La partitella non giocata all’Idroscalo di Ostia, di Giulio Mancini (2005)

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Fondo Angela Molteni

La vita

In una toccante rievocazione, che vale anche come documento, Giulio Mancini si immedesima nei ragazzini che avrebbero dovuto giocare una partitella all’Idroscalo di Ostia nella gelida mattina del 2 novembre 1975. Doveva essere una sfida tra le squadre di via dei Panfili e di via dei Traghetti, ma  la scoperta del corpo massacrato del poeta Pasolini sul campetto vicino al luogo del delitto, ne impedì lo svolgimento.

Quella partita all’Idroscalo che non si giocò più
Era una domenica piovosa: Stefano “mocciolo” e Angelo “er gazzella” trovarono il corpo del poeta 

di Giulio Mancini

“Il Messaggero” –  9 maggio 2005

Era domenica. Il giorno prima, 1° novembre, era piovuto a dirotto. Perciò Andrea “lomumba”, Stefano “mocciolo” e Angelo “er gazzella”, diversamente dal resto della squadretta, non volevano giocare: il campetto all’Idroscalo, l’unico gratis a Ostia, sarebbe stato poco più di un acquitrino. La sfida contro la ciurma di via dei Traghetti, però, imponeva a noi di via dei Panfili uno scatto d’orgoglio e capacità di sacrificarsi.
Appuntamento al campo alle 8. Faceva un freddo che ghiacciava persino la colatura del naso a chi, come noi, cavalcava bici e scalcinati motorini per arrivare in quell’estrema lingua di Ostia. Nonostante l’ora presta, la “sardegnola”, donna perduta amica dei giovanotti per i suoi servizi economici, aveva già la stufa accesa, come rivelava il filo di fumo bianco che si sollevava dalla prima baracca vicina a Tor San Michele. Per il resto stamberghe di calce e lamiera, case di una dignitosa sofferenza vissuta davanti al mare, tra pecore al pascolo ai piedi della torretta di Michelangelo.

Pasolini e il calcio. Foto di Garolla
Pasolini e il calcio. Foto di Federico Garolla

Era gremito il campetto. Quei balordi di via dei Traghetti s’erano forse portati la claque, gente minacciosa di parola e di mano? No. Niente tifo né partita: il capannello di curiosi era lì per guardare a braccia conserte un mucchio di cenci sanguinolenti. C’era un corpo; si intuiva dal braccio scoperto nonostante il gelo e piegato in modo innaturale sotto il busto. Il commissario Baradan, una pasta d’uomo dall’aspetto egiziano, si aggirava nei pressi. Confabulava con i poliziotti in divisa, indicava, parlottava con chi stava manipolando quel corpo irrigidito dal freddo e dalla morte. Tutt’intorno un brusìo reso confuso dal vento. Chi poteva aver stracciato quella vita in modo così orribile? Perché? Ma, soprattutto, chi era l’uomo dal viso schiacciato, mascherato di sangue e sabbia? Baradan carpì il segreto dell’identità violata. Ma non fece parola. A passo svelto andò da Bubi, mitico capitano di mare, costruttore di barche nel vicino cantiere Canados, per usare il telefono e comunicare tutto ai superiori romani.
Era Pasolini, ma lo sapemmo solo nel pomeriggio. Era venuto a morire sul nostro campetto di calcio. Il destino lo aveva chiamato a finire la sua vita tra le baracche, in una borgata come tutte quelle che aveva descritto nelle sue opere. Uno scenario ideale persino per Ettore Scola che, poche settimane prima, vi aveva ambientato Brutti, sporchi e cattivi nella parte dove “Giacinto” Manfredi, avvelenato dalla famiglia, riusciva a liberarsi del topicida grazie alle sorsate di acqua di mare. Non sapeva Pasolini che, pur restando indimenticato scrittore e regista, la memoria della sua fine sarebbe stata cancellata da un porto. Unici emblemi rimasti: la scrostata stele in cemento di Mario Rosati ed il ricordo di quei ragazzini che annullarono la sfida per rendere omaggio a chi la partita con la vita l’aveva persa poche ore prima.