Tre articoli, su “il Manifesto” dell’8 maggio 2005, commentano il delitto Pasolini dopo lo scenario aperto sul “caso” dalla nuova versione di Pino Pelosi. Tra le firme quella di Gianfranco Capitta, autorevole critico teatrale, che con amarezza esprime il suo dubbio sulle mezze verità che avvelenano l’Italia, un paese endemicamente incapace di far chiarezza sul suo passato, compreso quello cruento degli anni Settanta.
Pasolini, la verità
di Gianfranco Capitta
“il Manifesto” – 8 maggio 2005
Dunque, trent’anni dopo il fattaccio, anche Pino Pelosi, detto allora «la Rana», si decide oggi a dirci «la verità»: non era da solo a uccidere Pasolini quella notte, ma assieme a tre misteriosi giovanotti che infierirono sul poeta, addirittura tenevano fermo lui mentre ripassavano «il lavoro» fuori della famosa Giulietta. Lo dice davanti a una giornalista che fruga nelle memoria impudica dei più efferati delitti. Però quella tesi è stata sostenuta e vagliata da persone di rango, una intellettuale come Laura Betti ci ha di fatto dedicato una vita, c’è stata una indagine più complessa di un processo. Potremmo sentirci tutti soddisfatti, chi ha sempre sostenuto il complotto assassino e chi non si è mai accontentato di quella tragedia vista come un’avventura notturna andata male, come hanno sancito i tribunali. C’era chi arrivava a parlare di big della politica come mandanti, chi di forze oscure che pure avevano una loro plausibilità momentanea (Pasolini scriveva prima di morire sul “Corriere”, appena disinfettato da Ottone dei liquami P2). Eppure, nonostante la soddisfazione che queste parole tardive di Pelosi potrebbero avere per chi ne ha sempre intuito la verità, e nel caso non automatico che possano avere un seguito giudiziario, finisce per prevalere il dubbio.
Trent’anni sono tanti, e non può bastare a giustificarli la paura delle minacce e l’incolumità dei congiunti. Pelosi questa ipotesi se l’è sentita rivolgere molte volte, perfino in tribunale, ma si è sempre barricato nel regolamento di conti privato, trasceso fino all’ingiuria automobilistica sul cadavere del poeta. Neanche in una fiaba dei fratelli Grimm si devono aspettare trent’anni per sciogliere un malefizio, tanto più se il danno commesso si è rivelato incalcolabile, non rimarginabile, come l’assenza di Pasolini.
Le parole di Pelosi sono vaghe ma danno contorni umani (anzi meridionali, addirittura siciliani) a quei carnefici, che sono stati identificati nel tempo con la mafia, la P2, la banda della Magliana… Ma neppure la verità più desiderata può essere accettata in quell’identikit. Perché il caso Pelosi sembra l’ennesimo tassello del tormentone degli anni ‘70, di una stagione di misteri che tanto più allarga i suoi orizzonti più rischia di rimanere vaga e impunita. Come una cerbottana animata da un pendolo, continuano a pioverci addosso brandelli drammatici degli anni ’70, prima il rogo di Primavalle, poi il ritorno del massacratore del Circeo, ora la «confessione» tardiva di Pelosi. Il buco nero di quel decennio continua a essere la stiva dei veleni.
Forse bisogna farsene carico per uscire davvero fuori dal cicaleccio mediatico. Pasolini, proprio nell’articolo uscito due giorni prima di morire, aveva capito, e lui solo, la violenta trasformazione che si era messa in moto nel tessuto profondo dell’Italia. Rispondendo a Calvino che dava dei «mostri» del Circeo una spiegazione tutta politica, ripeteva con pazienza la sua «litania»: i modelli si unificavano tragicamente, si scimmiottavano da una classe all’altra. I fatti, dopo quella tragica notte, gli danno ragione. Un paese trasformato e abbrutito nel midollo, consumatore e consumato da una politica di piazzisti mediatici, offre ogni giorno un orrore, una doppia verità dietro un apparente perbenismo: solo in questi ultimi giorni sangue a fiumi, e proprio nel sud povero, non per deviazioni ancestrali, ma per una «modernità» sbrigativa e di superficie; ci sono nomi che ormai danno i brividi solo a sentirli: da Giusy a Denise fino al ritorno di Izzo. Se piazza Fontana richiude ermeticamente le sue verità che pure tutti sanno, se Pelosi confessa ora quei fantasmi assassini che poi si sarebbero volatilizzati per sempre, se le leggi fanno sfumare tempi e modi certi di pene e prescrizioni, c’è poco da sperare: questo paese è sempre più «orribilmente sporco», ma nessuno sembra davvero voler cercare la verità intera.
Piuttosto che rallegrarsi di mezze verità già ampiamente acquisite, toccherà assumersi davvero il peso e la sgradevolezza di quegli anni che pesano ancora come il piombo.
Pelosi: ferito per difendere Pasolini
di Alessandro Mantovani
“il Manifesto” – 8 maggio 2005
Si mangia le parole e gesticola. Agitato. «Il primo commento è che sono innocente, non sono complice di nessuno». Davanti alla telecamera Pino “la Rana” comincia così, tutto d’un fiato, subito dopo aver assistito alla ricostruzione “ufficiale” dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini, quella che ci hanno consegnato i processi e le sue stesse confessioni. «Ha ucciso Pasolini?», gli chiede Franca Leosini, conduttrice Ombre sul giallo. «No, non sono stato io, ho vissuto trent’anni nel terrore», risponde adesso Giuseppe Pelosi, condannato a nove anni da minorenne per l’omicidio dello scrittore. «Ho 46 anni, ne ho fatti 22 di carcere, ero terrorizzato, hanno minacciato mio padre e mia madre. Ma ora mia madre è morta di tumore e mio padre l’ha seguita undici mesi dopo. E queste persone o saranno morte o saranno anziane, o avranno ottant’anni… Non ho più paura». Quella notte all’Idroscalo di Ostia, la notte del 2 novembre 1975, aveva diciassette anni e faceva il garzone da un fornaio. Su Raitre, ieri sera, Pino «la Rana» ha ripercorso l’incontro con Pasolini a piazza dei Cinquecento, «ventimila lire per una toccatina», e il viaggio in auto fino all’Idroscalo, dopo la trattoria. Ma stavolta la storia cambia, trent’anni dopo non c’è più il tentativo di abuso e la reazione. «Ha fatto quell’atto sessuale, quindi si è tolto gli occhiali, mi pare ovvio», dice Pelosi. «Io sono sceso dalla macchina perché dovevo urinare e sono stato aggredito alle spalle da una persona, e lui da altre due. Questo mi ha minacciato, mi ha picchiato, mi diceva: Fatti i cazzi tuoi. Pasolini l’hanno preso nella macchina, hanno cominciato in macchina e poi l’hanno portato fuori».
«L’hanno picchiato in modo inaudito prima lì vicino alla macchina – prosegue Pelosi – poi si sono allontanati. Non ho visto più. Non so se c’era qualche altro corpo contundente più pesante», oltre ai famosi “bastoncini” che da soli non potevano bastare. «Reagiva?», gli chiede Leosini. «E che reagiva? Lo stavano a massacrare… Urlava. Urlava lui e urlavo io. Poi ho provato a scappa’». A quel punto ha preso la macchina e secondo l’istruttoria è passato sul corpo di Pasolini, finendolo. «Se è successo sono inconsapevole», dichiara adesso.
E’ corso via e si è fatto arrestare poco dopo. Lui ci tiene a raccontare di essersi fatto male «per tentare di difendere il signor Pasolini», perché «io di Pasolini – insiste – non ho mai parlato male e voglio che si sappia».
I due aggressori Pelosi dice di non conoscerli, di non averli conosciuti prima e di non averli mai visti dopo quella notte all’Idroscalo. Quando gli dicevano: «Ti devi scordare di noi, ti devi fare i cazzi tuoi». Non sa chi siano, così racconta. Eppure sarebbero riusciti a terrorizzarlo per trent’anni e a fargli confessare e scontare un omicidio. Ora sostiene di ricordare soltanto che erano «adulti, sui 45-46 anni». Rammenta una «barba», «capelli un po’ ricci» e «un dialetto del sud, non so se siciliano o calabrese… i dialetti li ho imparati dopo in carcere». E soprattutto un particolare, un insulto politico che fa pensare all’estrema destra o a una malavita molto vicina all’estrema destra. «A Pasolini – dice Pelosi – gridavano arruso, fetuso, sporco comunista, sporco frocio». I primi due termini, che stanno per bastardo e fetente, sono senz’altro siciliani.
Era lo stesso corpo dello scrittore, del quale Ombre sul giallo ha mostrato ieri alcune immagini inedite, a raccontare fin dal primo giorno che Pelosi non poteva aver fatto tutto da solo. Gracile com’era non poteva aver ridotto Pasolini, ben più robusto, in quello stato, con ferite e fratture in varie parti del corpo. Sulla base delle perizie dell’epoca, il processo di primo grado lo condannò infatti per «omicidio volontario in concorso con ignoti». La Procura generale ricorse però in appello contro quella motivazione – «prima ancora del deposito della sentenza» ricorda l’avvocato Nino Marazzita che con Guido Calvi fu legale di parte civile della madre di Pasolini – e alla fine la Cassazione ha confermato una condanna senza concorso di ignoti.
La nuova versione di Pelosi metterebbe al loro posto alcuni elementi che proprio non quadravano nella ricostruzione uscita dai processi. Si è già detto dell’aggressione in sovrannumero, da parte di più persone che probabilmente bloccarono a terra la loro vittima. Poi ci sono gli occhiali, che furono trovati nel portaoggetti dell’Alfa Romeo: se Pasolini è stato strappato a forza dall’auto, gli occhiali sono rimasti lì, mentre li avrebbe senz’altro presi – hanno sempre detto tutti coloro che lo conoscevano – se per qualsiasi ragione fosse uscito volontariamente dalla macchina.
Pino «la Rana» ha cambiato versione ma sembra sempre lo stesso. Franca Leosini osserva facilmente che «ha detto delle cose vere e ne ha taciute altre». Per l’omicidio Pasolini aveva preso nove anni, è uscito in semilibertà dopo sette (nell’82) e da allora ha fatto dentro e fuori, in genere per furto, nel 2000 l’ultimo arresto per rapina. «Mi arrangio in uno sfascio abusivo», uno sfasciacarrozze, «distruggo le macchine, le smonto…», questa l’occupazione dichiarata attuale. «Cerco lavoro. Dovevo fare il camionista, ma m’hanno tolto la patente. Quelli che hanno fatto le stragi vanno in giro, quelli che hanno ammazzato la madre e il padre vanno in giro… invece Pelosi è sempre il bieco assassino di Pasolini». Invoca più volte: «Basta, pietà». L’intervista l’hanno chiusa così.
Nello studio di Ombre sul giallo c’erano anche gli avvocati Calvi, oggi senatore Ds, e Marazzita. A quest’ultimo il racconto di Pelosi e il riferimento ad aggressori siciliani hanno ricordato il particolare di un’auto targata Catania, una Fiat 1300 o 1500 di colore blu, che sarebbe stata vista nei pressi dell’Idroscalo. Entrambi i legali chiedono che la Procura di Roma riapra l’istruttoria per ascoltare Pelosi. «La Procura deve impegnarsi a indagare», insiste Calvi dopo che fonti di agenzia attribuiscono un certo scetticismo ai magistrati.
“Mezze verità, un polverone”
di Silvana Silvestri
“il Manifesto” – 8 maggio 2005
La notizia che Pino Pelosi ha confessato in una trasmissione tv (Ombre sul giallo di Franca Leosini) di non essere stato lui il diretto responsabile della morte di Pasolini, ucciso invece a bastonate da tre picchiatori fascisti, ci ha riportato alle immagini del film di Marco Tullio Giordana Pasolini un delitto italiano. Proprio qualche giorno fa il regista ci aveva raccontato, in occasione della presentazione del suo ultimo film che sarà il 15 in concorso a Cannes (e il 13 nelle sale: [si tratta del film Quando sei nato non puoi più nasconderti, ndr]) di essersi allontanato per la prima volta dall’elaborazione di tematiche legate agli anni ’70 dei misteri non risolti, i nostri anni più rischiosi, più densi di delitti e stragi senza colpevoli. In effetti anche il suo ultimo film parla di questo, di un popolo sotto anestesia, di come siamo diventati.
Abbiamo chiesto a Marco Tullio Giordana un parere su queste rivelazioni in tv, lui che ha conosciuto bene il personaggio.
«Pino Pelosi era già stato intervistato qualche anno fa in tv e già allora lasciava intendere cose più grandi di lui… Ho visto quell’intervista fatta alcuni anni fa dalla stessa Leosini, dove già si ribadiva la tesi che non aveva agito da solo. Non posso fare commenti su questa nuova intervista perché ancora non l’ho vista, ho solo letto quello che ha riportato la stampa, non posso fare commenti su cose solo riportate. Però posso dire due cose: la prima è che sono sempre stato convinto che Pelosi non agì da solo, anche se non ho idea di chi fossero i suoi complici. Pelosi ebbe il ruolo di comparsa utile a coprire complici maggiorenni che sarebbero stati condannati e, poiché lui all’epoca era minorenne, fu condannato a poco meno di dieci anni che poi furono ridotti a sette. Sono anche convinto che abbia tenuto la bocca chiusa per paura che queste persone si sarebbero potute vendicare se lui avesse parlato».
E la seconda?
La seconda cosa è che trovo curioso che a distanza di trent’anni questo coperchio degli anni Settanta stia per scoppiare da tutte le parti e tutto in una volta: in pochi giorni abbiamo avuto la sentenza su piazza Fontana, Izzo, l’assassino del Circeo, è tornato a uccidere, e questa dichiarazione sull’uccisione di Pasolini. Ho un sospetto: improvvisamente questa materia, indagata per anni e di cui non si è mai venuti a capo, come mai viene in scadenza tutta insieme oggi? Non mi do nessuna risposta, come non riesco a spiegare perché questo improvviso impulso a confessare dopo trent’anni. A parte il caso Izzo, che è un criminale mascalzone che è riuscito ad abbindolare chi gli ha concesso la libertà, gli altri casi sono più oscuri. Non sarà perché nella nostra storia in alcuni momenti precisi si cerca di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica?
Tutta questa materia orribile, mostruosa come un minestrone rancido, esplode e la verità non si sa mai.
Potrebbe essere un fatto nuovo, una prova che non si tratta di polverone se facesse nomi e cognomi. Se si dicono mezze verità si confondono le cose ancora di più. Se si dicono le cose a metà è un polverone. Non ho visto la trasmissione e penso che quando la vedrò potrò farmi un’opinione diversa anche guardando le facce, l’espressione degli occhi. Chi fa questo lavoro riesce a giudicare anche attraverso i particolari della composizione dell’immagine. Dai miei incontri con Pelosi ho sempre avuto la sensazione che mentisse e capito che ha coperto i suoi complici.
Però tu puoi avere un’opinione più approfondita non solo per avergli parlato, ma anche per aver studiato a lungo il caso.
Ho anche pubblicato un libro quando uscì il film, un libro che l’editore farà uscire nuovamente tra qualche mese (è un po’ restio a dirlo per non farsi pubblicità; vogliamo segnalare che il libro Pasolini un delitto italiano, titolo uguale al film, uscirà in autunno negli Oscar Mondadori, ndr). Se uno legge il libro non sarà sorpreso delle parole dette oggi da Pelosi. E ho dovuto togliere sia dal film che dal libro parecchie dichiarazioni di altre persone perché non erano disposte a ripeterle di fronte a un tribunale. Tutto l’insieme è inquietante e potrebbe avere una spiegazione, a volerla trovare. Il problema è che non sono mai state fatte indagini serie, altrimenti si sarebbero portati alla luce i fatti. L’Italia è disinteressata a conoscere la propria storia. Solo alcuni si ostinano, per pulizia intellettuale a voler sapere. Non c’è in Italia come in altri paesi una spinta dell’opinione pubblica indignata che vuole sapere la verità. Altrimenti le cose verrebbero a galla.