Nel 1994 il giornalista e critico letterario Giorgio Calcagno, già direttore del supplemento “Tuttolibri” de “La Stampa” (è scomparso nel 2004), ha incontrato a Casarsa un gruppo di ex allievi friulani di Pasolini. Da ragazzi essi avevano potuto avvalersi del suo insegnamento, in una scuola privata aperta dapprima a San Giovanni, una frazione poco distante dal paese, e poi, una volta chiuso d’ufficio quel primo esperimento pedagogico, a Versuta, minuscolo borgo contadino del casarsese dove il poeta era sfollato con la madre nell’ottobre 1944. In tutti appare viva la riconoscenza verso quel mite e geniale maestro, che aveva saputo elevarli alla cultura, alla coscienza di sé e al riscatto sociale.
La carrellata dei ricordi-testimonianze di questa “meglio gioventù” contadina è apparsa su “La Stampa” il 24 maggio 1994 e poi è stata ripresa su “Pagine corsare”.
Il professor Pasolini. Gli scolari-contadini del 1945 ricordano le lezioni dell'”Academiuta”
di Giorgio Calcagno
“La Stampa” – 24 maggio 1994
“La meglio gioventù” ha superato da tempo i sessant’anni. Quasi tutti hanno i capelli grigi, qualcuno bianchi. C’è chi è rimasto a Casarsa, chi è emigrato lontano: la sorte non è stata equamente benigna, ma più d’uno ha fatto carriera. E ritornano tutti qui. Sono i compagni e gli allievi di Pasolini, gli ex contadini sottratti alla terra negli anni ’40 per imparare il latino e il greco nella scuola privata che lo scrittore teneva dove poteva; spinti a scrivere, in versi e in prosa, per l’Academiuta di lenga furlana fondata da Pasolini nel febbraio ’45. Dal gruppo sono usciti artisti e dirigenti industriali, c’è chi ha pubblicato libri e chi ha fondato aziende, ma anche operai e impiegati. Tutti riconoscono che oggi, senza la scuola di Pasolini, sarebbero ancora lì, a tirare una vita grama, poveri come erano sempre stati. Lo scandalo, che ha costretto lo scrittore a lasciare il Friuli, riguarda altri; loro non se ne sentono neppure sfiorati.
Li abbiamo incontrati tutti insieme, in una delle loro riunioni, promossa per il nostro giornale dal Comune di Casarsa, nella sede dell’Archivio Pasolini. Che cosa ha significato, per ciascuno di loro, l’incontro con Pier Paolo? E in che modo ha determinato la loro vita? Ecco le loro confessioni.
Cesare Bortotto, classe 1922, ex dirigente delle ferrovie in pensione.
“Io sono coetaneo di Pier Paolo, l’ho conosciuto nel 1939, quando lui veniva su per le vacanze. Noi eravamo poveri ragazzi di campagna, lui aveva saltato la quarta elementare e una di ginnasio. Ma mi invitava a Bologna, divenni di casa. Nell’agosto del ’42 ci portò le Poesie a Casarsa, scritte in friulano: e fu una scoperta per tutti noi. Dopo l’8 settembre, con i bombardamenti, fondammo una scuola privata a San Giovanni, per i ragazzi che non potevano più andare a Udine. L’idea era sua, io ero l’economo. Raccolsi le quote di novembre, poi il provveditore la fece chiudere: era “fuori da ogni regola”. Quando Pier Paolo fondò l’Academiuta, nacque l’idea dello “Stroligut”, che raccoglieva i testi. Il tipografo di San Vito chiedeva 900 lire e ce le siamo divisi in tre, Pier Paolo, il maestro Castellani e io. Poi io ho fatto il ferroviere, mi sono spostato in tutta Italia, per qualche anno ci siamo scritti. Nel ’56 mi mandò ancora l’indirizzo di Gadda, su cui io mi ero laureato a Urbino. Ma io ero ormai un appartato di fronte al volo che Pasolini faceva”.
Bruno Bruni, classe 1929, insegnante e fotografo, poeta.
“Io sono coetaneo di Nico Naldini, ho fatto le elementari con lui, così ho potuto conoscere Pier Paolo prima di altri. Nel ’43 sono stato allievo della sua scuola a San Giovanni. Quando il provveditore l’ha fatta chiudere, Pasolini ci ha dato lezioni in casa sua. E’ lui che ci ha spronato a scrivere. Ma non ci ha mai plagiato, era rispettosissimo di quello che avevamo dentro di noi. Nel ’45 sono stato fra i fondatori della Academiuta. Poi nel ’50 la mia famiglia si è trasferita a Venezia, mi sono diplomato maestro, ho fatto il fotografo, nel gruppo di Reuter, Monti, Berengo Gardin, ho vinto anche importanti premi. Dopo essermi sposato ho dovuto scegliere, e ho scelto l’insegnamento. Ho visto ancora Pasolini varie volte alla Mostra di Venezia, ma lui era preso dal vortice del Festival. Quello che ha lasciato in me è grandissimo. Non so che cosa avrei fatto se non lo avessi incontrato. Ci ha insegnato a capire e a dare senso alle parole, tirava fuori da dentro di noi quello che noi non sapevamo di avere”.
Ovidio Colussi, classe 1927, dirigente e imprenditore, scrittore, per dieci anni sindaco di Casarsa.
“Io sono fra quelli che hanno frequentato la scuola privata di Pasolini a San Giovanni. Io ero un ruspante, dopo la quinta elementare ero andato a lavorare nei campi; poi ero stato in collegio a Torino. Senza Pasolini non avrei potuto continuare gli studi; mi inculcava la voglia di andare avanti, non mi faceva pagare le lezioni. Ho cominciato a scrivere in friulano. E lui mi correggeva a mano le poesie, eccole qua, con i suoi segni. Ma correggeva poco, rispettava molto; e io avevo 17 anni. Ho imparato a scrivere in friulano da lui. Politicamente, io l’ho sempre visto dall’altra parte, perché lui è diventato comunista e io sono rimasto all’Azione Cattolica. Ma lui, con la sua consueta cortesia, continuava a correggere le poesie che gli portavo, perché diceva che un giorno le avrebbero pubblicate: com’è avvenuto. Sono diventato dirigente alla Rex di Pordenone, poi ho iniziato una attività in proprio, ho avuto fino a 130 dipendenti; la mia azienda era una fra le più affermate in Europa. Se non avessi conosciuto Pasolini, finivo alla seconda avviamento”.
Fedele Girardo (Ghirart), classe 1926, impiegato comunale.
“Ho trascorso tutte le sere dell’autunno ’44 nella casa dove Pasolini abitava con la mamma a Versuta, durante i bombardamenti. Poi andavo a dormire nel fienile. Nel ’45 abbiamo fondato l’Academiuta, io ero il cassiere; ho partecipato a varie riunioni, la domenica pomeriggio. Ognuno leggeva i suoi scritti, poi si discutevano. Pasolini faceva discorsi letterari che io capivo come potevo; ma eravamo spronati a esprimerci anche nella ricerca dei proverbi, motti, filastrocche. Pasolini è stato buono con me, perché ha accettato di pubblicarmi un racconto, poi ho preferito lasciare lo spazio agli altri. Questo non mi è servito molto nel mio lavoro: ma il ricordo è bello”.
Luigi Colussi (Gigion), classe 1926, albergatore.
“Abitavo davanti alla casa di Pasolini, lo vedevo sempre. Ricordo sua mamma, Susanna Colussi. La radio non esisteva, a Casarsa, loro l’avevano. Mi piaceva la musica. E sua mamma mi chiamava quando c’era un’opera lirica. Ma io non osavo entrare in casa, vestito da contadino com’ero; mi sedevo sul gradino, fuori, e ascoltavo. Poi Pier Paolo mi ha chiesto di portargli degli amici per fare un coro friulano, lui scriveva i testi, la sua amica slovena Pina Kalz la musica. Il vero friulano l’ho imparato da lui. Mio padre aveva il bar, poi abbiamo aggiunto l’albergo: e quando Pier Paolo tornava a Casarsa veniva a dormire da me. Un giorno mi ha portato la Callas, nel mio albergo. E chi non la presenta a Gigion?”.
Tonuti Spagnol, classe 1930, dirigente di assicurazione.
“Io ho conosciuto Pasolini sul campo di calcio, a Casarsa, poi sono stato suo allievo. Si accorse che non avevo fatto l’esame di ammissione e mi portò a Portogruaro in bicicletta: mi insegnava per strada le materie in cui ero rimasto indietro. Al secondo esame siamo andati con il carretto e il cavallo, che ci aveva prestato mio nonno: 25 chilometri. I due anni che ho fatto con lui valgono come due anni di Università. Quello che ci ha insegnato è stato come una catapulta, per passare da una cultura contadina a una universale. Poi ha cominciato a farci scrivere dei racconti, a fare poesia. Io mi sono diplomato maestro, mi sono iscritto a una scuola per periti in infortunistica; ho fatto carriera, oggi sono io istruttore in una società di assicurazioni. Lo devo a lui, che ci ha insegnato la capacità di trasmettere agli altri. Senza il suo insegnamento, saremmo stati dei disperati, emigranti, braccianti mal pagati. Saremmo dei contadini senza niente”.
Dino Peresson, classe 1930, bidello in pensione.
“Io ho fatto solo la quinta elementare, ma ho avuto la fortuna di conoscere Pasolini nel ’45, ci siamo divertiti molto a ballare, cantare, mangiare e bere per le osterie. Ma la cosa che mi è rimasta più impressa è che aveva una particolare attenzione per i meno intelligenti. Io ero molto povero, senza padre, ultimo di cinque figli, e lui mi teneva sotto l’ala. A 17 anni avevo tentato la fortuna in Jugoslavia, una completa delusione. Al ritorno in Italia ci hanno preso, siamo finiti in carcere. Pasolini ha voluto che gli raccontassi tutto, per diversi giorni. Io parlavo e lui batteva a macchina, non capivo perché. Stava scrivendo Il sogno di una cosa, la mia storia. Un giorno mi ha detto: “Dino, se non vai a scuola, non farai mai niente nella vita”. Io ho fatto tre anni di scuole serali, sono stato muratore, poi camionista, alla fine ho vinto il concorso per bidello. Così adesso ho la pensione, per me e la mia famiglia. Gli altri possono gridare come vogliono, su Pier Paolo, io so come si è comportato con me: non mi ha mai fatto un cenno, non mi ha mai messo una mano sulla spalla”.
Tonuti Spagnol, accentua questo aspetto.
“Anche a noi, mai un cenno”.
Fedele Girardo.
“Non avrebbe resistito mezz’ora di più, in paese, se ci avesse provato”.
Antonio Spagnol, classe 1914, insegnante in pensione, diacono permanente.
“Io sono stato collega di Pasolini, nella scuola di San Giovanni. Ma ero stato allievo di sua mamma, nella prima elementare. Il primo giorno di scuola, nell’ottobre 1920, in aula c’erano 126 bambini. Le scuole erano state chiuse per la guerra e con noi c’erano tutte le classi, dal ‘9 al ’14. Con i banchi a tre a tre, in 72 metri quadrati. Eppure la maestra Susanna seppe ottenere il silenzio. Ci chiese chi era il personaggio nel quadro alle sue spalle. “Il re”, abbiamo risposto. Lei disegnò la R e la E sulla lavagna; e, per tutta la mattina, ci fece scrivere la parola Re. Pier Paolo ci è sempre rimasto legato, nel Sogno di una cosa la famiglia Faedis è la mia famiglia. Descrive la casa, la stalla, la cucina. «Jot se’ ben», guarda che bello: è il nostro mondo>.