La matrice politica del delitto PPP secondo Gianni D’Elia (2005)

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Fondo Angela Molteni

La vita

Nel settembre 2005, a trent’anni dalla morte di Pasolini, il poeta pesarese Gianni D’Elia ha pubblicato il saggio L’eresia di Pasolini. L’avanguardia della tradizione dopo Leopardi (ed. Effigie). Il volume, inteso a analizzare l’opera poetica dell’autore de Le ceneri di Gramsci e ad accreditarla tra gli esempi alti della tradizione letteraria italiana, ha contribuito a sollevare l’attenzione anche sull’assassinio di Pasolini. In un paragrafo, infatti, che l’autore ha aggiunto  dopo l’ascolto in Tv il 7 maggio 2005 della nuova versione fornita sui fatti dal reo confesso Pino Pelosi, si  ipotizza la matrice politica di quell’omicidio, la cui possibile causa potrebbe essere annidata nella criptica denuncia dei responsabili dei misteri italiani, a partire dal delitto Mattei, affidata alle pagine di Petrolio e in particolare a quelle mancanti del capitolo “Lampi sull’Eni”.
In vista dell’uscita del libro di d’Elia, si sofferma su questi risvolti scottanti Maria Serena Palieri con un articolo uscito su “l’Unità” del 9 agosto 2005.   

D’Elia: «Quel che so del delitto Pasolini» 
di Maria Serena Palieri 

“l’Unità” –  9 agosto 2005

«Ho cominciato a scrivere questo libro dopo i fatti di Genova. È rivolto ai giovani del movimento. Perché io penso che per loro sia importante scoprire Pasolini» spiega Gianni D’Elia. Il pesarese, cinquantaduenne poeta di Congedo della vecchia Olivetti, il 6 settembre con le edizioni Effigie arriva in libreria con un nuovo titolo, L’eresia di Pasolini. L’avanguardia della tradizione dopo Leopardi. Un saggio che vuole ridare all’autore di Trasumanar e organizzar un posto nel pantheon della «vera» poesia. Ma dove, in una paginetta, si annida un’ipotesi choc sulla sua morte: Pasolini fu fatto uccidere dalla stessa mente che avrebbe fatto uccidere Enrico Mattei.
Il saggio, come ci spiega Guido Calvi, finirà agli atti nella memoria con cui – dopo le affermazioni rese a maggio scorso in Tv da Pino Pelosi – si chiederà di riaprire l’inchiesta sul delitto Pasolini. Ma come succede che un pamphlet estetico-civile si trasformi in una potenziale bomba giudiziaria? Succede che, tra il 2001 dei fatti di Genova e questo 2005, D’Elia abbia ascoltato un magistrato di Pavia, Vincenzo Calia, autore di uno dei tronconi d’indagine sull’assassinio del fondatore dell’Eni: la sede era pubblica, a Roma, un incontro su Pasolini alla Casa delle Letterature. E perché mai parlava, lì, il magistrato pavese? Perché aveva deciso di mettere agli atti, in virtù della quantità di informazioni che contenevano, come «documento» insomma, non come fiction, un gruppo di pagine del romanzo pasoliniano postumo, Petrolio. Col suo pamphlet, ora D’Elia pubblicizza l’argomentare del magistrato. E avanza un’ulteriore ipotesi: Pasolini sarebbe stato ucciso per ciò che sapeva sul caso Mattei, per ciò che andava, in quegli anni, scrivendo nell’immenso brogliaccio di Petrolio. Ecco le sue parole:

Dunque, secondo la ritrattazione di Pino Pelosi in televisione (7 maggio 2005), l’omicidio di Pasolini è stato un atto premeditato e politico, non un delitto omosessuale, compiuto da più sicari. Ricomincia la ricerca dei veri colpevoli e dei mandanti, dei ricattatori che hanno imposto il silenzio e la menzogna per trent’anni. Secondo il giudice Vincenzo Calia, che ha indagato sul caso Mattei, depositando una sentenza di archiviazione nel 2003, le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragismo italiano fascista e di stato. In particolare, acquisiti agli atti, tutti i vari frammenti sull'”Impero dei Troya” (da pagina 94 a pagina 118), compreso il capitolo mancante Lampi sull’Eni, che dall’omicidio ipotizzato di Mattei guida al regime di Eugenio Cefis, ai “fondi neri”, alle stragi dal 1969 al 1980 e, ora sappiamo, fino a Tangentopoli, all’Enimont, alla madre di tutte le tangenti. Troya è Cefis, nel romanzo, dal passato antifascista macchiato, e dunque ricattabile. Calia ha scoperto un libro, che è la fonte di Pasolini, un libro nato dai veleni interni all’ente petrolifero nazionale, pubblicato nel 1972 da una strana agenzia giornalistica (Ami), a cura di un fittizio Giorgio Staimetz, Questo è Cefis (l’altra faccia dell’onorato presidente), morto nel maggio 2004. Pasolini ne riporta interi brani, ne rifà la parafrasi. Forse, aveva capito troppe cose. Il lavoro di Calia è agli atti: il mandante possibile è in Petrolio.

Ed ecco, così, tornare in scena una delle più enigmatiche figure del teatro italiano, Eugenio Cefis. L’eresia di Pasolini nasce, insomma, dal bisogno di ridare ai ragazzi d’oggi un padre possibile, l’autore appunto degli Scritti corsari.
Si sviluppa, poi, intorno a un’interessante ipotesi critica: liquidato come «impoetico» dai due fronti della nostra poesia dell’ultimo Novecento, sia dai Mengaldo che dai Sanguineti, Pasolini, sostiene ora D’Elia, «è invece un autore che va riletto nel solco di tutta intera la nostra tradizione, partendo da Dante»: è «un Lucrezio truccato da presocratico», è, nella sua «linea antidogmatica e ribelle», un leopardiano puro. Gli Scritti corsari non sono, si chiede, un equivalente delle Operette morali?
Poi, il pamphlet diventa altro: «Ho deciso di aggiungere il paragrafo sulle indagini del magistrato pavese dopo aver ascoltato Pino Pelosi in Tv. Perché, con quelle affermazioni “Non sono stato io…” si riapriva la questione dei mandanti» spiega D’Elia.

Il poeta Gianni D'Elia
Il poeta Gianni D’Elia

Petrolio – il volume postumo pubblicato da Einaudi nel 1992, il lavoro estremo destinato a raggiungere le duemila pagine ma del quale sono state rinvenute quattrocento – già presente lì, nel suo pamphlet, come corpus poetico da dissezionare, acquista tutt’altro valore: è l’oggetto la cui scia collegherebbe quarant’anni di delitti eccellenti e di stragi insolute. Il saggio che va in settembre in libreria riporta, in fotografia, il sunto effettuato da Pasolini del capitolo misteriosamente scomparso poi: sono righe in cui, ricorda D’Elia, parlando del caso Mattei il nome di finzione del potente Troya scompare e, nero su bianco, Pasolini scrive invece «Cefis». Il gioco d’ombre si dissolve, il romanziere diventa vero detective, aspira a essere testimone, storico?
L’eresia di Pasolini sarà oggetto di dibattito il 27 agosto alla Festa dell’Unità di Milano. Arriva in libreria in un trentennale che le affermazioni di Pelosi hanno già reso tutt’altro che solo celebrativo. Da trent’anni l’intellettualità italiana sul caso Pasolini è divisa: quelli che avvalorano la pista del delitto sessuale (ieri, sul “Corriere della Sera”, la ribadiva il cugino Nico Naldini) e quelli, in testa per tre decenni Laura Betti, che hanno inseguito, dietro, una verità altra. Ecco altra materia. Sperando che, come cominciando a scrivere il suo pamphlet sognava Gianni D’Elia, Pasolini, «grazie» alla sua morte, o «nonostante» essa, ridiventi ciò che è stato: il poeta e polemista da leggere, perché lui sì, sapeva.