Pasolini. Non ci serve una nuova etica, ma una conoscenza più vera
di Fabrizio Sinisi
ilsussidiario.net, martedì 22 gennaio 2013
«La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà», scriveva Pasolini in un brano – I giovani infelici – delle Lettere luterane; un’affermazione datata quindi 1975. A quella data, per molti aspetti Pasolini non si sentiva ormai quasi più la stessa persona che, poeta e non ancora polemista (la differenza non è solo un dettaglio), pubblicava nel 1957 Le ceneri di Gramsci, uno dei più bei libri di poesia del Novecento. Nell’attacco di uno, forse il più noto, di quegli undici poemetti – Il pianto della scavatrice – Pasolini scriveva:
Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Sono versi in cui Pasolini faceva drammaticamente i conti, tirava bilanci: lui, pur così giovane (aveva trent’anni). Ribadiva la necessità del presente, dell’impossibilità di accontentarsi di qualcosa che non stesse accadendo ora. Ma soprattutto stabiliva una sinonimia – quella tra amore e conoscenza – che è in qualche modo il quid, la cifra costitutiva di tutta la sterminata opera pasoliniana, e che ha nelle Ceneri di Gramsci forse il suo momento più alto e bello, più commosso. Ma ancora: Le Ceneri di Gramsci registrano anche la presa d’atto di un’insufficienza, quella della cultura marxista a interpretare tutto l’umano, e l’insorgere, sia pur confuso, di una speranza: quella di opporre a quello scacco culturale una nuova idea di ragione, che si proponesse di comprendere non solo la dinamica storica, ma anche la natura stessa dell’essere uomini. Quella natura che gli faceva denunciare, davanti alla tomba dell’amato Gramsci, un inesorabile stridore: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere». Sempre quella natura che, ne L’umile Italia, gli faceva dichiarare:
È necessità il capire
e il fare: il credersi volti
al meglio, presi da un ardire
sacrilego a scordare i morti,
a non concedersi respiro
dietro il rinnovarsi del tempo.
Eppure qualche cosa è più
forte del nostro ardore empio
a maturare nella mente
a fare della natura virtù.
Del resto, va riconosciuto che, se c’è un elemento tipicamente e assolutamente “pasoliniano”, sta proprio in quella sua instancabile ansia di capire. «Nel nostro tempo non si può scindere l’amare dal capire», dirà ne I clericali e la famiglia. E poi, anni più tardi: «Non impegnarsi almeno in un tentativo di capire, è l’indizio di mancanza d’amore e d’umiltà». E ancora, il verso, bellissimo e folgorante, di Picasso (sempre nelle Ceneri): «Quanta gioia in questa furia di capire!».
Certo questa vera e propria fame di razionalità diventa più comprensibile se si pensa che, in Pasolini, la comprensione razionale costituisce il più profondo atto d’amore che si possa compiere nei confronti dell’oggetto: il quale, a sua volta, solo in una vera conoscenza può essere realmente amato – e mai a prescindere da questa. «A me interessa, prima di morire, di capire il mondo in cui sono, non di goderlo attraverso un qualche possesso che non sia d’amore» scriveva Pasolini a Biagio Marin nel 1955.
Nelle Ceneri di Gramsci Pasolini non chiedeva quindi una nuova etica, ma la possibilità di una comprensione più vera, più viva, più esauriente delle cose. Egli attraversa tutto il tentativo della cultura marxista (ne è in qualche modo un esempio, un emblema), la percorre con ansia quasi religiosa; e infine la supera dall’interno, constatandone l’insufficienza, presentandone la testimonianza poetica. Un’insufficienza che ha il suo epicentro in una mancanza sostanziale: la scarsa attenzione, se non addirittura l’indifferenza, per l’io. In Pasolini il problema dell’io, la dignità della persona, è sempre e comunque centrale: come una forza di gravità, la questione del soggetto rivendica la superiorità rispetto ad ogni altro problema – forse persino rispetto ai grandi drammi della storia:
Una società
designata a perdersi è fatale
che si perda: una persona mai.
E fatale potrebbe forse apparire anche la parabola di Pasolini stesso: che, abbracciato il marxismo anche (e forse soprattutto) per sfuggire ad una incompiutezza, una eccessiva affezione a se stesso che iniziava ad apparirgli problematica, vertiginosa e irrisolvibile, finisce poi per scoprire – nel concreto approccio storico – che ciò che più conta nella storia dell’uomo è proprio l’io. E su questa irriducibilità fondare il proprio tentativo e la propria lotta.
[info_box title=”Fabrizio Sinisi” image=”” animate=””] Nato a Barletta nel 1987, Fabrizio Sinisi si è laureato in Lettere moderne nell’Università di Bari con una tesi su Pier Paolo Pasolini. Dopo alcune isolate apparizioni poetiche, ha esordito in volume con La fame (Archinto, 2011). Collabora con il mensile «Studi Cattolici», dove sono apparsi alcuni suoi studi su Dante, Leopardi, Baudelaire, Kafka, Ungaretti, Pasolini. In teatro, ha lavorato come dramaturg a numerose messinscene: tra le altre, I promessi sposi alla prova di Giovanni Testori (Milano, 2010) e l’opera lirica Lo stesso mare di Fabio Vacchi e Amos Oz (Bari 2011), entrambe per la regia di Federico Tiezzi; La morsa di Luigi Pirandello (Firenze 2011), per la regia di Arturo Cirillo. Ha tradotto e curato la drammaturgia del testo Giobbe, o la tortura dagli amici di Fabrice Hadjadi (Marietti 2011), messo in scena con la regia di Andrea Maria Carabelli (Rimini 2011). Nel 2011 ha scritto i prologhi e curato la drammaturgia del Woyzeck di Georg Büchner a cura di Federico Tiezzi (Pontedera, 2011), all’interno dell’esperienza del “Teatro Laboratorio della Toscana”.[/info_box]