A Calcate (Viterbo), per la terza edizione della rassegna “Ad Arte” 2016, è andato in scena il 13 luglio 2016 lo spettacolo P.P.P. Il paese mancato, diretto da Ilario Greco e interpretato da Diego Florio, due artisti responsabili anche della drammaturgia, ispirata da testi di Pasolini. Un monologo che, come si ricava dalla recensione di Daniele Rizzo ( http://teatro.persinsala.it– 14 luglio 2016), ambisce a confrontarsi con la tormentata critica pasoliniana della modernità, senza cinici vampirismi attualizzanti o toni celebrativi e in un sincero corpo a corpo con l’irriducibile parola originale dell’autore.
“P.P.P. Il paese mancato” per “Ad Arte 2016”
di Daniele Rizzo
http://teatro.persinsala.it– 14 luglio 2016
Mente controversa e inattuale negli anni in cui l’ideologia borghese stava celebrando il proprio trionfo omologando al consumo dominante le forze che pure si proponevano di sovvertirne e rivoluzionarne l’ordine, Pier Paolo Pasolini non fu affatto l’anima bella e immacolata, dedita al sacrificio per puro anelito morale di cui oggi non si sentono che tessere le lodi. Lontano dall’essere un venerabile o un mistico vate di tempi migliori, Pasolini, per l’infinità curiosità che non lo mise al riparo da nulla, neanche dal confronto culturale con il sacro, rappresentò l’intrinseca fragilità e laicità di una secolare coscienza infelice, l’intellettuale sfolgorante, anticonformista per eccellenza, concreto e lucidissimo osservatore dei cambiamenti antropologici della società italiana contemporanea.
Schiacciato negli anni ’70 dal non essere allineabile a nessuna posizione, lo ritroviamo nei tempi moderni sottoposto a ben altra costrizione, figlia di un immaginario reso tragico da una morte tristemente spettacolarizzata. Abusato e sfruttato, travisato e strumentalizzato da coloro i quali pure ne erano stati bersaglio culturale e politico, «è evidente» (come sentiremo più volte ripetere in scena) immaginarne una ideale affinità con le riflessioni maturate nell’area francofortese. Alla domanda «perché l’umanità invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofonda in un nuovo genere di barbarie?» (Dialettica dell’Illuminismo, 1947, di Adorno e Horkheimer), il Nostro, dandone la consueta contestualizzazione locale, sembrò rispondere quasi direttamente: «il fascismo non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie la televisione) non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre», (“Corriere della Sera”, dicembre 1973).
Nonostante il suo rifiuto integrale della modernità sia stato spesso scambiato come nostalgia di un passato mitologico, piuttosto che come riflessione antropologica sulle responsabilità storico-politiche delle classi dirigenti, la principale ipocrisia di cui Pier Paolo Pasolini può essere considerato vittima è forse la mancanza di sospetto con cui viene celebrato e assunto come modello dell’alternativa, simbolo obbligato per dissidenti e disobbedienti.
Quanto è lungo, o breve, il passo dal doveroso confronto con il suo verbo alla passiva imitazione? In quale misura il suo trionfo sfugge, o meno, a una industria culturale che, per ottimizzare al massimo la propria efficacia, rende uniformi e asettici, sterilizzando emancipazione e creatività?
Il rischio che ciò accada è – «è evidente» – enorme, e il monologo P.P.P. Il paese mancato – nato all’interno delle commemorazioni per il quarantennale dalla morte – non sembra esserne immune, presentando un allestimento dai toni oracolari e una fisicità visibilmente cristologica quale sintesi di «lucide e disperate analisi sociologiche e politiche che Pasolini ha profeticamente (corsivo di chi scrive) elaborato», «che analizzano e spiegano (o cantano) le cause che hanno portato l’Italia a non compiersi, cioè a diventare quel paese abbrutito e malato […] in favore dell’avvento della nuova cultura edonistica del nuovo potere consumistico».
Tuttavia, per la trasparente coerenza e la compiuta omogeneità con cui lasciano parlare «scritti civili e articoli giornalistici raccolti in Scritti corsari e Lettere luterane» in un pastiche di citazioni testuali alternate a inserti video (La ricotta e interviste), accettando anche la temporalità di un lessico, forse desueto per le nuove generazioni, ma carico di responsabilità storica (PCI, DC, lira, la stessa televisione), Ilario Grieco e Diego Florio mostrano di cogliere con la giusta consapevolezza e il necessario coraggio la sfida di una testimonianza quanto più diretta e meno filtrata possibile, dunque l’azzardo di un sincero rispetto, così evitando di riparare nell’«ombra del cinico opportunismo […] di ogni doverosa operazione culturale che queste ricorrenze generano».
Ambientandosi con semplicità all’interno di un mondo ormai ridotto a discarica, fuggendo la tentazione di una completa identificazione con la persona attraverso la narrazione di fatti successivi alla morte di Pasolini, P.P.P. Il paese mancato fa probabilmente qualche concessione alla retorica, ma, complice la prolungata standing ovation tributata dal pubblico, sembra allo stesso tempo riuscire a creare le condizioni concettuali per una messa in scena in grado di spalancare per gli astanti una spirale abissale, tra il poetico e il narrativo, di un progetto che, di conseguenza, merita di essere seguito e che ben si colloca nel clima culturale promosso da questa terza edizione di Ad Arte.
Info In scena all’interno di “Ad Arte 2016” – TeatroCineFestival
Teatro alla Greca
zona Capomandro, Calcata (Viterbo)
13 luglio, ore 21.30
Teatramolisani e Metaschimatismòs
P.P.P. Il paese mancato
da testi e opere di Pier Paolo Pasolini
drammaturgia di Ilario Grieco e Diego Florio
regia Ilario Grieco
con Diego Florio