Una sconsolata riflessione dello scrittore e giornalista Roberto Cotroneo all’indomani della ritrattazione di Pino Pelosi (7 maggio 2005) sulla sua responsabilità nel delitto Pasolini. Un omicidio traumatico e vile proiettato e interpretato sullo sfondo melmoso dell’Italia dei misteri e delle complicità. Su “l’Unità” dell’8 maggio 2005.
Un Altro Mistero Italiano
di Roberto Cotroneo
“l’Unità” – 8 maggio 2005
1.Trent’anni. Il 2 novembre del 2005 saranno trent’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini. Una morte violenta. Un assassinio, mai chiarito del tutto. Il 2 novembre, il giorno in cui si commemorano i morti. Nella storia della Repubblica, nella storia sociale e culturale di questo paese, quella data è cruciale. Ferma i ricordi di tutti. La radio, con la voce neutra dell’annunciatore, diceva che era stato trovato il corpo senza vita dello scrittore Pier Paolo Pasolini. In una località isolata, vicino Ostia. L’assassino verrà identificato il giorno dopo. Attraverso una serie di incongruenze e di incertezze che non verranno mai risolte. Ma in quella data si è rotto qualcosa. Da quel giorno c’era poco da tornare indietro. Certo tre anni dopo ci sarebbe stato il 16 marzo del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione dei suoi uomini di scorta; ancora due anni e il 2 di agosto, a Bologna, le macerie della stazione avrebbero ferito a morte tutto il paese, nello scempio di una strage che rende inutile qualsiasi parola.
Ma quel 2 novembre c’era lo scrittore Pasolini. E c’era un paese che si svegliava strano, con una tremenda inquietudine.
2. Eppure di violenza se n’era già vista troppa. Ragazzi morti alle manifestazioni. Scontri di piazza, violenza politica, terrorismo che muoveva i primi passi. Poliziotti e carabinieri uccisi. Per non dire delle bombe, a cominciare da piazza Fontana, per continuare con l’Italicus nel 1974. Non si era ancora all’apice, ma la strada della violenza era tutta in discesa. Eppure le parole del radiocronista quella mattina erano asettiche. Il corpo dello scrittore Pasolini. In quella frase c’era tutto quello che si doveva sapere. Il corpo, il corpo di uno scrittore e di un poeta, massacrato. Quel corpo scandaloso era stato una delle provocazioni più forti e più intollerabili dentro quella società borghese. Come si diceva allora. Pasolini era colpevole di scrivere per il “Corriere della sera”. Pasolini era colpevole di essere un uomo che voleva processare la Dc e di volerlo fare dalla tribuna più forte, più alta, e più rispettabile del paese. Dal giornale che fu di Albertini, e poi di Spadolini. Dal giornale della borghesia milanese. E voleva processare la Dc uno che non era cattolico, non era liberale, non era nemmeno comunista: ovvero un avversario istituzionale.
Lo scrittore Pasolini. Uno scrittore dei tempi in cui si diceva «lo scrittore»: lo scrittore Bassani, lo scrittore Moravia, la scrittrice Elsa Morante. Alle signore si aggiungeva il nome proprio. Lo scrittore Pasolini, appunto. Oggi non si usa più. Non si dice lo scrittore Baricco, lo scrittore Faletti, la scrittrice Margaret Mazzantini. Ancora si usa per Alberto Arbasino. Per Umberto Eco. Per quelli lì, che fanno gli scrittori oggi e li facevano anche allora. Senza star troppo a sottilizzare se le “s” devono essere maiuscole o minuscole.
Era un mondo, una categoria dello spirito, una riconoscibilità per tutti. Il macellaio sotto casa mia, lo ricordo, disse a mia madre, un po’ a bassa voce, quasi bisbigliando. «È stato ammazzato lo scrittore Pasolini». E mia madre annuì, perché lo aveva sentito alla radio, anche lei. Lo scrittore Pasolini era scrittore per tutti, anche se poi magari i suoi articoli non erano per tutti, e neppure le sue poesie o i suoi film. Così quando l’appuntato Cuzzupè pesca un sanguinante Pino Pelosi, detto la Rana, alla guida di una Alfa GT dalle parti del Policlinico a Roma, e lo arresta per furto di auto. Gli dice partecipe, anche lui: «Hai rubato a uno scrittore famoso». Cuzzupè non sa che lo scrittore famoso giace in un mare di sangue all’Idroscalo di Ostia, pensa che gli è solo capitata la sventura di un furto d’auto, e per mano di un diciassettenne. Questo lo scopriranno dopo. Quando Maria Teresa Lollobrigida scende dalla macchina, alle 6.30 del mattino, pronta a passare una domenica di festa, nella baracca abusiva sul grigiastro mare di Ostia, assieme al marito e al figlio. E vede una specie di sacco, o così a lei sembra in quella luce incerta. Pensa alla spazzatura, si avvicina e scopre che di spazzatura non si tratta. Ma purtroppo è il corpo di un uomo morto.
3. Hai rubato a uno scrittore famoso. Dice il milite Cuzzupè. Un milite di oggi avrebbe detto: hai rubato a uno famoso. Oggi si è famosi per essere famosi. Allora si era famosi per qualcosa. Pasolini, in particolare, era famoso per essere uno scrittore. E a bassa voce per essere uno scrittore che non aveva mai fatto alcun mistero, tutt’altro, della sua omosessualità. Le due cose, in quella morte vanno assieme. Assassinio in ambiente omosessuale. L’ambiente era lo sterrato di quel campo di calcio. In un posto dimenticato da dio, senza un lampione, con una strada piena di buche. È inutile ripetere oggi che tutto quello che accadde quella notte, e poi dopo, e anche prima, non è mai stato chiarito. Sono stati scritti libri, sono stati girati film, sono state fatte inchieste giornalistiche. Solo che la versione di quel paese, la storia raccontata dopo, aveva qualcosa di terribilmente datato già allora. Come se una brutta letteratura, che faceva malamente il verso alla cosiddetta letteratura pasoliniana (che di fatto, però, non è mai esistita), si fosse impossessata anche della dinamica della morte di Pasolini. Qualcuno ci ha voluto far credere che Pasolini si sia scritto da solo le pagine della sua morte, ed è stato fatto con uno stile, con un modo che aveva qualcosa di verosimile, e al tempo stesso suonava esageratamente didascalico.
4. Pensate a quella Roma, Pasolini era un uomo forte, un buon calciatore, un pugile dilettante, con una voce sottile. Quel giorno era in maglietta, aveva un paio di jeans. Va a cena con il suo amico Ninetto Davoli, i due figli e la moglie di Davoli da «Pomodorino», una trattoria di San Lorenzo, quartiere popolare di Roma. Ancora oggi, popolato di localini e studenti universitari. Non è di buon umore. Nel pomeriggio ha passato qualche ora dando un’intervista a Furio Colombo, per «La Stampa». Sarà l’ultima intervista di Pasolini che uscirà il successivo 8 novembre. Il titolo è profetico: Siamo tutti in pericolo. Pasolini dice che per arrivare alla trattoria non ha guardato in faccia nessuno, che la gente sta diventando violenta. Sembra persino che abbia paura. Dopo aver cenato con la famiglia Davoli prende la sua Alfa GT, gli piacciono le auto veloci, le Alfa Romeo, e si dirige dalle parti della stazione Termini. Sta cercando qualcuno. E qualcuno trova. Nella versione di Pelosi, Pasolini accosta vicino a un gruppo di ragazzi, con la sua macchina color argento. E Pelosi dirà: «L’ho riconosciuto subito, era quel Pasolini».
Il resto della storia è una ricostruzione posticcia, e piena di incongruenze, ma rientra perfettamente nel luogo comune della vicenda e della messa in scena. Pelosi ha 17 anni e 4 mesi. Otto mesi ancora e rischiava 30 anni di carcere. Quegli otto mesi gli rendono la pena più tollerabile. Pasolini voleva avere un rapporto sessuale. Pelosi si rifiuta. Pasolini lo rincorre, Pelosi lo colpisce, poi non capisce più nulla, continua a colpirlo. Finché non prende la macchina e passa sopra il corpo dello scrittore fuggendo verso la città. Un atto sessuale richiesto, non voluto, che ha generato una reazione. Nell’Italia di quegli anni lo scrittore Pasolini finisce per rendere pubblica, tragicamente, una vita che ha tenuto sotto traccia. E quella fine è come se invalidasse un po’ tutto. Gli Scritti corsari, quell’etica straordinaria che ha fatto dello scrittore e poeta friulano la voce più intensa e più suggestiva di tutto il dopoguerra. In questo senso Pasolini è stato ucciso due volte. E probabilmente è stato ucciso in questo modo perché era importante che si inficiasse profondamente l’altro Pasolini. Quello della prima pagina del «Corriere della Sera». Quello che parlava in quel modo. E si badi bene, non era l’unico a farlo in quella maniera, anche se lui era forse il più lucido: ma era l’unico a farlo rivolgendosi a un mondo che da quelle cose, che da quel metodo, che da quel rigore, non doveva essere trascinato, un mondo di moderati che non doveva percorrere i sentieri del dubbio.
5.Le ultime parole pubbliche di Pasolini sono quelle dette a Furio Colombo il 1° novembre 1975. E pubblicate postume sulla «Stampa». «Quello che impedisce un vero dialogo con Moravia, ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima? (…) Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi».
Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare? «Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo».
6. Sarebbe facile dire che furono parole profetiche. Ma invece non lo furono affatto. Era semplicemente la capacità di capire il carico di violenza che stava scatenandosi nel paese. Non c’è profezia in Pasolini, mai. C’è consapevolezza. Una lettura più attenta del presente, non l’intuizione del futuro. Di questa consapevolezza del presente lui ne avrebbe fatto le spese per primo. Il 14 novembre 1975, Oriana Fallaci, sull’«Europeo», riferirà di testimoni che giuravano di aver visto due motociclisti con catene che colpivano Pasolini. Non era più in quel caso l’atto di un ragazzino indignato e spaventato per profferte sessuali, ma un complotto.Perché se erano in tre, e Pelosi diceva, come riferivano anonimi testimoni: «E mo’ mi lasciate qui, e mo’ che fate…», fu complotto. Se Pelosi mentiva e copriva qualcuno, fu complotto. Se mentiva e si attribuiva tra l’altro un omicidio non commesso, era anche più di un complotto. Per la verità processuale cambia molto. E per le coscienze individuali un po’ meno. Per la storia del nostro paese, probabilmente poco.
7. La morte di Pasolini è stata come la morte di Gramsci. Più che un assassinio, e più che un assassinio politico, come molti hanno sostenuto, la fine di una possibilità, lo spegnersi violento e vile di un’intelligenza da cui non si poteva prescindere. E che doveva suscitare rabbia. Sono stati molti gli intellettuali importanti in questo dopoguerra. Abbiamo guardato l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta con gli occhi di Moravia, della Morante, dei Fratelli d’Italia di Arbasino, dietro le nebbie della Ferrara di Bassani, attraverso la lente vivida e nitida di Volponi, con il sarcasmo amaro di Ottieri, e con la volteriana sicilianità di Leonardo Sciascia. Abbiamo imparato a leggere i segni del mondo da Umberto Eco e ci siamo mossi con rispetto e attenzione nei sentieri che si biforcano di Calvino. Ma Pasolini era altro. Moderno in una maniera strana. Con squarci improvvisi di futuro, e allo stesso tempo passaggi desueti. Uomo di letteratura, uomo di versi, e uomo di cinema.
8. Questi trent’anni cosa sono stati? Sono stati un nodo irrisolto. La morte di Pasolini è una delle tragedie che fanno di questo paese un paese incompiuto. Assieme alla morte di Moro, soprattutto. Qualcuno ci ha chiuso una finestra che si era miracolosamente aperta. Gli anni Sessanta in Italia, il ’68, il terrorismo, sono stati letti da Pasolini in un modo che andrebbe meditato ancora oggi.
Con la sua morte si è spezzata una corda. Tesa al massimo. «Siamo tutti in pericolo», ha detto nelle sue ultime parole, e ha aggiunto: «ho sempre pagato di persona». In troppi hanno approfittato della sua morte credendo che tutto sarebbe tornato normale, nei binari di un paese oscuro e ingiusto. E sembrava dovesse accadere come in quella scena di Salò, il suo ultimo film, dove, dopo tutti gli orrori della guerra civile, i due giovani repubblichini provano a imparare a ballare al suono di un grammofono.
9. Ma i nodi sono ancora tutti lì, tutti aperti. Come se quell’assassinio, quella «messa in scena pasoliniana» sia servita solo a insegnarci che non vanno raccontate solo le cose che si vedono. Ma vanno prima di tutto raccontate le cose che ci sono. Ora Pelosi dice che non è stato lui. Che c’erano altri tre e dicevano: «sporco comunista, fetuso e fetente». Dice che era «gente del sud». E dice che parla adesso perché i suoi genitori sono morti. È un mistero continuo in questo paese, non abbastanza marginale perché non ci sia arrogantemente il bisogno di negare persino i misteri, né sufficientemente civile perché i misteri vengano assolutamente chiariti. Pochi giorni fa piazza Fontana, nessun colpevole, il macigno Moro, la strage di Bologna, la strage dell’Italicus, quella di piazza della Loggia a Brescia… le trame nere, la strategia della tensione, l’omicidio Pecorelli… rimane tutto lì a dispetto di tutto, a dispetto dell’oblio che farebbe comodo a troppi. In fondo c’è forse una forma di verità incancellabile, che esce uguale anche se la schiacci in fondo in tutti i modi.
[info_box title=”Roberto Cotroneo” image=”” animate=””]scrittore, poeta, critico letterario, tra il 1985 e il 2003 lavora al settimanale “L’Espresso”, e per quasi dieci anni dirige le pagine culturali, firmando una rubrica di critica letteraria “All’Indice”. È stato inviato del settimanale e poi editorialista per “Panorama”, “l’Unità”, “Il Sole24ore”. Dal febbraio 1988 alla fine del 1989 ha scritto sulla pagina domenicale de “Il Sole24ore” allora curata da Armando Torno. Firmava le sue recensioni con lo pseudonimo di Mamurio Lancillotto, il vicario criminale del ‘600 che processò la Monaca di Monza. È stato per alcuni anni conduttore della Mezzanotte di Radio Due, e nel 2010 ha condotto il programma de La7 La 25ª Ora. Tiene una rubrica settimanale su “Sette” del”Corriere della Sera”: Blowin’ in the Web. È il direttore della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss di Roma.[/info_box]
*Foto in copertina: © Claudio Erné (1975)