Nel 2004 Pippo Delbono, geniale mente creativa del teatro contemporaneo, debuttò al Festival di Avignone con lo spettacolo Urlo, giovandosi anche della partecipazione straordinaria di Umberto Orsini, Giovanna Marini e la banda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio.
Come ogni spettacolo di Delbono, Urlo era un viaggio che andava dritto al centro delle emozioni, un’opera rituale dove si incrociavano la danza, il canto, la musica, la pittura, le parole. Tutte componenti chiamate a superare i limiti gli uni delle altre, per esprimere l’inesprimibile in maniera esplosiva.
Urlo era uno spettacolo sul potere, un grido contro le sue sopraffazioni, sul dolore e la sconfitta di chi lo subisce, ma anche il segnale di una spiritualità che riesce a emergere dalla natura umana e generare un vitale percorso di scoperta. In scena una compagnia di venti attori dal vissuto molto differente – i compagni di strada “non attori” Nelson, Gianluca, Gustavo, il piccolo Bobò, ma anche danzatori come Pepe Robledo e attori professionisti – si muoveva assieme ai musicisti di una banda di paese, in una scena che richiamava le espressionismo lancinante di Francis Bacon e la forza dirompente delle avanguardie. Energia pura che si diffondeva, mentre la colonna sonora dello spettacolo oscillava dal canto di Giovanna Marini ai successi da juke box anni Sessanta, dalla polifonia del repertorio sacro cinquecentesco agli accompagnamenti popolari dei pezzi per banda, mentre ancora una volta – come un leit motiv – ritornavano le parole talismano del Che: «una grande rivoluzione non può che nascere da un grande sentimento d’amore».
Su quel suo indimenticabile lavoro lo stesso Delbono si autodefinì con acute parole. «I miei spettacoli passati – scrisse – hanno quasi sempre parlato di malattie fisiche, di dolori, lotte, follia. Ora l’urgenza che avvertivo era sì verso una malattia, ma nuova, di diverso tipo. Esistono malattie che non sono più riconoscibili in quanto tali, ma per questo più mostruose, più terribili, nascoste, difficili da scoprire, anche in noi stessi. Come il potere. Un male che ci portiamo dentro e che si sviluppa in modo sottile. Certo, c’è quello dei Bush o dei Berlusconi, il potere plateale di chi gestisce la sorte di tante persone… Ma più vasto, più malefico ancora è il potere come sottile aspirazione che coltiviamo tutti noi, alimentato dall’arroganza e dall’io. Quella tentazione di identificare la propria persona nel momento in cui ha qualcun altro da sottomettere. L’essere umano che ha bisogno, per affermarsi, di tenere in pugno un suo simile.
Noi abbiamo dimenticato. Guardando gli sciamani dell’America Latina ho avuto l’impressione che fossero tra i pochi portatori di una storia dell’umanità dimenticata, uomini che portano dentro di sé un segreto, forse la possibilità di un mondo diverso. Ma gli uomini credono di essere immortali, e questo è il segno più evidente della loro ignoranza. Che non vuol dire non aver letto. La conoscenza è un’altra cosa. Conoscenza e cultura sono soprattutto accettazione di noi stessi, dell’essere umano e di ciò che ti sta attorno, del proprio essere fragile, mortale. Ma no, noi crediamo che la cultura sia quella che ti dettano gli intellettuali, dominati dalla loro mente, altra forma terribile di potere. La mente che ti comanda, che non ti permette più di ritrovare il bambino che è in te, che non lascia riscoprire quella semplicità che evocava Socrate quando diceva «so di non sapere».
Per me il teatro è il luogo in cui voglio condividere tutto questo con gli altri. Certo, anche un palco è un luogo di potere e anch’io porto i limiti dell’intellettualità. Ma credo che aver toccato certe zone della vita come il dolore, la malattia, il senso di morte, mi abbia fatto crescere un po’. E mi abbia messo delle antenne che mi fanno avvertire tutt’intorno quest’aria malata di potere.
Urlo è un grido. Quello del neonato, ma anche lo strazio del torturato, la furia dell’arrabbiato che chiede la fine del tempo iniquo, proclama l’urgenza di un mondo più umano. Nella lingua dei poeti, Urlo è anche l’ululato del vento, dei lupi e della schiera dei potenti, il ringhiare dei cani da guardia dell’ordine dominante, il clamore della moltitudine del popolo non sottomesso.
Ma grido anche il bisogno del bambino, grido la voglia di libertà. Perché il potere è anche quello che ognuno di noi ha di cambiare il proprio destino. Diceva Chaplin: “Pensa alla forza che fa crescere gli alberi, pensa alla forza che fa girare l’universo. E poi pensa che quella stessa forza è dentro di te”».
(dal sito www.pippodelbono.it)
Nel maggio 2005, sull’eco di quel suo spettacolo e nel clamore per la ritrattazione del reo confesso Pino pelosi per l’assassinio di Pasolini, Delbono compose un “canto” per il poeta massacrato, compagno di strada di irriducibile energia polemica. (af)
Un canto per Pier Paolo Pasolini, il poeta colpevole che non si è mai pentito
di Pippo Delbono
“Liberazione” – 17 maggio 2005
La solitudine: bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune […]
non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene […];
col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi […]
Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri
– e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,
tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,
essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;
più caldo e vivo è il corpo gentile […]
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso […]
egli si porta dietro una giovinezza
enormemente giovane; e in questo è disumano,
perché non lascia tracce, o meglio, lascia una sola traccia
che è sempre la stessa in tutte le stagioni.
Un ragazzo ai suoi primi amori
altro non è che la fecondità del mondo […]
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere,
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.
Parole tratte dai Versi del testamento di Pasolini (in Trasumanar e organizzar, ndr). «Il mondo è santo, l’anima è santa, il naso è santo, la bocca, la lingua, il cazzo è santo, il buco del culo è santo, ogni cosa è santa, ogni uomo è santo…» (Allen Ginsberg, da Jukebox All’idrogeno,ndr). Altre parole ispirate a Ginsberg che grido nello spettacolo Urlo, spettacolo che parla del potere.
«Non ti voglio uccidere subito, perché vorrei poterti uccidere mille volte», diceva un carnefice ad una vittima nel film Salò di Pasolini, il film sacro che più di ogni altro racconta la malattia agghiacciante della macchina del potere. Parole che risuonano in questi giorni facendo riemergere torture nascoste in villette romane, stragi impunite, un omicidio velato per anni sotto le sembianze di devianze sessuali.
«Io non so se la legge è giusta o se la legge è ingiusta, so soltanto che noi viviamo in un carcere
circondati da mura troppo alte…» (Oscar Wilde, Ballata del carcere di Reading) per vedere, per capire chi sono i colpevoli, chi sono gli innocenti, chi sono le vittime, chi sono i carnefici, chi sono i mandanti.
Non ho ancora visto una piazza dedicata a Pasolini, una strada, una scuola, un ospedale, un teatro. Forse ne esistono ma non le ho ancora viste. Le ho viste dedicate ad attori famosi, forse prima o poi saranno dedicate a qualche personaggio della Tv e ancora a qualche politico o scienziato o poeta classico.
«Ho visto le menti migliori della mia generazione […] che venivano espulsi dalle accademie come pazzi, […] per strade di negri, […] che venivano trascinati dal tetto sventolando genitali e manoscritti» (Allen Ginsberg, Urlo, 1955). In quel luogo abbandonato ad Ostia vicino al mare, in quell’Idroscalo stanno le ferite profonde, nascoste, mai curate, della nostra generazione.
Al poeta morto trucidato in quel terreno di periferia sono state attribuite le mediocrità, le falsità, le perversità nascoste sotto i matrimoni corretti, i figli istruiti, le mogli carine e sorridenti, sotto le tuniche dei prelati inquisitori, quelle malattie nascoste che non appartengono a chi scelse già negli anni ‘70 di manifestare chiaramente e senza paura i suoi amori, le sue passioni, la verità su se stessi e sul mondo.
Pasolini che denunciava il fascismo dietro la democrazia, il perbenismo dietro il comunismo, la rigidità morale dietro l’apparente libertà.
Pasolini il colpevole che non si è mai pentito.
Pasolini il poeta che danzava contro il triste cammino di un mondo verso la normalità come accettazione della menzogna.
«Prenditi tu, sulle spalle, questo fardello […]: portalo tu». È meraviglioso. «E io camminerò leggero, andando avanti,, scegliendo per sempre la vita, la gioventù». E così io me ne starò qui, sulle rive del mare, dove ricomincia la vita.
Ad Ostia, in quel cimitero solitario, a lungo abbandonato, da quel giorno di inizio inverno, riemergono di nuovo le scintille della necessità di un mondo nuovo.
[info_box title=”Pippo Delbono” image=”” animate=””]frequentò durante il liceo la scuola di teatro di Savona, dove incontrò l’attore argentino Pepe Robledo, scappato dalla dittatura del suo paese.All’inizio degli anni Ottanta si trasferì insieme a lui in Danimarca, dove si unì al gruppo Farfa, diretto da Iben Nagel Rasmussen, attrice storica dell’Odin Teatret. Prendendo parte ai viaggi ed alle opere del gruppo, si impadronì delle tecniche dell’attore danzatore dell’Oriente, che avrebbe in seguito approfondito nei successivi soggiorni in India, Cina e Bali.Ritornato in Italia, cominciò a lavorare al suo primo spettacolo, Il tempo degli assassini, che debuttò sui palcoscenici italiani nel 1987, dopo una lunga tournée attraverso non solo teatri, bensì anche carceri e villaggi popolari sudamericani. Già nella prima opera si definirono i tratti di un linguaggio teatrale che avrebbero caratterizzato tutte le creazioni seguenti.Sempre nel 1987 incontrò Pina Bausch, su invito della quale Delbono partecipò ad uno dei lavori del suo Wuppertaler Tanztheater. Fu questa una tappa fondamentale nel percorso artistico del regista, in cui danza e teatro si fondono.
Due anni dopo scrisse Morire di musica, una creazione poetica minimale e silenziosa, allestita in una grossa stanza piena di barchette di carta. Seguì, nel 1990, Il Muro, primo suo allestimento corale con attori e danzatori. Nel 1992 fu la volta di Enrico V, tratto da Shakespeare, la sua unica opera ispirata ad un testo teatrale, della quale impersonò il re. Ne La rabbia, un omaggio a Pier Paolo Pasolini creato nel 1995, si può riscontrare la fase iniziale di un modo di fare teatro compiutamente espresso in Barboni, vincitore del premio speciale Ubu 1997 «per una ricerca condotta tra arte e vita» e del premio della critica nel 1998.
Seguirono due recitazioni corali, intitolate Itaca e Her bijit (formula di congedo in lingua curda, “che tu possa vivere per sempre”), entrambe indagatrici dei grandi spazi: la prima fu allestita nel cantiere navale di Pietra Ligure con quaranta persone, fra attori ed operai; la seconda, con attori, musicisti, extracomunitari e rom, fu composta per la Biennale di Venezia.
Attraverso il successivo Guerra, del 1998, e Esodo, dell’anno seguente, opera dove il montaggio si avvicina ad una sorta di composizione cubista, Delbono proseguì l’avventura umana e artistica con le persone che costituiscono la sua compagnia.
Nel luglio 2000 debuttò nel comune siciliano di Gibellina Il silenzio, che parla del terremoto del Belice del 1968; fu rappresentato sul “Cretto” dello scultore Alberto Burri, un grande sudario di pietra bianca che ricopriva la città in macerie. Nel 2002 fu la volta di Gente di plastica, al Teatro delle passioni di Modena, un universo visivo esuberante che si fonde con la musica rock di Frank Zappa ed il testamento poetico di Sarah Kane. Urlo ha debuttato al Festival di Avignone il 13 luglio 2004, con la partecipazione straordinaria di Umberto Orsini, Giovanna Marini e la banda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio.
Nell’agosto 2006 Delbono partecipa al Progetto Thierry Salmon in veste di maestro per lo stage dal titolo la danza del corpo e delle parole con giovani attori provenienti da 5 stati europei sotto la direzione artistica di Franco Quadri.
Nel 2006 è regista e attore nel film autobiografico Grido per il quale riceve anche il premio di miglior attore protagonista al Sulmonaciname Film Festival.
Per la prima volta il 6 settembre 2007 a Spoleto nei panni di regista di opera lirica si cimenta con un altro illustre debutto ovvero l’opera lirica “Obra Maestra” tratta da un progetto inedito di Frank Zappa, scritta dal veneziano Giovanni Mancuso con libretto di Pilar Garcia, opera già premiata come vincitrice della VII Edizione del Concorso Internazionale per Nuove Opere di Teatro Musicale da Camera Orpheus.
Nel 2011 presenta a Padova lo spettacolo Dopo la battaglia. Molto incentrato su musica e danza, si avvale dalla presenza in scena del violinista Alexander Balanescu e dell’étoile dell’Opéra di Parigi Marie-Agnès Gillot. Molti i temi affrontati: dalle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia alla follia. Si sente la voce di Alda Merini che parla della sua permanenza in manicomio, e si vedono alcuni video girati negli ospedali psichiatrici. Il ruolo di Bobò diventa centrale: innumerevoli e sempre riusciti i suoi travestimenti. Lo stesso anno recita nel film televisivo Il sogno del maratoneta, per la regia di Leone Pompucci.[/info_box]