Nel volume collettivo Da Petrarca a Gozzano. Ricordo di Carlo Calcaterra (1884-1952) [Atti del Convegno, Santa Maria Maggiore (Novara), 19-20 settembre 1992] edito nel 1994 da Interlinea di Novara, è pubblicata la lettera con cui, nel marzo 1944, lo studente Pasolini chiese la tesi di laurea al suo docente di Letteratura italiana dell’Università di Bologna, appunto Calcaterra. È noto che, dopo l’8 settembre 1943, durante la rocambolesca fuga da Livorno dove si trovava sotto le armi, Pasolini aveva smarrito i primi capitoli di una precedente tesi sulla pittura italiana contemporanea, richiesta a Roberto Longhi. Cambiati del tutto argomento e ambito disciplinare, Pasolini dirottò dunque i suoi interessi sulla poesia, e in particolare su quella congeniale di Pascoli, intorno al quale effettivamente stese il suo lavoro di laurea, poi discusso a Bologna il 26 novembre 1945.
La lettera al professor Calcaterra, non inclusa nell’edizione einaudiana delle Lettere curata da Nico Naldini nel 1986, documenta la sicurezza del giudizio critico di Pasolini, e insieme getta luce anche sul laboratorio in versi dello stesso Pasolini, che, in un’ottica del tutto estranea all’ermetismo e all’assolutezza della poesia pura, attribuisce alla lirica anche l’alto fine della moralità umana. Per il giovane e precoce poeta di Casarsa, Pascoli è così una sorta di alter ego, attraverso il quale sperimentare e maturare la propria voce personale. (af)
[s.d., ma marzo 1944]
Egregio Sig. Professore,
Serra le avrà già detto le ragioni per cui, così in ritardo, e direi così arbitrariamente, mi affido a Lei per la tesi di laurea. Le avrà detto come, a quest’ora, se le circostanze me lo avessero permesso, mi sarei già addottorato con una tesi assegnatami dal professor Longhi intorno alla pittura contemporanea. Ora, per di più, il manoscritto di quella tesi mi è andato perduto, a Pisa, durante il marasma seguito all’armistizio; e non mi sento la forza di rifare tutto quel lavoro. Devo aggiungere, tuttavia, che lunghissimi mesi di vita ritirata in campagna, lontano dall’ambiente letterario della città, privo, fortunatamente, delle notizie che le varie rivisticule letterarie periodicamente mi ammannivano, ho perduto l’entusiasmo e mutate molte idee, con cui mi ero accinto ad affrontare quella scabrosissima tesi. Ho pensato quindi di rivolgermi a lei, e spero ardentemente che Lei mi soccorra. Il Pascoli è poeta a cui mi sento legato quasi da una fraternità umana, e, per questo, benché non sempre accetti la sua risoluzione formale, e anzi, in qualche periodo della mia vita l’abbia assai criticata, l’ho sempre letto e molto assimilato. La sua lettura, insomma, ha avuto sempre per me un valore di studio della tecnica della poesia, studio quasi privato e segreto, in cui tutte le mie facoltà critiche stavano all’erta tese unicamente a cogliere gli affetti risolti in linguaggio, e a scartare quelli meramente autobiografici. Cosa, del resto, che nel Pascoli è relativamente facile. Ero perciò un lavoro che io facevo leggermente, quasi con lietezza. Era quasi, per me, una facile dimostrazione dei miei postulati. Ma alla base di tutto questo stava il «Fanciullino», cioè la poetica pascoliana, laddove si fa più chiara e quasi di una commovente modernità: vi trovavo una straordinaria risoluzione, che non so fino a che punto sia giustificabile criticamente, e cioè una specie di conciliazione dell’autonomia dell’arte (affermata con tanto ardore dalla critica moderna), con una sua moralità umana che non esclude un fine utilitario, o, comunque, quasi estraneo alla poesia. Mi riferisco soprattutto al passo: «(La poesia) è quella che migliora e rigenera l’umanità, escludendone non di proposito il male, ma naturalmente l’impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto». E ancora in L’era nuova: «Ricordo un punto sul quale si esercita la poesia: la infinita piccolezza nostra a confronto della infinita grandezza e moltitudine degli astri […]. Tuttavia […] quella spaventevole proporzione non è ancora entrata nella nostra coscienza […]. Perché, se fosse entrata, se avesse pervaso il nostro essere cosciente, noi saremmo più buoni». Così mi spiegavo con grande chiarezza il passaggio pascoliano dall’autobiografia alla poesia, e, con pari facilità, perdonavo al poeta tutta la sua zavorra umana, che tanto spesso egli non era capace di contenere nel grembo segreto della memoria. E ritrovavo i suoi risultati più umani appunto nella sua poesia più pura. Per tutto questo da molto tempo volgevo nella mente l’idea non tanto di uno studio sul Pascoli, quanto di una scelta, che fosse tutta mia e il più possibile giustificata criticamente, della poesia pascoliana. La mia tesi, dunque, non vorrebbe essere altro che la giustificazione per una mia antologia di quella lirica; e, poi, un commento alle poesie e ai luoghi scelti. Il mio titolo potrebbe dunque essere: Prolegomeni a un’antologia della lirica pascoliana. Le sembra accettabile?
Spero ardentemente di sì, poiché vorrei mettermi subito al lavoro, aiutato anche dal mio amico Serra, il quale, come forse le avrà detto, sta facendo una tesi sulla bibliografia pascoliana. La prego tanto di scusarmi per il ritardo e la precipitosità con cui mi sono rivolto a Lei; ma spero che Lei sia tanto buono da comprendere la precarietà della mia condizione.
Rispettosi saluti
Dev.mo Pier Paolo Pasolini