Nel 1981 uscì per Mondadori il libro Morte di Pasolini di Dario Bellezza, un poeta che era stato proprio Pasolini a scoprire e valorizzare e che, dopo il massacro dell’Idroscalo di Ostia, continuò a compiangere con dolore l’assenza del suo mentore-amico. Di quel libro Domenico Porzio (“Panorama”, 14 dicembre 1981) rilevò “la perentoria felicità con cui un poeta legge un poeta: lo legge con una rabbia, con una ingordigia e con una violenza che forse non chiedono di essere condivise, ma che enucleano verità le quali, altrimenti, non sarebbero state estratte dal doloroso corpo dell’opera di Pasolini”. Un coinvolgimento emotivo e viscerale che traspare anche dal libro Ricordo di Pasolini, uscito postumo nel 2009 per le edizioni Via del Vento di Pistoia, e anche dai testi che “Pagine corsare” ha pubblicato nel 2009. Si tratta di una testimonianza in prosa e di due poesie, una delle quali scritta nel 1976, un anno dopo la morte di Pasolini.
Ricordi in versi e parole a PPP di Dario Bellezza
Ricordo di Pasolini
Io non sono mai molto lucido quando parlo di Pasolini. I rapporti che ho avuto in vita con lui mi proibiscono di parlarne in maniera oggettiva. Confesso dunque che mi metto sempre dentro il margine della visceralità e della soggettività. D’altronde, c’è un altro meccanismo che mi scatta dentro, dato che è chiaro che proiettavo, identificavo su Pasolini una figura grosso modo paterna e anche materna.
Il padre, diciamo così, era l’ideologia, era l’intelligenza, era la sapienza. La madre, invece, era la poesia. Mi sento scrutato, giudicato da Pasolini, continuamente. E’ come se fosse stato un grande dio che, purtroppo, ha dimostrato il suo difetto, la sua mortalità. Morendo Pasolini ha compiuto su di me una specie di esorcismo e mi ha lasciato libero di continuare per la mia strada.
Io non so qual è la mia strada. E’ la strada di un emarginato, di uno zingaro, di uno che ha scelto di non compromettersi se non in una compromissione feroce, forse anche in questo pasoliniana, nei confronti della società italiana.
Pasolini diceva: «Voglio lasciare l’Italia». Era uno dei suoi leitmotiv degli ultimi tempi. Nel dirlo c’era l’ironia di chi sa che, in realtà, non può farlo e forse anche la prefigurazione della sua morte. Io credo che tutti noi lo sappiamo e un poeta poi lo sa, forse, non perché ha dei poteri medianici o telepatici o di intuizione superiore a quella degli altri, ma lo sa per una specie di magico rapporto che ha con la realtà.
Pasolini sapeva da premonizioni, da sogni, dall’inconscio che si svelava attraverso i sogni, che la morte lo doveva colpire. Non gli piaceva la vita. Non gli piaceva più la realtà, diciamo la verità.
La verità è quella che Pasolini ha firmato, concludendo la sua vita terrena. Lasciamo stare il fatto oggettivo, politico, della sua morte per mano dei fascisti, come io sono convinto che sia. E’ proprio per ragioni di poesia. Ci arrivo attraverso la poesia, non attraverso la politica, l’ideologia, a spiegarmi quella morte, perché solo chi è impoetico totalmente, chi è barbaro, chi è nero, può pensare di uccidere un poeta come Pasolini.
Pasolini mi ha lasciato libero e io, di questa libertà, non so che farmene.
Non so che farmene, soprattutto perché mi sembra una condanna superiore a qualsiasi prigionia a cui lui mi costringeva. Questo è l’amore che io ho per Pasolini. Parlarne, per me, adesso, non è più neppure uno strazio, è una specie di confessione di fronte a questo dio che mi ha tradito. […]
La tradizione non è un fatto reazionario, è un fatto rivoluzionario scoprirla e nutrirsene. Quando lui diceva «sono una forza del Passato», era la più grande provocazione che possa fare un uomo di cultura oggi, perché è il passato che uccide il presente e uccide il futuro. […]
Per cui mi sento colpevole, mi sento vittima di questo mio senso di colpa, mi sento orfano e tutti questi scatti, emozioni psicologiche che dentro di me convivono, non lasciano spazio ad una possibilità di oggettività. E’ un fatto traumatico, l’amore. Diceva Pasolini: «Solo l’amore conta. Solo il conoscere. Non l’aver amato, non l’aver conosciuto». Io qui, in questo momento, sono consapevole che non mi libererò del fantasma di Pasolini finché non troverò pace, diciamo così, in un amore verso me stesso. Il fatto che però possa amarmi, possa chiarirmi, viene offuscata dalla possibilità che Pino Pelosi sia fatto uscire, magari fra qualche giorno, solo per il fatto che ha ucciso un grande poeta, un grande artista come Pasolini e solo perché è questo che la società italiana voleva. La società italiana è una comunità di false interpretazioni sociologiche, repressa e fascista nel profondo, e non produce che mostri, nonostante tutti quelli che l’abbelliscono, la impreziosiscono con orpelli modernistici. Per cui i Pino Pelosi devono essere assolti, per carità, per confermare questo tipo di società che non prevede altro che orrore e menzogna.
E’ un paese di menzogne, di perfidie, di mostruosità, mai portate sul piano della ragione. […] La vita di un poeta è la vita di chi arricchisce la collettività. Siccome s’è perso, però, il senso di che cos’e un poeta e che cos’è la poesia, allora è vero che la vita di un poeta vale molto di meno di una qualsiasi checca morta sotto un ponte. Perché di questo Pasolini è contento: valere molto meno di una checca, allora sì, ma non valere quanto una checca. E non che sia spregevole essere checca, intendiamoci, ma perché la poesia la conosce, la sa soltanto chi capisce che cos’è veramente. Io non lo so spiegare. D’altronde non c’è riuscito nessuno a spiegare cosa sia la poesia. Son cose che o si sentono o non si sentono.
Dopo un anno, feroce giorno in cui un poeta è caduto
Pasolini sparito, ucciso come un cane bastardo
in una sgomenta periferia di fango in un giorno di novembre
mai più ritornerai in questa Italia del miracolo
dove la tecnocrazia fra poco trionferà, il conformismo
dei nuovi padroni, laidi nazisti atei o cattolici di un dissenso
solo nominale che perseguita i diversi, distruggendo
ogni anarchia, ogni bellezza ideale;
vista mai dimenticata per te vivendoti accanto
per tanti anni ormai poeta dimenticato, incrostato
nelle tue menzogne radiose di poeta civile
sublime compagno di notti in terra ferma
parlando di libri e di amori.
Pasolini, ti hanno ucciso, non meritavi di morire
né di vedere lo scempio del tuo corpo sacro
mentre tutti i poeti ermetici neorealistici o avanguardisti
coprono con le loro poesie di fetore l’umile Italia
e il mondo, né sanno quando tutto prenderà la via dell’Eterno
e le morte stagioni sapranno l’odore della tua scomparsa
immedicabile ferita mi avanza per tutto il resto della vita
abbandono il sentimento e la fortuna vuole che io sappia
sopravvivere al lutto, ma è come fosse ancora il primo giorno
della tua partenza da questo unico consesso dei vivi.
[1976]
A Pier Paolo Pasolini
M’aggiro fra ricatti e botte e licenzio
la mia anima mezza vuota e peccatrice
e la derelitta crocifissione mia sola
sa chi sono: spia e ricattatore
che odia i suoi simili. E non trovo
pace in questa sordida lotta
contro la mia rovina, il suo sfacelo.
Dio! Non attendo che la morte.
Ignoro il corso della storia. So solo
la bestia che è in me e latra.
[info_box title=”Dario Bellezza” image=”” animate=””]nato a Roma il 5 settembre 1944, poeta, scrittore e drammaturgo, fu scoperto e lanciato da Pasolini, del quale per diversi anni curò la corrispondenza; il poeta friulano, in seguito alla pubblicazione della prima raccolta di poesie Invettive e licenze (1971), lo definì « Il miglior poeta della nuova generazione ». In precedenza si era già posto all’attenzione dei lettori con l’Innocenza (1970), romanzo breve col quale esordì e di cui Alberto Moravia scrisse la prefazione: è storia di un’adolescenza tormentata con precise connotazioni autobiografiche. Seguirono i romanzi Lettere da Sodoma (1972) e Il carnefice (1973), ispirati anch’essi alle esperienze personali dell’autore. Nel 1976 vinse il Premio Viareggio per la sua raccolta di poesie, Morte segreta, edita da Garzanti.
La poesia di Bellezza si è spesso ispirata a temi autobiografici, fra i quali spicca l’amore omosessuale (vissuto con un sofferto atteggiamento maledettista, nella ricerca ossessiva di un “bellissimo assassino” fra drogati e prostituti), e inizialmente risente dell’influenza dei poeti simbolisti e dell’opera di Sandro Penna. Angelo (1979) è una testimonianza commossa al grande amore della sua vita: la letteratura. Successivamente pubblicò Turbamento (1984), L’amore felice (1986) e Nozze col diavolo (1995).
Collaborando dal 1978 con la casa editrice Pellicanolibri, contribuisce alla pubblicazione di autori esordienti o non più accettati dalla grande editoria come Anna Maria Ortese e Goliarda Sapienza. Per la prima, insieme ad Adele Cambria e Beppe Costa, riuscirà a fare applicare la Legge Bacchelli a sostegno degli artisti in difficoltà economiche.
Per Garzanti tradusse l’intera opera di Rimbaud, suo poeta di riferimento soprattutto negli anni della giovinezza. Malato di Aids dal 1987, muore in povertà e solitudine il 31 marzo 1996 a Roma, dove è sepolto al Cimitero acattolico. Negli ultimi anni della sua vita usufruì della Legge Bacchelli. [fonte Wikipedia][/info_box]