L’onnipotenza di Pasolini e la mia invidia
Walter Siti, 1° maggio 2003
Il curatore dei Meridiani, Walter Siti, risponde alle critiche di Carla Benedetti
Archivio “Unità” – http://www.unita.it/
Carla Benedetti ha scritto una recensione, in forma di lettera, ai due ultimi Meridiani delle opere complete di Pasolini, da me curate. Più che una recensione è, a dir la verità, un grido di indignazione contro la mia curatela – leggendo il mio saggio finale su come lavorava Pasolini, la Benedetti ha avuto la rivelazione, o la conferma definitiva, che io ho schiacciato e travisato l’opera pasoliniana («quella che ci hai consegnato», scrive, «non è l’opera di Pasolini»).
Mi sono trattenuto, trattenuto per dieci volumi e alla fine non ne ho potuto più, ho gettato la maschera e ho sputato fuori tutto il mio odio represso per l’autore che studio da trent’anni. Come è tipico delle indignazioni, la scrittura monta fino a perdere il controllo, e le dieci righe iniziali puramente liturgiche, sulla «difficoltà» e il «valore» dell’impresa editoriale, precipitano verso la fine nella definizione di tutto il mio lavoro come di una «cacchina» (di piccione, a essere precisi). Proviamo, se si può, a ragionare con calma, sgombrando per prima cosa il terreno dalle sciocchezze.
È una sciocchezza, e spero che la Benedetti se ne renda conto, dire che la scelta di pubblicare le opere di P. in ordine cronologico, senza collocare in sezioni separate gli editi e gli inediti, è qualcosa che «nessun editore avrebbe forse accolto, se non fosse che Pasolini vende, in qualunque modo lo confezioni» – è una sciocchezza offensiva, oltre tutto, per Renata Colorni, la responsabile mondadoriana dei Meridiani, che di tutto si può accusare tranne che di accettare qualunque cosa purché si venda, e che ha anzi dimostrato di essere attenta a sperimentare forme non tradizionali di curatela, purché il progetto del curatore la convinca. Ne abbiamo parlato, e a lungo. L’idea di considerare l’ opera omnia di un autore come un gigantesco macrotesto, e di trattarlo come molta filologia recente fa per i testi, cioè evidenziandone anche graficamente la genesi, la crescita e le derive più che il risultato finale, è un’idea che sta tentando e convincendo alcuni, sta respingendo altri – ma è comunque qualcosa che merita di essere discusso da filologi veri, non da un dilettante in questo campo come sono io – e che soprattutto non merita di essere liquidato, con una sola mossa di fastidio, da qualcuno come la Benedetti che di filologia palesemente non sa nulla. (Tanto per puntualizzare, visto che la Benedetti presa dalla sua vis polemica ha dimenticato di dirlo, nella nostra edizione non si «azzera» affatto la distinzione tra edito e inedito, semplicemente non la si evidenzia dal punto di vista grafico, ma l’apparato consente sempre di seguire anche le minime avventure di ogni singolo testo).
Altra sciocchezza è accusarmi di «ridurre l’opera di Pasolini al documento di una patologia» – mi citi la Benedetti una sola riga in cui io svaluto o «riduco», che ne so, Le ceneri o La ricotta o gli Scritti corsari, adducendo come prova fatti biografici o psicologici. Non sono tra quelli, è vero, che pensano che la biografia non c’entri niente con l’opera – chi l’ha sostenuto, da Poe a Proust, predicava bene e razzolava malissimo. Ma veniamo agli argomenti seri, che si possono ricondurre sostanzialmente a due: 1) ho sovrapposto me stesso a Pasolini e, forse inconsciamente, ho voluto «distruggerlo», spinto in questo da una mia «ambivalenza», dal desiderio di «far fuori» un fratello maggiore troppo grande, 2) ho sottovalutato la «discontinuità significativa» tra la prima e l’ultima produzione pasoliniana, rischiando di ridurre, ancora una volta, a fatti psicologici quella che invece è l’invenzione di una «forma progetto».
Quanto al primo punto, credo che si potrebbe andare molto più in là. Ho lottato con Pasolini da quand’ero ragazzo, ne sono stato sedotto e respinto, ancora adesso ho l’impressione che con le sue mani di morto non voglia lasciarmi andare. Forse come curatore avrei dovuto nasconderlo, ma non ne vedevo la necessità e mi sembrava anche disonesto. Pensando al suo modo di essere omosessuale, al suo bisogno quasi esclusivo di far l’amore con ragazzi non-omosessuali, sento salire un dolore violento, una voglia di gridare «no», un’estraneità che si tramuta in rabbia, pensando alla sua vita, tutta giocata sull’eccezione, mi scatta un’ansia di esaltare la mediocrità, di lodare la nobiltà del compromesso, del grigiore, del tirare-la-carretta. La mia impotenza contro la sua onnipotenza, certo.
Ambivalenza, però, significa appunto ambivalenza: scrivo davvero così male da non aver lasciato intravedere, dietro quelli che la Benedetti chiama «rimproveri», o «rinfacci», tutta l’invidia, e quindi l’ammirazione, per la sua leggerezza, per la sua vitalità, per il suo coraggio?
Questi i miei panni sporchi, ma, se non vuole applicare anche a me il teorema del «Leopardi era pessimista perché aveva la gobba», la Benedetti ammetterà che non basta questo per togliere ogni valore ai miei giudizi e alle mie interpretazioni. Pasolini ha scritto molte cose brutte, qualcuna certo non l’ha pubblicata ma qualcuna l’ha pubblicata proprio lui (e del resto non ha pubblicato alcune cose bellissime), certo avrei potuto nascondere l’enorme materiale quasi-informe in un pudico «inferno» di testi inediti (o addirittura tacerli, lasciare che qualcun altro dopo di me li pubblicasse), ho preferito buttare la bruttezza nella mischia, farla diventare un giocatore in campo. La bruttezza è una cosa molto rispettabile, quando la bellezza diventa un trucco.
Vengo così all’ultimo punto, che mi sembra il più importante. Insisto che il bisogno pasoliniano di travalicare i limiti della forma, di privilegiare il laboratorio sul prodotto finito, non è affatto localizzabile nell’ultima parte della sua produzione ma investe l’intero suo percorso creativo (e credo di averlo anche dimostrato), nell’ultimo periodo lo ha teorizzato, e non è nemmeno detto che sia stato un bene. Quel che mi ha sempre affascinato, di questo suo fare, è il corpo a corpo tra il dolore e la forma, tra l’immensità e la stupida tirannia del desiderio e la percezione che la forma non basta mai a quietarlo – che la forma, insomma, non «risolve», non può essere un escamotage per evitare l’infinita dissimmetria. Per me è tutto molto concreto, fatto di vita bruta, scema, e di salvezza cercata nelle parole, tra crisi nervose e volgarità narrative, lo sperimentalismo pasoliniano l’ho sempre percepito come nascente da un bisogno elementare di sopravvivenza (da lì deriva, per esempio, il mio secondo romanzo einaudiano, se è a questo che la Benedetti si riferisce parlando della mia «opera» distinta dal mio «lavoro di curatore»).
Quando la Benedetti parla della «forma progetto», le mascelle già un po’ si aprono per la noia, mi sembra tutto terribilmente «di testa», mi sembrano furori astratti, dove c’è molta teoria e poca letteratura, quella pratica, quella che si legge. Forse la differenza è proprio qui: che la Benedetti in fondo «avanguardizza» Pasolini, lo vuole trascinare su un terreno che gli è sempre stato estraneo, quello di un’assoluta novità «epocale» e, appunto, astratta – mentre lui era uno che anche le teorie le capiva a suo modo e le applicava sùbito, magari barando, alla scrittura – uno che non smetteva di soffrire (o di ridere) come un ragazzo, con un piede in quel che ancora non c’era e un altro nel vecchiume più kitsch.