Enzo Siciliano, cui si deve nel 1978 una appassionata biografia di Pasolini, intervenne il 9 maggio 2005 sull’assassinio dell’amico Pier Paolo, all’indomani della nuova versione del reo confesso Pino Pelosi rilasciata in Tv. Per Siciliano fu l’occasione per fare un’ulteriore riflessione sulla lucidità politica di Pasolini, bruscamente (e misteriosamente) messa a tacere all’Idroscalo di Ostia.
Polveroni e cattiva coscienza: così il paese mise tutto a tacere
di Enzo Siciliano
“la Repubblica” – 9 maggio 2005
Portato a protagonista in un inedito reality show su Rai3, Pino Pelosi ha raccontato la sua verità sulla morte di Pasolini avvenuta trent’anni fa, la notte fra il 1° e il 2 novembre 1975, sul campo dell’Idroscalo a Ostia. Questa verità coincide per grosse linee con quanto era stato codificato nella sentenza di primo grado, firmata dal presidente Alfredo Carlo Moro del Tribunale dei Minori di Roma, e depositata in Cancelleria il 21 maggio 1976.
Pelosi dice che a uccidere Pasolini furono tre uomini, adulti quarantenni, uno di loro barbuto, spuntati dal nulla nel buio di quella notte: parlavano con accento meridionale, apostrofarono Pasolini come «fetuso comunista», lo tirarono giù dalla macchina dove si trovava e lo bastonarono fino a renderlo uno straccio insanguinato. Avrebbero minacciato anche Pelosi di morte, lui e la sua famiglia, e per questo lui avrebbe taciuto fino ad oggi, morti i genitori uno dopo l´altro di tumore, e probabilmente morti anche gli aggressori. A lui, quella notte, non era restato che fuggire sulla macchina dello scrittore e, se gli era passato sopra schiantandogli il cuore, non se ne accorse, stravolto com’era dalla paura.
Se c’è una novità nel racconto di Pelosi, scaldato dalle telecamere, a parte la denuncia della presenza dei terzi a lui ignoti, è quel che dice di Pasolini: un uomo gentile, “che parlava italiano”, e col quale il rapporto orale che aveva avuto si era svolto con quieta naturalezza fino alla conclusione. Solo a quel punto erano apparsi i tre, sgusciando all’improvviso dall’oscurità.
Nella sentenza Moro è riportata la deposizione di Pelosi diciassettenne.
Pasolini, concluso il rapporto, lo avrebbe invece inseguito con un paletto trovato a terra, avrebbe voluto «infilarglielo nel sedere o per lo meno lo aveva appoggiato contro il sedere senza nemmeno abbassargli i pantaloni», e lo aveva spaventato perché aveva «una faccia da matto». L´inseguimento era culminato in una colluttazione violentissima: quindi la fuga in macchina, Pasolini schiantato a terra, eccetera. Pelosi poco dopo fu sorpreso da una gazzella dei carabinieri del tutto netto da sangue o fango.
L´immagine del Pasolini sadico sparisce oggi dalle parole del Pelosi uomo maturo: riappare la persona gentile che conoscevamo. E questo non è di poco conto.
Quando non potevamo dare credito al fatto che Pasolini fosse stato ucciso da una singola mano, una certezza l’avevamo: che era stato ucciso un poeta dei più grandi che la letteratura italiana avesse avuto (sì, lo so, da allora, e sempre sarà, è un continuo correggere questa affermazione: ma non trovo ragioni concrete, se non di arida letterarietà, che la inficino). Ma era stato ucciso, oltre tutto, l’intellettuale che aveva messo sotto gli occhi di un paese intero l´equivoca realtà di un successo economico e industriale dal profilo all’apparenza forte ma alla sostanza fragilissimo.
Dissolvendosi quel barlume di borghesia che pure aveva dato un contribuito decisivo al formarsi di una coscienza repubblicana; dissolvendosi anche il tessuto connettivo della forza contadina che aveva nutrito con le emigrazioni interne la forza lavoro dell´industrializzazione; parcellizzandosi questa nella tragedia del lavoro nero e delle evasioni fiscali: Pasolini parlò di mutazione antropologica, di colpevoli responsabilità politiche, con una foga fino ad allora sconosciuta a qualsiasi altro intellettuale. Le parole dello scrittore erano brucianti per tutti. La destra continuò contro di lui una polemica di chiara marca “fascista”. E la sinistra, specie dalle colonne dell’”Unità”, non risparmiò anche insulti, i più pesanti: l’accusa era di disfattismo. Difendevano Pasolini i giovani della Federazione Giovanile Comunista, Walter Veltroni, Gianni Borgna fra gli altri, e con essi lo scrittore ebbe un incontro pubblico sulla terrazza del Pincio a Roma, una sera tiepida di primavera, quando più infuriavano le sue polemiche “corsare” e “luterane”. Là si capì quanto di vitalità, per niente pessimistica, il poeta offrisse alla prospettiva di un paese che doveva guadagnare senza infingimenti sulla via della libertà e della democrazia.
Quella rottura di schemi, contro ideologie ormai in stato di sclerosi, era giudicata eccessiva provocazione. Pasolini denunciava la stanchezza morale del paese, il suo cedere collettivo a prospettive di un imperio mediatico. Mise sotto accusa la centralità, allora incipiente, degli usi televisivi.
Era l’ultima volta che lo vidi: una settimana prima che lo uccidessero. Lui con Laura Betti era venuto a trovarci una sera a casa dopo cena. Laura aveva portato una torta per i nostri ragazzi, ma loro già dormivano, e Pier Paolo lasciò un bigliettino sotto la porta della loro stanza con scritto, “Ciao”. Era appena tornato da Parigi, andava a Stoccolma il giorno dopo. Raccontava che i film a luci rosse adesso sciamavano per le sale degli Champs Elysées. «Finirà così: non più cinema, ma pornografia e televisione, e la televisione vorrà educare i nostri modi di vita, costruendo storie su misura, incollati i modelli gli uni agli altri, mostrando che la vita è impastata di continua serialità. E questo sarà il nuovo fascismo che avremo addosso, la nuova demagogia. Vedrai Salò, e capirai cosa voglio dire quando sostengo che la politica favorendo la riduzione dell´eros alla semplice ripetitività del sesso eliminerà il problema della persona umana, dell´individuo». Il suo furore si scagliava contro i partiti di maggioranza relativa che governavano con cinismo il progressivo dissolvimento dello spirito pubblico. Guardava oltre ciò che appare e il suo sguardo era fulminante. In quel dissolvimento vedeva fuoriuscire violenza allo stato puro, una violenza che investiva tutte le forme della convivenza civile, a cominciare proprio dalla politica. La mutazione antropologica – cambiavano le facce, i corpi degli italiani, scriveva – gli appariva pari a una lebbra.
In tanti anni da allora la presenza di Pasolini è stata spesso invocata, dagli stessi suoi critici. Sono forme, queste, di nostalgia collettiva, che esprimono una specie di rimosso o di cattiva coscienza nei suoi confronti. L´omosessuale che il Pci aveva cacciato, quasi fosse un appestato, nel 1949 dalle proprie file aveva richiamato tutta la politica, non solo la sinistra, a un rendiconto generale che scaraventava oltre ogni ostacolo l´ossidato contenzioso fra destra e sinistra. Per questo, c´è da ripeterlo ancora una volta, Pasolini non cercò il suicidio attraverso una terza mano, fatto cui alludeva il servizio televisivo che accompagnava l´interrogatorio a Pelosi l’altra sera. Basta, non si insista su questa sciocchezza di comodo che finisce con lo scagionare ogni tipo di delitto.
Fu ucciso, non c’è altro da dire, e da mano ignota, presente la triste controfigura di Pelosi. Lo capimmo subito. Su quella morte, va chiesto che non si sollevi altra polvere, o altre contraddittorie e confuse ipotesi. Sapevamo pure, senza che nessuno ce lo avesse detto, che, nel bastonarlo a sangue, i suoi assassini lo avevano apostrofato urlando «fetuso comunista».