Il ricordo di Nico Naldini del cugino PPP (30 ottobre 2005)

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Fondo Angela Molteni

La vita

In un’intervista rilasciata il 30 ottobre 2005 a Francesco Mannoni, de “La Provincia di Sondrio”, il poeta e scrittore Nico Naldini ricorda il cugino Pier Paolo Pasolini alla luce delle tante esperienze culturali e cinematografiche vissute insieme. Ne emerge il ritratto a tutto tondo di un artista adamantino e coraggioso cui ha posto fine una tragica morte, sulle ragioni della quale Naldini insiste anche in questa occasione a rigettare ogni ipotesi di retroscena politici.  

Il poeta Pasolini “cantore di borgata contro la modernità”
intervista a Nico Naldini di Francesco Mannoni

“La Provincia di Sondrio” – 30 ottobre 2005

«Io e Pier Paolo siamo figli della guerra, nel senso che i nostri padri erano due giovani soldati della prima guerra mondiale, abbastanza amici fra loro, che sposarono due sorelle di Casarsa: mia madre e la madre di Pasolini. Tra Pier Paolo e me c’era una differenza di sette anni, ma già da ragazzino io gli andavo sempre dietro».
Il poeta e scrittore Nico Naldini, cugino di Pier Paolo Pasolini ha accettato di ricordare il parente e amico nel trentennale della morte. Naldini, che con La Cargo edizioni ha appena pubblicato Come non ci si difende dai ricordi, un amaro racconto in cui la morte di Pasolini è il filo conduttore della memoria, parla del cugino come se fosse presente. «A differenza di tanti altri adulti – dice -, Pasolini aveva per me e per i miei coetanei un’attenzione pedagogica. Durante la seconda guerra mondiale, siamo stati suoi allievi in quarta e quinta ginnasio. Insegnandoci latino, greco, italiano e inglese, ci ha formati culturalmente, dandoci anche qualcosa in più: l’aspirazione a un miglioramento continuo personale e anche morale».

Nico Naldini e Pasolini nel 1947
Nico Naldini e Pasolini nel 1948

Il fattaccio che lo costrinse a lasciare Casarsa, fu davvero un episodio scandaloso come lo ricordano?  
Accetto, ma non condivido i termini fattaccio e scandaloso. Era il 1949, Pasolini aveva 27 anni e, per accuse relative ad una presunta relazione omosessuale, fu espulso dalla scuola e dal partito comunista. Per difendersi dal comandante dei carabinieri di Casarsa che lo interrogava in modo stretto sulla vicenda, lui ha creduto di potersi giustificare, dicendo che era stato suggestionato da certe letture di Gide e che aveva voluto fare un’esperienza simile. Il partito comunista reagì nel modo più ingenuo, prendendo per buone quelle dichiarazioni che servivano soltanto a discolparlo, e lo espulse dicendo che Pasolini era impregnato di cultura decadente borghese.

Dopo che Pasolini lasciò Casarsa, vi vedevate spesso?  
Da Casarsa andò a stare a Roma presso nostri parenti. Io lo andavo a trovare spesso, anche perché avevo rapporti con l’ambiente culturale romano, ma, specialmente dopo che mi trasferii a Milano per lavorare nella casa editrice Longanesi, lo vedevo con molta più frequenza. Dagli anni Settanta ho cominciato a lavorare nel cinema nella casa produttrice dei suoi film, e ho collaborato con lui per il Decameron, e gli altri film della trilogia. Per Salò ho partecipato a tutte le fasi del film, dalla sceneggiatura alla preparazione, e, quando Pasolini è morto, ho dovuto affrontare da solo una situazione turbolenta, grazie però ad alcune istruzioni avute prima da lui su come intendeva impostare la difesa del film.

Da lingua e dialetto elaborò una cifra linguistica efficacissima nella poesia, nei romanzi e nei film: come arrivò secondo lei al connubio perfetto tra lingua e dialetto?  
La nostra famiglia materna era di estrazione piccolo borghese, però il mondo intorno era di vecchi contadini, e abbiamo assistito ai riti agresti e al linguaggio che li accompagnava prima dell’avvento della meccanizzazione. Il dialetto era il friulano dei contadini, non era mai stato scritto benché il Friuli abbia da molti secoli una tradizione letteraria di tipo dialettale e campanilistica, perché quella della zona sulla riva destra del Tagliamento era semplicemente una lingua di comunicazione tra contadini. Pasolini assunse questo dialetto non solo come metro linguistico, ma come mezzo etico di conoscenza del mondo in rapporto con la realtà.

È stata un’operazione molto complessa…  
Perché? Pasolini si è immerso ed è diventato compartecipe, quasi consanguineo al mondo dei giovani contadini di Casarsa, e l’ha trasferito nelle sue prime poesie ma anche nella forte immaginazione di un universo popolare. Una volta a Roma, un’operazione analoga l’ha compiuta nelle borgate romane, e il romanesco parlato in questi quartieri ha dato adito poi ai suoi romanzi.

Romanzi come Ragazzi di vita e Una vita violenta nascono proprio dallo studio del mondo dei borgatari?
Certo, uno studio non dottrinario, non tecnico, ma vissuto attraverso il contatto diretto con il mondo popolare delle borgate che allora erano luoghi ignoti, terre incognite. Anche le gerarchie del partito comunista non sapevano che esistessero. Credevano che fossero dei proletari: no, erano dei sottoproletari, qualcosa di peggio. Pasolini ha descritto il mondo popolare di Casarsa e delle borgate romane ed è lì la chiave poi del Pasolini apocalittico che si scaglia contro l’epoca moderna, e fa le sue riflessioni e le sue battaglie, perché il dolore di aver visto tramontare questi due mondi, per lui era immenso.

Il Pasolini poeta, invece, su quali basi conferma la sua ispirazione?
Il Pasolini poeta nacque quando la poesia ermetica dominava il panorama intellettuale, e lui reagì subito a quel mondo ermetico preferendo riferirsi ai poeti dell’Ottocento come Leopardi e Manzoni. Questo è stato il primo passo. Il secondo è stato adottare il dialetto dei contadini di Casarsa in termini poetici. E lì ha avuto il riconoscimento da parte di un grande filologo come Gianfranco Contini che scrisse una recensione al suo primo libro di poesie e confermò la sua idea di poter sfruttare il filone popolare. Questo aspetto si è poi concretizzato con le componenti sociali e politiche in Le ceneri di Gramsci, nel mondo del capitalismo, dei contrasti e delle lotte che sosteneva quotidianamente animato da una ideologia pura e indomabile.

Pasolini. Foto di Sandro Becchetti
Pasolini. Foto di Sandro Becchetti

Il politico come agiva, come si poneva al centro delle questioni che dibatteva?
Non aveva rapporti organizzativi né di responsabilità con un partito che in questo caso sarebbe stato il partito comunista, verso il quale ha diretto sempre diverse critiche. Fra l’altro disse che i comunisti italiani non avevano fatto quell’esame di coscienza che avrebbero dovuto fare alla caduta dello stalinismo. È stato sempre ritenuto un compagno di strada di cui non fidarsi perché poteva scoccare in qualunque momento una freccia polemica che la burocrazia del partito comunista non era disposta ad ascoltare. Questo benché all’interno del partito comunista ci fossero dei dirigenti che lo stimavano molto, tipo d’Onofrio. Ma soprattutto Nenni ha avuto per lui una gran simpatia. Oltre che essere scomodo, Pasolini si sentì sempre libero di dire quello che voleva e pensava, senza mai tirarsi indietro per ragioni di convenienza o di diplomazia.

Sulla sua fine sono state dette e scritte tante cose. Lo stesso Pelosi ultimamente ha parlato di complotto, di più persone che hanno ucciso lo scrittore. Secondo lei, cosa accadde veramente quella notte?  
A questa domanda da trent’anni rispondo in maniera univoca. Quando ho saputo della sua morte violenta, ho pensato ad un assassinio come tanti altri che si sono verificati tra uomini che avevano rapporti con dei giovani. Da tutte le indagini criminologiche non è venuta fuori una sola prova che l’assassinio fosse opera di più persone. Ho sempre sostenuto che Pelosi era solo. Ci sono infinite supposizioni, una più fantastica e stupida dell’altra per spiegare la morte di Pasolini. Tutte fandonie. La mia intuizione l’ho avuta il giorno dopo la morte di Pasolini quando ho visto la foto del suo assassino sui giornali. E ho pensato: questo è il tipo di ragazzo di cui Pasolini si sarebbe forse innamorato perché apparteneva alla sua tipologia erotica.

A trent’anni dalla morte, le opere di Pasolini ancora si leggono, ancora fanno discutere, creano scandalo: la sua perdurante attualità è frutto di una intelligenza che riesce ancora a turbare?  
È la forza delle sue idee, il modo di esprimerle, a tenere vivo un sentimento che nasce dal cuore ma passa per il cervello: è un’operazione che richiede grande forza culturale ma anche morale, perché combatte contro tutti. Non c’è una verità stabilita al di fuori che uno si accontenta di contemplare e buonanotte; la verità va ricostruita giorno per giorno, e credo che nel nostro tempo così incline ai compromessi, a forme di corteggiamento, di sudditanza, di sfruttamento, la sua genuinità sia sentita come un valore non più corrente, e intorno a questa assenza c’è come una nostalgia. La gente legge Pasolini per apprendere una verità taciuta provenire da colui che ha avuto il coraggio di dirla. In questo senso è quasi la coscienza di un Paese che una volta tanto non dimentica. Pasolini ha molta fortuna anche all’estero, in Germania soprattutto. I suoi libri e le sue poesie sono tradotte anche in America ed è uno degli scrittori più noti e amati all’estero.