“Porcile” di PPP riletto da Valerio Binasco. Una scheda di Désirée Massaroni

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, una recensione di Desirée Massaroni, giovane studiosa e critica di teatro, scritta al riguardo della rilettura di Porcile da parte del regista Valerio Binasco. La perplessità su questa recente trasposizione teatrale, fiorita nella vistosa Renaissance di cui ha goduto l’opera pasoliniana nel quarantennale dalla morte, è legata allo stravolgimento macchiettistico del testo, con conseguente espunzione del suo autentico nucleo problematico e polemico.
Secondo la studiosa questa restituzione “spettacolare” della ben più complessa drammaturgia pasoliniana non solo opera una sostanziale tradimento della proposta dell’autore, ma soprattutto si giustifica all’interno dell’assenza diffusa della funzione intellettuale, fenomeno che pare contrassegnare oggi la vita culturale del nostro Paese e comprovarne la tendenza all’appiattimento su facili parametri di consenso.
Fermo restando il principio che il linguaggio della scena resta linguaggio specifico e legittimato all’autonomia interpretativa rispetto a quello verbale, il dibattito è dunque aperto.(af)
  

“Porcile” per la regia di Valerio Binasco
Dal teatro di Parola al teatro del riso, dell’urlo e della censura
 

di Désirée Massaroni

In occasione del quarantennale dalla morte di P.P.Pasolini si sono susseguiti una pletora di spettacoli a lui dedicati, di riproposizioni teatrali di suoi testi drammaturgici, cinematografici e letterari. Vale la pena rispetto a questo fare compulsivo e partecipativo, che tanto ci dice di come il bisogno dell’intellettuale non sia solo una questione di lana caprina, considerare tuttavia la modalità ricettiva di alcuni registi e autori teatrali.
Porcile, per la regia di Valerio Binasco, è uno spettacolo che tende fin dalle prime battute a costruire una messinscena volta al riso; desta il riso, ad esempio, la ridicolizzazione del giovane Julian che il regista imposta sull’attore, tendendo a eliminare le punte più irte del testo, evirandolo di tutto il discorso ideologico-politico pasoliniano, che poi è quello culturale, quotidiano, si direbbe a noi familiare.
Nello spettacolo traspare poi una recitazione sopra le righe che riduce, in sostanza, gli altri attori a macchiette secondo una grammatica scenica vòlta a compiacere il pubblico. La colonna musicale esalta tale scelta registica, differenziandosi assai dall’uso straniante e disempatico della musica e del suono che Pasolini proponeva, ad esempio, in Salò-Sade.
L’incentivazione al riso è parallela alla manipolazione del testo pasoliniano cosicché lo spettatore che non abbia letto Porcile fatica a comprendere una parte del dialogo fra Klotz ed Herdhitze e soprattutto assiste alla vicenda di Julian ignaro del suo incontro filosofico-dialettico, fortemente simbolico con Spinoza (episodio totalmente espunto).
Qualcuno potrebbe dire che lo “spettacolo” comunque c’è… ma non è tale estremizzazione di forma-spettacolo ad appiattire il senso dello spettacolo e le sue possibilità di comunicazione? E peraltro non è proprio lo spettacolo ciò che Pasolini aborriva? E, al di là di Pasolini, il teatro non dovrebbe essere in primo luogo un rito culturale? E dunque laddove il teatro si pone, almeno idealmente, contro la società dello spettacolo rea di ottundere il pubblico, Binasco cosa vi oppone? Si direbbe un’operazione naturalistica, una resa più umana dei personaggi, sebbene non sia chiaro in quale contesto storico-sociale essi si collochino. Siamo negli anni ’60, ma Julian indossa un modello di giacca che farà la sua comparsa solo negli anni ’80. Le scarpe calzate dalla madre di Julian appartengono ai decenni post anni ’70. Due personaggi ballano una musica con sullo sfondo dei danzatori anni ’30. Il maggiordomo ha gli stessi pantaloni neri del signor Klotz il quale all’inizio indossa un abito stropicciato con la giacca troppo corta e i pantaloni che gli arrivano sotto le scarpe (il tutto, appunto, secondo la logica macchiettistica).
E allora se Binasco ha voluto “distruggere” il Pasolini classico, cosa vi ha opposto? Un diverso impianto o sguardo teorico-critico? (D’altronde ogni pars destruens rischia di farsi risposta sterile e intransitiva senza l’operato della pars costruens).

"Porcile" di Pasolini. Regia di Valerio Binasco. Foto Luca Del Pia
“Porcile” di Pasolini. Regia di Valerio Binasco. Foto Luca Del Pia

Il lavoro di Binasco stimola di certo più di una riflessione; Julian è un giovane mal digerito dal potere o dal sistema in cui viviamo. Il Julian pasoliniano si fa divorare dai maiali per non opporsi né compiacere il padre. Ed è proprio di questo che Binasco sembra “ridere” volendo così disattivare il comportamento problematico del personaggio, della storia e del testo.
La regia di Binasco è, invero, rappresentazione di una puntuale realizzazione metateatrale dell’odierno potere sui giovani infelici, privi e deprivati di quei sogni che donino la parola. Nel dialogo eliminato fra Julian e Spinoza sappiamo che Julian su invito del filosofo abiura alla Ragione; rinuncia ad aderire ai due volti del Potere (fascismo e comunismo) e sceglie di morire evitando di farsi egli stesso Potere. In quest’ottica il Logos (come Discorso) costituisce una valenza fondamentale in tutta la produzione letteraria e artistica di Pasolini; in opposizione al gesto e all’urlo, la parola per Pasolini conserva (anche nel suo cinema) la funzione di essere vessillifera della verità critica, di un rapporto intellettivo e poetico-conflittuale con la realtà.
La tendenza generale all’esorcismo mediante il riso (nelle varianti orrorifiche e demenziali) come volontà di non affrontare il “problema” era stata riscontrata da Goffredo Fofi negli anni ’80. E il teatro di Binasco, talvolta, tende ad inverare il “sistema” quando appare servirsi degli sforzi compiuti dai teorici e critici per “convertirli” alimentando un pubblico che, obnubilato da un immaginario di massa, è incapace di interessarsi a qualsiasi contenuto che non sia precompreso in un consenso di “massa”.
Binasco sa bene che il pubblico, soprattutto di giovani, ha bisogno di affermarsi come soggetto sociale, di aprirsi a grandi momenti collettivi; ma ciò è come se finisse nella derisione unanime, sebbene sia solo prendendo sul “serio” il gesto di Julian che possiamo catarticamente guardarci dentro e conoscere la nostra condizione di individui che hanno accettato la logica o del suicidio o del potere. In quest’accezione i figli “martiri” o vittime sacrificali di Pasolini, laddove non sono né disubbidienti né complici, devono morire o, in altri termini, realizzare “il proprio desiderio” o essere coerenti con la verità del proprio desiderio; essi non eliminano l’impuro e assumono su loro stessi il peso della scelta singolare (dunque si può parlare di un’etica del desiderio nel pensiero pasoliniano?) di uscita da tale condizione e cognizione tragicamente annichilente e nichilistica.
C’è da chiedersi tuttavia se questo tipo di teatro “dedicato” a Pasolini non rifletta una società, una politica, fondate su questo. Di certo il riso, come il provocarlo, da arma irriverente, diviene strumento di conformismo; gli attori “caricature” scatenano una risata unanime tendente quasi a un dispotismo e a uno stato di costrizione, in quanto chi de-(ride) pretende che anche gli altri de-(ridano). Infatti nell’attivazione  di dinamiche del riso si agogna ad attirare il consenso dalla propria parte, tentando così di ovviare all’assenza di ragioni o argomentazioni. Il riso, scoprendo nel suo principio i nessi non più semplicemente per istruire o per riflettere la società, ma per trasformarla o per conservarla, contribuisce in modo deciso all’instaurazione di un nuovo ordine morale mediatico. Insomma quello che Pasolini ci aveva profetizzato nelle sue opere.
In limine, si può supporre che probabilmente Pasolini avrebbe reputato quello di Binasco come forma di un teatro «del Gesto e dell’Urlo» che lui rigettava al pari del teatro «della Chiacchiera» borghese, impugnando invece la causa di un teatro come Rito Culturale, fondato su una parola drammaturgica forte, dialetticamente complessa, poetica e problematica.

"Porcile". Cofanetto
“Porcile”. Cofanetto

Ma il punto su cui ragionare e che spiega il teatro di Binasco (ma diciamo anche di tanta letteratura e di tanto cinema coevi) è che gli odierni destinatari della parola (soprattutto i giovani così allevati) si aspettano da essa certezze assolute, ricette, soluzioni, non problemi. E dunque – rigettando il contatto con la parola, che per sua natura può fornire soltanto la verità possibile della visione critica – torneranno facilmente alla scrittura-chiacchiera e alla scrittura-gesto. Da ciò l’odio per la parola e il disprezzo per i suoi portatori, i malfamati intellettuali.
Si potrebbe obiettare come il pensiero di Pasolini sia solo, parafrasando Marx, una diversa interpretazione del mondo, laddove si tratta di trasformarlo. Ma il pensiero e l’azione sono stati e sono sempre intrinseci e sinergici; l’odierno deprezzamento del lavoro degli intellettuali, e un certo stato di incertezza e malessere diffuso, provocati dall’intellettuale assente, ci dice sia di una profonda crisi collettiva sia di come la “questione intellettuale” sia fondamentale in questo frangente storico. Senonché la prassi, l’azione politica diretta, è possibile solo se include un fondamentale lavoro di conoscenza e di coscienza. Come dire, ricordando Adorno, che la vera meta è l’origine.