Edipo re. La cecità dell’Occidente e la grazia del Marocco
Archivio “Pagine corsare”
Nel film Edipo re del 1967 Pasolini si confronta con il suo personale “complesso di Edipo”, ma nello stesso tempo supera la necessità autobiografica per riflettere attraverso il mito sulla condizione dell’uomo occidentale del presente e sulla sua tendenza a non prendere coscienza di sé e della propria alienazione. La cecità di Edipo (un “innocente” perseguitato da un destino avverso e crudele), simboleggia infatti l’incapacità dell’uomo contemporaneo di “vedere” – e di sforzarsi di comprendere – le situazioni in cui si trova, situazioni per molti versi drammatiche e terribili. Il suo vagare in un paesaggio desertico, in totale assenza di rapporti umani e di qualsivoglia comunicazione, senza che pronunci alcuna parola e soprattutto senza una meta che non sia quella che il “destino” stesso gli indica ineluttabilmente, dà il senso preciso di questo estraniamento, di questo tremenda, assoluta mancanza di possibilità e di volontà di “vedere”. L’intento autobiografico – che c’è ed è volutamente svelato da Pasolini, nel prologo e nell’epilogo, perfino dal particolare dell’ambientazione nei luoghi friulano-veneti e bolognesi della sua formazione – è evidente, ma non è il solo che il poeta si propone. Egli, infatti, inizia con Edipo re a percorrere, con i suoi lavori, la via di una denuncia sempre più aperta, provocatoria e priva di intenti giustificatori, che avrà la sua massima espressione nella rappresentazione delle atrocità di Salò. Pasolini è un intellettuale che conosce la realtà, l’avvenuta «mutazione antropologica» del suo tempo, e che sente, quale suo primario compito morale, civile e politico, di dover richiamare l’attenzione dei suoi contemporanei affinché non diventino “ciechi”, affinché non accettino come ineluttabile il divenire dei fatti e della Storia.
«A fare da contrappunto al violento istinto di sopravvivenza di Edipo, –chiosa Serafino Murri (in Pier Paolo Pasolini, Editrice Il Castoro- l’Unità, Milano 1995, p.88)– è la succube, silenziosa, quieta grazia del Terzo Mondo, espressa attraverso i volti della gente comune del Marocco, dove un’antica Grecia immaginaria, volutamente al di fuori di qualsiasi fedeltà filologica, viene ricostruita in mezzo al deserto: in questo modo Pasolini identifica il mondo della verità, quello delle nostre radici storiche e culturali, con uno dei tanti mondi della verità umana rimasti nel presente, quell’isola fuori del Tempo Borghese che è il Nordafrica».
“Edipo re”. Riassunto
Una pietra miliare indica la città di Tebe: ma la scena ha luogo in un paesino del Nord nell’Italia degli anni ‘20, dove vediamo una levatrice portare alla luce un bambino. Una donna (Silvana Mangano) gioca con delle amiche su di un prato, poi prende con tenerezza il suo bambino in braccio e lo allatta. Sulle note del Dissonanzen Quartet di Mozart, il volto sorridente della madre che allatta è attraversato da un momento di panico, prima di tornare al sorriso. Una soggettiva degli alti alberi del prato ci annuncia che il bambino ha aperto gli occhi per la prima volta al mondo. Sotto un balcone da cui pende la bandiera italiana con lo stemma sabaudo, un giovane ufficiale guarda con severità il bambino che gioca nella carrozzella. L’uomo è il padre del bambino, e il suo pensiero è espresso tramite una didascalia: egli teme che suo figlio sia nato per prendere il suo posto sulla terra e ricacciarlo nel nulla, appropriandosi innanzitutto dell’amore della sua donna. Viene la notte. Dopo essersi assicurati che il bambino sta dormendo, i genitori si recano ad una festa da ballo in un palazzo attiguo al loro. Ma poco dopo il bambino si sveglia turbato, esce sul balcone e vede, attraverso le tende delle finestre, le silhouettes dei genitori che ballano abbracciati. Esplodono dei fuochi d’artificio, il bambino è preso dal panico, piange. Di notte, il padre e la madre in una stanza, e il figlio nell’altra, sono svegli, pensierosi, inquieti. Sulle note di una musica etnica africana, il padre si reca nella stanza del bambino e ne stringe le caviglie con forza. Il bambino si lamenta.
La scena si sposta nell’antica Grecia, sul monte Citerone. Un bambino è appeso per le caviglie a un palo, portato a spalle da un servitore di Laio, re di Tebe. Il compito dell’uomo è uccidere il bambino, per evitare che si avveri una profezia dell’oracolo di Delfi, secondo la quale il figlio di Laio, una volta cresciuto, avrebbe ucciso il proprio padre e sarebbe giaciuto con la propria madre. Il servitore (Francesco Leonetti), però, non ha il coraggio di ucciderlo, e finisce per abbandonarlo nel deserto. Ma un vecchio pastore, che ha assistito alla scena, raccoglie con tenerezza l’innocente, e lo porta in omaggio al suo sovrano Pòlibo (Ahmed Belhachmi), re della città di Corinto. Pòlibo, trionfante, mostra il bambino alla sua consorte Mèrope(Alida Valli) , la quale decide di adottarlo come figlio, con il nome di Edipo, che letteralmente significa “colui che ha i piedi gonfi”. […]
[Cresciuto, Edipo (Franco Citti) apprende] di essere un “figlio della fortuna”, un trovatello. […] Decide di recarsi a Delfi ad interpellare l’oracolo sulla origine dei suoi sogni: così […] si incammina verso il tempio d’Apollo. L’oracolo, con una raccapricciante voce femminile, lo scaccia via seccamente, rivelandogli il suo destino incestuoso e parricida. In preda alla costernazione, Edipo si allontana. Per evitare che la profezia si avveri, decide di non tornare mai più a Corinto […] e prende una direzione qualsiasi. Ma la direzione è sempre, fatalmente, quella di Tebe. Sulla strada assolata giunge il carro del re Laio. Laio maltratta Edipo, solo e senza scorta, e lo insulta come se fosse un mendicante: Edipo decide di vendicare l’affronto: con una corsa forsennata, urlando fermamente la propria rabbia, uccide a uno a uno, nel silenzio desertico, sotto gli occhi del sovrano, tutti gli uomini della sua scorta. La stessa sorte infine tocca anche al re Laio.
Edipo, stremato dalla carneficina, riprende il suo casuale cammino, che lo conduce finalmente a Tebe […] dove la Sfinge, creatura oscura, è giunta all’improvviso sulla montagna alle porte della città dall’abisso, seminando sciagura. […] Esiste una “taglia” sull’uccisione della Sfinge: colui che ricaccerà la Sfinge nell’abisso, diventerà marito della regina di Tebe, la vedova Giocasta (Silvana Mangano). Edipo, non ascoltando le parole della Sfinge che ancora una volta lo mette di fronte al suo destino oscuro, riesce con una cieca violenza nell’impresa di sconfiggere l’inattaccabile creatura dell’abisso. Così il messaggero annuncia alla propria città festante che è giunto il nuovo re, Edipo. Alla fine dei cortei di ringraziamento, Edipo e Giocasta giacciono insieme nel talamo nuziale. L’oscuro destino del “bimbo dai piedi gonfi” si è ormai compiuto.
La peste infuria su Tebe. Il gran sacerdote (Pasolini) parla con Edipo a nome del popolo, e gli chiede ragione di quanto sta accadendo. Edipo gli risponde di essere in attesa del ritorno del cognato Creonte (Carmelo Bene), che si è recato a Delfi per avere un responso sugli eventi luttuosi dall’oracolo. Creonte torna, e rivela che la causa della peste è la vendetta degli dei, irati per la presenza a Tebe di un uomo impuro, la cui colpa è l’uccisione del re Laio. Edipo decide di vendicare l’uccisione di Laio come se egli fosse stato “suo padre”. Ma nonostante i provvedimenti del re siano sempre più severi, la situazione non muta. I morti vengono ormai bruciati a decine nei roghi comuni. Edipo decide di consultare Tiresia (Julian Beck), il veggente cieco […]. Tiresia rivela che Edipo prima o poi saprà di essere fratello e padre dei suoi figli, figlio e marito di sua madre, e che vagherà per il mondo senza più poterlo vedere […]
Durante una conversazione con Giocasta, che gli sta spiegando i particolari dell’assassinio di Laio, Edipo apprende che il fato avverso lo ha ormai ghermito, che lui è il vero assassino, il responsabile della catastrofe di Tebe. Giocasta non vuole perdere Edipo, cerca di tranquillizzarlo, ma Edipo urla con dolore la verità ormai compresa. Edipo raggiunge l’unico testimone dell’assassinio di Laio rimasto in vita, il vecchio servitore, per averne conferma. Una volta raggiunto sulle montagne quell’uomo, Edipo lo costringe a dire “quello che non si può dire”: che il re di Tebe che ha ora innanzi a sé è il figlioletto di Giocasta e di Laio che egli aveva abbandonato sul monte Citerone molti anni addietro. Edipo ritorna al palazzo, ormai cosciente dell’avverata profezia. Lì trova Giocasta che si è uccisa, impiccandosi nella stanza da letto. Allora, con un gesto fulmineo e ferino, simile a quelli con cui ha fatto strage di Laio e della scorta, Edipo si acceca entrambi gli occhi con la spilla delle vesti di Giocasta. Poi, accecato, esce dal palazzo, e incomincia a brancolare nel suo buio definitivo, pietosamente accompagnato dal messaggero. Edipo e il messaggero si trovano ora, vestiti in panni moderni, sotto i portici di una Bologna di fine anni Sessanta. Edipo suona il flauto sulle scalinate delle chiese, ma è inquieto, disperato, e cerca di continuo di andarsene altrove. Camminando sempre più in periferia, attraverso panorami sconsolati di fabbriche e rifiuti urbani, Edipo giunge finalmente al prato in cui il bimbo nato negli anni Venti aveva aperto gli occhi per la prima volta. Una nuova soggettiva sulle cime degli alberi ci annuncia l’epilogo della vicenda: Edipo è giunto dove la sua vita è cominciata, e dove dunque, ora, può concludersi del tutto.
(Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, cit., pp.85-88)
[info_box title=”Edipo re (1967)” image=”” animate=””]da Edipo re e Edipo a Colono di Sofocle
Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Giuseppe Ruzzolini
Scenografia Luigi Scaccianoce; costumi Danilo Donati
Coordinamento musicale Pier Paolo Pasolini
Montaggio Nino Baragli
Aiuto alla regia Jean-Claude Biette
Interpreti e personaggi Silvana Mangano (Giocasta); Franco Citti (Edipo); Alida Valli (Merope); Carmelo Bene (Creonte); Julian Beck (Tiresia); Luciano Bartoli (Laio); Ahmed Belhachmi (Pòlibo); Pier Paolo Pasolini (Gran sacerdote), Giandomenico Davoli (Pastore di Polibo); Ninetto Davoli (Anghelos)
e inoltre Francesco Leonetti, Jean-Claude Biette, Ivan Scratuglia
Produzione Arco Film (Roma), con la partecipazione di Somafis, Casablanca, Marocco; produttore Alfredo Bini
Pellicola Kodak Eastmancolor; formato 35 mm, colore; macchine da ripresa Arriflex
Sviluppo, stampa, effetti ottici Technicolor italiana
Registrazione sonora NIS Film; missaggio Fausto Ancillai
Distribuzione Euro lnternational Films.
Riprese aprile-luglio 1967; teatri di posa Dino De Laurentiis Cinematografica, Roma; esterni Veneto, Bassa Lombardia [Cascina Moncucca e dintorni], Sant’Angelo Lodigiano, Bologna; Marocco: It’ben addu, Ouarzazate; Zagora
Durata 104 minuti
Prima proiezione XXVII Mostra di Venezia, 3 settembre 1967
Premi XXVIII Mostra di Venezia, Premio CIDALC (Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts et des Lettres par le Cinema); Grolla d’oro, Saint Vincent, 6 luglio 1968; Premio Nastro d’Argento 1968 a Bini e Scaccianoce. [/info_box]