Recensioni d’autore: lo sguardo sul cinema di Elsa Morante negli anni 1950-51

Nel 2017 è uscito per Einaudi il volume La vita nel suo movimento, che, per la cura di Goffredo Fofi, raccoglie le recensioni cinematografiche di Elsa Morante, redatte negli anni 1950-51 per un programma radiofonico della Rai. Ne esce un aspetto poco noto della grande scrittrice amica di Pasolini, capace di uno sguardo critico alternativo e sensibile ante litteram alla ricerca dello “specifico filmico”.
Sul libro pubblichiamo due analisi firmate da Maria Rizzarelli, per www.doppiozero,it, e da Emilio Ranzato, per “L’Osservatore romano”

Il cinema secondo Elsa Morante
di Maria Rizzarelli

www.doppiozero.com – 9 giugno 2017

Con la pubblicazione delle recensioni cinematografiche di Elsa Morante (edite da Einaudi nel volume a cura di Goffredo Fofi, col bel titolo La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951, Einaudi, Torino, 2017) si aggiunge un capitolo necessario e originale alla storia dei “letterati al cinema”, che costituisce senz’altro un aspetto significativo della ricostruzione del contesto culturale dell’Italia postbellica. La vocazione visuale della scrittura di Morante era stata già messa a fuoco nella monografia firmata da Marco Bardini (Elsa Morante e il cinema, Pisa, ETS, 2014), che esplora tale territorio di confine nella sua complessità e nelle sue tante sfaccettature, dalle sporadiche incursioni morantiane nell’ambito della sceneggiatura alle non troppo fortunate occasioni di adattamento dell’Isola di Arturo e della Storia.
Oltre a mostrare una delle declinazioni possibili del rapporto fra Morante e la settima arte, la silloge (che raccoglie i testi scritti per la rubrica radiofonica “Cinema. Cronache di Elsa Morante”, trasmessa dalla Rai per quasi due anni, dal marzo 1950 al novembre 1951) offre un modello di spettatorialità per certi versi in linea con la ricezione mainstream del cinema del dopoguerra (si veda per esempio il discorso sul cinema come arte e sull’adattamento, e l’affermazione che «ai capolavori si deve la massima riverenza»), per altri estremamente originale (il sostanziale giudizio negativo nei confronti dei capolavori del Neorealismo quali Ladri di biciclette o Roma città aperta). Qui, come altrove, Morante dimostra la sua decisa presa di distanza dal canone dominante, pur nel dialogo critico costante con esso, la sua differenza dai gusti dell’establishment culturale, ma al contempo l’appartenenza al suo coté. In altri termini, quel che emerge con molta evidenza è proprio la coerenza del posizionamento della scrittrice rispetto al contesto in cui è inserita; in dialettico confronto con ciò che vede e ascolta, la “cronista” non rinuncia mai alla strenua difesa dell’originalità del suo punto di vista. Come ripete Fofi nell’introduzione alla raccolta da lui curata, il giudizio di Elsa Morante «era nettissimo, sapeva vedere e sapeva capire». Invano si cercano fra le pagine che introducono la silloge notizie relative alla rubrica radiofonica e alle recensioni (per questo si rimanda all’accurato lavoro di Bardini), ad eccezione di poche righe della nota al testo che chiudono il testo di Fofi; quel che sta a cuore al curatore è il racconto della sintonia degli sguardi dei due spettatori amici (egli dice di ricordare tutti o quasi i film scelti da Morante), la coincidenza e lo scambio delle memorie di visioni. In tal modo Fofi, indirettamente, indica però ciò che non si troverà fra le pagine di queste recensioni: non ci sono cioè riferimenti ai film che hanno segnato la giovinezza della scrittrice, attraverso questi testi non vien fuori quell’“autobiografia della spettatrice Elsa Morante”, che si sarebbe potuta accostare alle pagine dei ricordi cinematografici di Calvino, Sciascia, Zanzotto e tanti altri scrittori della sua generazione.

Elsa Morante. Ritratto
Elsa Morante. Ritratto

Quel che invece suggerisce la lettura di questa inedita parentesi dell’opera morantiana è la consapevolezza delle specificità dell’arte cinematografica, dei suoi aspetti tecnici, della sua peculiare valenza estetica che nasce dalla collaborazione di persone e ruoli differenti, dall’intreccio e dalla sinergia di diversi piani rappresentativi. Se il più delle volte Morante sembra interessata alla dimensione diegetica del dispositivo, all’efficacia dell’intreccio e alla vitalità dei personaggi, non disdegna di puntare lo sguardo sugli aspetti materiali della rappresentazione filmica, dal technicolor alla recitazione degli attori, dal doppiaggio ai costumi. L’attenzione costante, anche se spesso condensata in poche righe, alla dimensione attoriale nasce non tanto dall’interesse per lo star system, quanto dalla necessità di un giudizio sul film che debba sempre tenere in considerazione la relazione fra attore e personaggio finalizzata allo sviluppo della storia che si vuol raccontare. Il giudizio negativo su Totò, espresso in più occasioni, deriva da una vera e propria filosofia dell’attore (adombrata prima nelle recensioni a Figaro qua, Figaro là di Carlo Ludovico Bragaglia e a Totò sceicco di Mario Mattoli e poi articolata con più chiarezza nella cronaca dedicata a Signori, in carrozza! di Luigi Zampa): rispetto al personaggio esistono tre tipologie interpretative: l’attore-istrione capace di adattarsi a ogni parte, l’attore-maschera sempre fedele al proprio personaggio, l’attore declamatore di un testo.
E tuttavia, per quanto emerga con coerenza una logica più o meno esplicita, si tratta pur sempre di una filosofia incarnata, che trova riscontro nella fisicità degli interpreti, tanto da arrivare ad ammettere (in un breve testo posto in appendice e dedicato a Massimo Girotti) che «lo studio di un viso d’attore è l’esercizio d’una scienza fantastica: perché sul viso di un attore si può ritrovare il disegno, e perfino il nome, dei suoi personaggi». Il giudizio sui generi (la simpatia mostrata per i western o per il cinema d’animazione, il fastidio per i gialli o l’ironica considerazione dei melodrammi) va innanzitutto letto alla luce dell’orizzonte di aspettative che un film accende nella spettatrice a partire dal suo titolo e dalla pubblicità. Le considerazioni sul film devono in qualche modo fare i conti con «echi e immagini nella mente» con le quali la scrittrice si reca al cinema, con le fantasticherie estive sui film che verranno proiettati nelle sale nella stagione autunnale e persino con i sogni: «la delusione», mista all’«ammirazione» che segna il sentimento contrastante per il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, deriva per esempio dal fatto che «il film sul Vangelo che aveva sognato era assai diverso» da quello che ha visto.
L’attenzione ai generi nasce, però, anche dalla più complessiva riflessione sui gusti del pubblico, alla quale Morante dedica spesso qualche riga, mostrandosi interessata alle reazioni della platea (al divertimento, alle risa), il più delle volte per marcare la distanza da un modello di audience ingenua e incapace di cogliere le debolezze e i difetti di un film e interessata unicamente alla finalità evasiva della storia proiettata sullo schermo.
Malgrado la dimostrazione di tale intelligenza critica, per Morante il cinema resta pur sempre un’arte essenzialmente visiva, che affida alle immagini la parte più importante del suo valore estetico. È in virtù di questa convinzione che la scrittrice dichiara il suo apprezzamento per la prima versione della Terra trema (a sostegno del quale tornerà in diverse occasioni, ritenendolo «l’opera più pregevole e originale prodotta dal cinema italiano in questo dopoguerra»), i cui dialoghi in dialetto, seppur incomprensibili, devono essere considerati (ricordando «che un tempo il cinema era l’arte muta») come un “commento musicale” delle immagini a cui è affidata la ricerca del  «vero, che è la sostanza di ogni poesia». Ed è sempre in quest’ottica che può leggersi il giudizio positivo espresso nei confronti di Miracolo a Milano. La leggerezza e la pietà che fanno, secondo Morante, di questo film di De Sica uno dei vertici del cinema italiano deriva dalla fiducia riposta dal regista «nei suoi simili, e (si direbbe da questo film) anche nel mondo delle fate».
In fin dei conti, allora, per la scrittrice il cinema è fondamentalmente una «macchina miracolosa», capace di offrire «l’illusione di assistere all’interrotto svolgersi» dell’esistenza attraverso l’invenzione di un «tempo convenzionale», che ha il «potere di dar forma visibile a ogni sorta di favole e prodigi» e di proiettare su uno schermo le menzogne e i sortilegi della »vita nel suo movimento».

"La vita nel suo movimento" di Elsa Morante. Copertina
“La vita nel suo movimento” di Elsa Morante. Copertina

Elsa Morante e il cinema- Recensioni d’autore
di Emilio Ranzato

www.news.va –  L’Osservatore Romano” – 20 marzo 2017

Leggere recensioni cinematografiche che hanno molti anni è sempre interessante, dato che il reale valore di un film si comprende spesso solo a distanza di tempo. Per quanto sia autorevole la penna che li ha scritti, dunque, quei giudizi risulteranno inevitabilmente datati o ingenui in vari punti. O, viceversa, illuminanti, nei casi in cui siano stati successivamente convalidati dalla storia della critica. Se il tempo che è passato è più di mezzo secolo, e se il critico in questione è Elsa Morante, tutto si fa ancora più interessante.
Un libro uscito in questi giorni La vita nel suo movimento (Torino, Einaudi, 2017) a cura di Goffredo Fofi, raccoglie una cinquantina di schede critiche che la grande scrittrice italiana ha redatto negli anni 1950-51 per un programma radiofonico della Rai. Una collaborazione che si interruppe quando una di queste schede fu censurata. Era dedicata a un film dimenticato, Senza bandiera di Duilio Coletti, in cui Morante aveva ravvisato un’atmosfera di nostalgia per il fascismo.
Componendo un quadro sostanzialmente rappresentativo di quel biennio, la raccolta alterna titoli noti e meno noti, ma i nomi importanti non mancano. Anche perché ogni scheda è il pretesto per allargare il campo e parlare di un intero genere o di film affini. E non mancano nemmeno i giudizi coraggiosi e controcorrente, in certi casi persino irriverenti. L’impressione generale è quella di uno sguardo assolutamente preparato e smaliziato, e di un metodo di analisi che sarebbe valido ancora oggi, solo marginalmente intaccato dalla necessità di indirizzare i commenti a un pubblico che, per quanto appassionato di grande schermo, a quell’epoca difficilmente poteva dirsi cinefilo, come capita invece spesso oggi, e che di conseguenza si aspettava dal critico spiegazioni semplici e non troppo dettagliate. Un giudizio che sicuramente sorprende, e che ricorre più volte all’interno della raccolta, è quello, severo, nei confronti del neorealismo, che Morante in genere non ama, quanto meno in quei casi in cui le sembra che l’ostinazione a rappresentare la realtà comprima lo spazio da dedicare alla poesia dell’immagine. Di molti film neorealisti non sopporta il «sentimentalismo e il materialismo», quest’ultimo inteso come meccanicismo e surrogato del realismo autentico, quello che porta diretto alla verità anziché perdersi nei dettagli del quotidiano. Diffida di ciò che definisce “zavattinismo”, ossia quella che secondo lei è la descrizione qualunquista del popolo data da Cesare Zavattini e altri sceneggiatori di analoga estrazione artistica. Sminuisce opere come Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) e Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) ed esalta, invece, La terra trema (1948) dell’amatissimo Luchino Visconti, proprio perché va oltre il realismo per cercare la poesia. Un atteggiamento che all’epoca molti avevano tacciato al contrario di estetismo. Per lei questo è l’esempio di un realismo più alto, quello che si contrappone alle opere «in cui fin l’ultimo dente del nonno ubriacone non viene risparmiato alla macchina da presa».
Nella vicenda affondata nel mito dei Valastro/Malavoglia del film di Visconti, Morante vede dunque una grandezza che non riconosce alla ricerca della bicicletta da parte del protagonista del capolavoro di De Sica. Oggi possiamo serenamente dire che quella distanza, se mai c’è stata, non c’è più. E che la piccola grande disavventura del povero attacchino, più spoglia, aperta, per l’appunto più quotidiana rispetto al racconto di discendenza verghiana, è comunque poesia pura e costituisce, seppure suo malgrado, un nuovo mito. Dire più moderno sarebbe praticamente un ossimoro, di sicuro più strettamente cinematografico. È altrettanto certo, però, che partendo dal film di Visconti, Morante dice un paio di cose giuste e illuminanti — ossia decisamente avanti coi tempi — sul cinema in generale, e in direzione proprio di quello “specifico cinematografico” che ancora doveva essere canonizzato. La prima è che quel film, con i suoi dialoghi in dialetto siciliano strettissimo, porta alle estreme conseguenze ciò che il cinema dovrebbe sempre fare, ovvero relegare i dialoghi a una sorta di ulteriore commento musicale per dare completo sfogo alle immagini. Parole lungimiranti, in un’epoca in cui il concetto di cinema d’autore non era stato ancora ufficialmente coniato e in genere ci si aspettava che lo schermo dovesse grosso modo imitare la letteratura o il teatro. La seconda riguarda invece la lunghezza e il ritmo lento del film. Quella “lentezza” che molti lamentavano e che secondo la scrittrice, invece, è il ritmo giusto, quello con cui il cinema può esprimersi al meglio. A farci bene caso, “lento”, inteso come “noioso”, è un termine che oggi non si usa più nelle recensioni, ed è al limite rimasto come ingenuo appannaggio del pubblico meno preparato. Si tratta dunque di un’altra annotazione che anticipa i tempi.
In queste schede si parla poco di cinema francese, ma Morante elogia la trasposizione di Manon (1949) e — forse sin troppo — il suo regista Henri-Georges Clouzot, che definisce addirittura uno dei massimi poeti del cinema. Mentre del cinema britannico apprezza il duo Michael Powell ed Emeric Pressburger, anche questa una scelta non così scontata. Un altro atteggiamento moderno è la mancanza di diffidenza nei confronti del cinema hollywoodiano, che di lì a poco verrà esaltato dai critici francesi con piglio semmai più provocatorio. E sempre riguardo a questi concetti da “politica degli autori” ante litteram, è da notare l’esaltazione dei primi film di Orson Welles, che in Italia ancora non erano stati capiti appieno. Anche se poi la scrittrice critica negativamente il suo Macbeth (1948), perché in quel caso le pare che l’ipertrofia visiva sia grossolana e soprattutto irriverente nei confronti di un capolavoro che esige ossequio e fedeltà assoluta. Ma anche Laurence Olivier, sullo stesso terreno, non è secondo lei garanzia di qualità: è all’altezza del compito nell’Enrico v (1944), ma meno nell’Amleto (1948).
Anche Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman non la convincono del tutto, troppi intellettualismi. Mentre Disney è un poeta quando anima la natura ma zuccheroso quando dà vita ai personaggi umani.