettacoli sono accomunati da alcuni elementi. In primo luogo, la giovane età dei componenti delle compagnie: attori e registi sono tutti trentenni, o quasi. Lo spaesamento espresso dal queste opere è quello tipico di una generazione che, orfana delle grandi ideologie e immersa in un presente immobile e asfittico, non può che portare in scena le sue irrequietezze, il suo schifo per un paese che non sa reagire, le sue nostalgie di rivoluzioni, le sue inquietudini per un mondo contemporaneo sempre più complesso e difficile da leggere.
Memorial Atarax mette l’accento soprattutto su quest’ultimo elemento. Il testo, liberamente tratto da un radiodramma fantascientifico dello scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, rispecchia alla perfezione la capacità del suo autore di leggere e portare alle estreme conseguenze intellettuali le contraddizioni del presente. Il gioco dell’iperbole e del rovesciamento nell’assurdo, figure tipiche dell’opera dello scrittore svizzero, ha messo evidentemente a suo agio Matteo Cavezzali, che già nel precedente Fuori Fuoco ha giocato sulla deformazione parossistica e assurda della realtà.
In questo caso è grazie all’uso dell’ucronia che Memorial Atarax fa leva sulle nostre paure, svelandone la sostanziale falsità attraverso il loro collocamento in un futuro remoto. In un naufragio spaziale durante il trasferimento di prigionieri islamici in un carcere di massima sicurezza su Venere, l’astronave Atarax è andata distrutta. I santini dei due comandanti, Wood e Fridrich, assunti dopo la loro morte ad eroi internazionali dall’Occidente Civilizzato in lotta contro il terrorismo dello Stato Islamico, osservano il pubblico dalle teche di un rozzo museo del futuro.
I visitatori di questo museo quasi steam-punk siamo noi, introdotti e guidati da una ragazza, Jenny Burnazzi e da un uomo, Andrea Carella (entrambi componenti della band Rigolò), che faranno il riassunto degli ultimi avvenimenti storici dal 2019 al 2097, tra guerre mondiali, bombardamenti magnetici e astronavi immense, accompagnati da magnifici video a cura di Alessandro e Francesco Tedde, da orwelliani inni all’Occidente Civilizzato, e da Kingsley Okeke, silente prigioniero di colore costretto ad azionare una strana cyclette che proietta le immagini.
Lo spettacolo termina con le esplosioni della batteria di Andrea Napolitano (sempre Rigolò), che fanno sobbalzare il pubblico, prima che venga nuovamente riconsegnato al presente.
Memorial Atarax, strizzando l’occhio alle tecniche narrative dei feuilleton e delle serie tv, spezzettati in episodi e spin-off, è un prequel che introduce allo spettacolo vero e proprio, in scena al Rasi di Ravenna il prossimo febbraio. Il suo delicato dovere – invogliare gli spettatori e alzare le aspettative – l’ha svolto egregiamente. Pazientiamo.