Nel 2000 per l’editore Bietti di Milano è uscito il libro Mio cugino Pasolini, il cui autore Nico Naldini, figlio di Enrichetta, sorella della madre di Pasolini, costruisce con penna asciutta e icastica un agile ritratto del celebre cugino poeta, dai fondamentali esordi friulani alle successive tappe della sua complessa biografia. “Pagine corsare” ha prontamente dato notizia del lavoro di Naldini, che, anche con altri volumi (fondamentale Pasolini, una vita, edito da Einaudi nel 1989), si può considerare il più attendibile biografo di Pasolini.
Integriamo la scheda con parte dell’intervista di Paolo Di Paolo in cui Naldini nel 2011 rievoca con acuta intelligenza ironica alcuni episodi della giovinezza sua e di Pasolini in Friuli, insieme ad alcuni episodi della propria vita personale a Milano e a Roma ( “Corriere della Sera”,18 aprile 2011).
“Mio cugino Pasolini” (Bietti,Milano 2000) di Nico Naldini. Una recensione
Dalla penna di Nico Naldini affiorano ricordi inediti, filtrati dalla consuetudine familiare, che tratteggiano un ritratto in chiaroscuro della complessa figura del cugino Pier Paolo Pasolini. Dagli anni giovanili in Friuli, fino alla tragica morte a Roma, il libro ricostruisce gli avvenimenti che hanno segnato la tormentata vita di Pasolini come uomo e come artista. È in Friuli, narra Naldini, che nascono le prime sofferte pulsioni di un erotismo esplorato nella diversità, l’impegno per la ricerca letteraria, l’adesione al comunismo come scelta definitiva malgrado la morte del fratello nella strage di Malga Porzûs.
Il rifiuto del conformismo, le amicizie, il complesso rapporto con la madre sono aspetti del carattere di Pier Paolo analizzati, in questa biografia, con fine acutezza psicologica, in uno stile narrativo semplice e scorrevole. Di grande efficacia è la descrizione dell’arrivo a Roma, in fuga da uno dei tanti scandali che il comportamento di Pasolini susciterà nella società di quegli anni, e della progressiva scoperta della città eterna, quella ufficiale e quella più segreta e inquietante delle borgate.
Nico Naldini: «Mio cugino Pasolini l’ho idolatrato senza vergogna»
un’intervista di Paolo Di Paolo
www.corriere.it – 18 aprile 2011
( …) La mamma di Pier Paolo, Susanna Colussi, era sorella della mamma di Nico, Enrichetta.
«Mio padre, che era un pilota di automobili da corsa, dopo il matrimonio, a 21 anni, ebbe il morbo di Parkinson. Venne ricoverato in cliniche di lusso con medici che promettevano la guarigione in cambio di quote mensili tremende: in realtà per calmarlo un po’ allora c’era solo l’estratto di belladonna. Mia mamma spese così anche i soldi che non aveva e l’infanzia mia e delle mie due sorelle fu di totale povertà». Suo padre sarebbe morto nel ’50 corroso dalle medicine: «Non ho avuto rapporti con lui, se non nell’aiutarlo a vestirsi o a scendere le scale. Mia mamma l’ha difeso anche contro di noi: era dedita completamente a lui e si inventò diversi mestieri, per colmare i debiti». La famiglia Pasolini non ebbe una vita migliore: «Zia Susanna ebbe una vita più fortunata e insieme più disperata, a causa del marito e della sua alterazione alcolica diventata una forma patologica». Quando, nel ’29, l’ufficiale Carlo Alberto Pasolini fu rimosso dall’incarico per debiti di gioco, la famiglia si spostò a Casarsa, in Friuli, ospite della casa materna: «Mentre nascevo, i miei cugini giocavano nel cortile con un pupazzo di neve. Pier Paolo aveva sette anni e un neonato dava fastidio in casa».
Il primo ricordo del cugino?
«Io arrivo sotto la tettoia dell’ex fabbrica di grappa di mio nonno, ho un gran mal di pancia, faccio una cacchetta per terra, mio cugino mette il piede dentro la cacca e mi rimprovera». Pier Paolo, più in là, sarà per Nico professore di lettere: «Mise su una piccola scuola in casa, durante la guerra e io feci la quarta e la quinta ginnasio con lui. Era affa-sci-na-nte! È diventato famoso nel mondo grazie al suo valore pedagogico. L’insegnamento alla libertà del pensiero viene da lui e dalla sua scuoletta».
I due cugini condividono la paura dei tedeschi.
«Un giorno due partigiani furono uccisi e poche ore dopo il paese fu bloccato dai mezzi corazzati tedeschi. Era un pretesto per rapinare le case. Con Pasolini andammo a rifugiarci nel campanile: passammo lì tre giorni. Pier Paolo aveva con sé la storia della letteratura italiana dell’800 e del ‘900 di Francesco Flora e se l’è letta tutta. Avevamo il terrore che i tedeschi si accorgessero che il meccanismo dell’orologio del campanile si era fermato». Sono gli anni in cui Naldini comincia a scrivere qualche verso e qualche prosa: «Avevo 14 anni, scrivevo raccontini di prosa d’arte sui maggiolini che cadevano dagli alberi e morivano. Non avevo il coraggio di farli vedere a Pasolini, considerato senza nessuna retorica il genio nascente di famiglia. Fu mia nonna a farglieli leggere. Pasolini disse: però, niente male… Mi chiamò per una passeggiata in paese e mi spiegò che cosa significa essere scrittore, l’autonomia, l’originalità… Mi diede dei libri da leggere: Joyce, Rilke, un libro di critica su d’Annunzio… Dopo, sono andato a gran velocità con i poeti spagnoli curati da Carlo Bo, con i lirici greci tradotti da Quasimodo, con i nuovi lirici di Anceschi…». Il giovane Naldini punta sulla poesia in lingua e in friulano: «La domenica c’erano delle riunioni, con altri amici, nella stanzetta di Pasolini: ciascuno diceva i suoi versi come in un’accademia. Pasolini aveva una tensione sempre vigile, il che determinava entusiasmo e vitalità».
Da Casarsa a Milano, nel dopoguerra: un salto non da poco, grazie all’amicizia con Giovanni Comisso, che fa il suo nome alla Longanesi.
«Era l’inizio dell’industria culturale. In Longanesi avevo compiti commerciali: pubblicità, tirature… Molto alienante per me». Nel ’72, Naldini sceglie di raggiungere il cugino a Roma, dove il catalogo dei personaggi incontrati è sterminato: «Da Penna, che era un rompiscatole terribile sempre in cerca di soldi, a Bassani: mi piaceva molto, benché mi rimproverasse una certa superficialità. Nel cinema giravano molti più soldi che nell’editoria, dunque molte più invidie e ghigliottine. Io con manovre tipiche di un Rastignac da strapazzo mi sono conquistato le simpatie di un grande produttore come Alberto Grimaldi. La cosa migliore è stata rifiutare una Dama delle camelie di Zeffirelli».
Come andò?
«Nella sua casa di Positano c’era anche Liza Minnelli, che ballò e cantò per noi, poi ci diede il trattamento di uno scrittore americano. Passai la notte all’Hotel Excelsior di Napoli a leggere e la mattina dissi a Grimaldi: è una gran boiata. E in più sarebbe costato una fortuna. Tornammo in Rolls Royce a Roma, dopo aver rispedito via taxi la sceneggiatura».
La cosa peggiore? «Carmelo Bene, in compagnia di Luigi Malerba, venne a proporre un Pinocchio. Grimaldi disse: date a Naldini. Ammiravo molto Bene e l’avrei ammirato anche dopo. Quando ci stringemmo la mano incrociando le braccia, Carmelo Bene disse: ahi, non se ne fa niente. La trattativa andò avanti, ma per Grimaldi era una cosa iperintellettuale. Così dovetti occuparmi di altri pseudocapolavori». Scoppia a ridere, Naldini. Per esempio? «Bertolucci era reduce dal successo di Ultimo tango e Novecento fu comprato a peso d’oro. Il mio ufficio era anche quello delle sofisticazioni maligne, oltre che delle esecuzioni: dalla sceneggiatura dovevo tornare al trattamento, con tutti gli ingredienti che piacevano ai finanziatori americani. Un lavoro perverso. Il film poi fu quello che avete visto tutti».
Con Fellini fu vera amicizia? «Per carità, Fellini! Non si poteva avere un’amicizia vera con Fellini: era molto solitario, bisognoso di compagnia e soffriva di attacchi nervosi. Se aveva bisogno della tua compagnia, dovevi rimanere a sua disposizione sempre: abitavo in via del Babuino, a dieci metri da casa sua, e lo accompagnavo avanti e indietro a Cinecittà in auto. La domenica, poi, ti chiamava alle 8: Nicolino, andiamo a Fregene? Mi compensava divertendomi molto e invitandomi nei migliori ristoranti».
Oggi, che cosa manca rispetto al passato?
«L’ammirazione e la modestia che sanno riconoscere i valori e il gusto della scelta. C’è un’ élite di giovani bravissimi: ma mi fa paura, una società basata su un’ élite. Non c’è una cultura estesa come hanno sognato i grandi riformatori sociali». Speranze per il futuro? «Non uso mai la parola speranza. È un sentimento che non appartiene alla vita. Bisogna avere la vitalità di realizzare progetti, non speranze».
Anche in vecchiaia?
«In vecchiaia sei già troppo impegnato a camminare senza dimostrare che sei incerto nel passo. Devi controllare la memoria e tenere a bada il desiderio di saperne di più. Certe volte guardo la mia biblioteca e dico: Dio, come sono ignorante. Hai il senso di non aver compiuto doverosamente il tuo percorso e cerchi di riempire i vuoti della tua testa e della tua vita. Ma individuare i vuoti e cominciare a circoscriverli è già qualcosa».
[info_box title=”Domenico (Nico) Naldini” image=”” animate=””]è nato a Casarsa in Friuli. Ha pubblicato Seris par un frut (1948), poesie e traduzioni in friulano, a cura di P. P. Pasolini, edizioni dell’Accademia di Lenga Forlana; Un vento smarrito e gentile (1984), poesie in friulano, veneto e italiano, Scheiwiller; Nei campi del Friuli. La giovinezza di Pasolini (1958), con una conversazione di Andrea Zanzotto (premio Nonino 1985), Scheiwiller; Vita di Giovanni Comisso (1985), finalista premio Strega, Einaudi; La curva di San Floreano (1988), poesie, Einaudi; Pasolini, una vita (1989), Einaudi; De Pisis, vita solitaria di un poeta pittore (1990), Einaudi; Il solo fratello: ritratto di Goffredo Parise (1992), Archinto; Il treno del buon appetito (1995), romanzo autobiografico, Guanda; Meglio gli antichi castighi (1997), raccolta di poesie e prose, Guanda. Nel 2015 Guanda ha ripubblicato i volumi da lui curati P.P.Pasolini, Un paese di temporali e di primule, Romans e Poesie scelte (co-curatela con Francesco Zambon).[/info_box]
*Foto in copertina: © Danilo De Marco